di Gioacchino Toni

Nel corso degli anni Settanta, analogamente a quanto accade in altri paesi, anche in Italia molte donne, più o meno legate ai movimenti femministi, si incontrano con la pratica fotografica secondo molteplici direzioni che spaziano dall’ambito documentaristico a quello artistico, secondo modalità che, anche quando non direttamente militanti, con una consapevolezza del tutto nuova del proprio operare e del proprio ruolo, concorrono a sviluppare tanto una riflessione identitaria, quanto una testimonianza circa la condizione femminile nella società italiana del periodo.

Nel corso del 2020 il Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo ha organizzato il convegno di studi intitolato “Rispecchiamento, indagine critica, testimonianza. Fotografia e femminismo nell’Italia degli anni ’70”, curato da Cristina Casero, docente di storia della fotografia e di arte contemporanea. L’iniziativa milanese ha inteso riflettere sull’importanza che la pratica fotografia “in mano alle donne” ha assunto nel panorama italiano degli anni Settanta. Il Convegno, moderato da Cristina Casero e Giovanna Calvenzi, attraverso i contributi di studiose da tempo impegnate nell’indagare il rapporto tra fotografia e femminismo (Linda Bertelli, Lara Conte, Elena Di Raddo, Laura Iamurri, Lucia Miodini, Federica Muzzarelli e Raffaella Perna) ha approfondito le ricerche di alcune fotografe italiane impegnate nell’elaborazione di una riflessione del tutto nuova sulla donna.

È dai contributi esposti durante il Convegno che deriva il volume di Cristina Casero (a cura di), Fotografia e femminismo nell’Italia degli anni Settanta. Rispecchiamento, indagine critica e testimonianza. Rispecchiamento, indagine critica e testimonianza (postmedia books, 2021) in cui sono raccolti saggi delle studiose che hanno preso parte all’iniziativa milanese, oltre che contributi e testimonianze di Paola Agosti, Isabella Balena, Marina Ballo Charmet, Liliana Barchiesi, Giovanna Calvenzi, Marcella Campagnano, Paola Di Bello, Bruna Ginammi, Gabriella Guerci, Silvia Lelli, Marzia Malli, Paola Mattioli, Donata Pizzi, Agnese Purgatorio e Livia Sismondi.

Riflettendo sulla sua esperienza personale di donna alle prese con la fotografia tra anni Sessanta e Settanta afferma Giovanna Calvenzi:

molte di noi si sono trovate con una macchina fotografica in mano. Eravamo tante. Venivamo da storie ed esperienze diverse eppure le intenzioni, i progetti, i sogni e l’impegno erano comuni. Alcune di noi erano legate ai gruppi extraparlamentari, altre al femminismo. In breve siamo diventate una gruppo forte e solidale. Frequentarci significava discutere di fotografia e di femminismo, fare progetti insieme. Io fotografavo in modo molto mediocre, non volevo diventare una fotografa ma amavo lavorare con le mie amiche (p. 137).

Le parole di Calvenzi evidenziano come la pratica fotografica delle donne nel corso di una delle più radicali stagioni di lotte sia stata anche una pratica collettiva, di una comunità solidale, oltre che un momento di riflessione ed analisi individuale.

Cristina Casero, curatrice del volume, oltre a ricordare come la fotografia sia stata uno degli strumenti privilegiati di proposta di un’immagine “altra” della realtà rispetto a quella “ufficiale”, maschile, evidenzia come donne artiste e fotografia si siano trovate ad essere accomunuate da un’analoga dimensione “alternativa”: le prime nei confronti del potere culturale degli uomini che tendenzialmente tendeva ad escluderle, e l’altra nei confronti della pratica pittorica a cui spettava una sorta di ruolo privilegiato, se non egemone, in ambito artistico. Da un certo punto di vista si è trattato di un incontro tra “visioni alternative” al potere. Mettere in relazione la tecnica, storicamente dato culturale maschile, con l’occhio della donna ha significato innanzitutto mettere in discussione quella rappresentazione del mondo maschile imposta come assoluta.

Le modalità con cui nel corso degli anni Settanta in Italia le donne hanno fatto ricorso alla pratica fotografica sono indubbiamente varie: in alcuni casi si è trattato di coniugare la pratica femminista, anche di autoanalisi, con quella artistica (es. Paola Mattioli e Verita Monselles), in altri è piuttosto stato indagato il ruolo della donna nella società contemporanea (es. Paola Agosti, Lisetta Cerati, Giovanna Nuvoletti, il Collettivo Donne Fotoreporter ecc.), oppure vi sono autrici che in maniera meno diretta hanno comunque contributo a scalfire il “dominio visivo maschile” proponendo una “visione di parte”, femminile, sul reale (es. Letizia Battaglia, Silvia Lelli, Maria Mulas, Marialba Russo ecc.). Scrive Cristina Casero:

Sono, dunque, numerosi gli aspetti che rendono quasi fisiologico il connubio tra alcune delle istanze femministe e la fotografia. Essenziale è pure il fatto che essa permette di lavorare sull’immagine e quindi sull’immaginario collettivo, che veicolando una figura femminile costruita su cliché rinforza stereotipi sul corpo delle donne, il luogo dell’identità e della differenza. Attraverso la prassi fotografica è possibile dare visibilità a una nuova immagine della donna, nata dallo sguardo del “soggetto imprevisto”, come dice Lonzi, da un occhio che si muove al di fuori degli schemi per proporre, attraverso il racconto del reale, un nuovo racconto di sé, del proprio corpo, nel quale sia finalmente possibile riconoscersi (p. 31).

Nel suo intervento Federica Muzzarelli si sofferma sull’incontro tra esigenze femministe e fotografia sottolineando come «ciò che fa di una fotografia un’immagine femminista è il suo opporsi alla visione monolitica dominante e monodirezionale sui ruoli di genere, dell’identità di genere e dei desideri di genere, se insomma una fotografia femminista si oppone a una visione sessista dei rapporti e del mondo, allora l’estetica femminista di una fotografia è sempre al contempo una dichiarazione politica in sé» (p. 44).

Raffaella Perna ricostruisce il contesto in cui, nel 1976, escono due libri importanti nella storia del neofemminismo italiano: Donne Immagini di Marcella Campagnano, edito dalla casa editrice milanese Moizzi, e Riprendiamoci la vita. Immagini del movimento delle donne di Paola Agosti, Silvia Bordini, Rosalba Spagnoletti, Annalisa Usai, dato alle stampe dall’editore romano Savelli. Entrambi i volumi sono caratterizzati dalla volontà di dare espressione a quei valori emersi nell’ambito dei gruppi femministi italiani ripensando «i canoni della rappresentazione fotografica del corpo della donna», riflettendo «sullo sguardo che le donne rivolgono su se stesse e sul mondo» (p. 63). Al di là delle analogie, Perna mette in evidenza le profonde differenze che caratterizzano le due pubblicazioni, che non mancano di ribadire le differenze tra il movimento romano e quello milanese, a partire dal diverso modo di concepire il medium fotografico e una differente concezione del libro fotografico.

Lucia Miodini approfondisce la produzione di Carla Cerati nelle sue modalità di raccontare le donne tra reportage e sperimentazioni narrative.

Per Carla Cerati la fotografia ha rappresentato un mezzo di riappropriazione di sé, le ha offerto la possibilità di tenere insieme le dimensioni complementari del corpo e della mente, ma soprattutto è stata la sua stanza tutta per sé. Allo stesso tempo la macchina fotografica è stata un diaframma tra sé e gli altri, un oggetto mimetico, quasi invisibile, che è diventato anche strumento di conoscenza e mediazione. […] Narrando la città, i personaggi che la abitano o la attraversano, Cerati racconta se stessa (p. 77)

Laura Iamurri analizza la pubblicazione alfabeta, scritta e illustrata nel 1975 da Cloti Ricciardi durante il suo periodo di militanza nel Movimento Femminista Romano in cui approda dopo aver preso parte all’esperienza di Rivolta Femminile. Scrive Ricciardi a proposito della pubblicazione «il libricino alfabeta fu per me un’esperienza molto interessante e anticipatoria sotto molti aspetti, c’erano fotografie, ritratti, parole, la modificazione del quotidiano. Per noi la riflessione su quello che vivevamo era costante, l’autocoscienza ci portava ad essere analitiche, il rapporto tra le parole e le immagini era fondamentale, una riflessione quotidiana» (p. 94). Sebbene a metà anni Settanta la fotografia non rappresenti un ambito privilegiato nella produzione di Ricciardi, è comunque presente intrecciandosi con con elementi verbali e grafici.

Lara Conte prende in esame una serie di proposte fotografiche legate alla città di Genova e alle questioni di genere realizzate da Lisetta Carmi nel corso degli anni Settanta preoccupandosi di tracciare «una possibile genealogia nelle vicende non lineari del rapporto tra arte, fotografia e femminismo in Italia negli Settanta, in cui militanza e politicità definiscono sovente una dimensione che parte dal sé, nella profonda relazione tra privato e pubblico, al di là di una effettiva adesione da parte delle artiste a gruppi e movimenti femministi» (p. 108).

Il termine “femminista”, scrive Conte, applicato all’opera di Carmi assume la dimensione di uno “sguardo altro” attraverso cui osservare il mondo.

Più volte Lisetta Carmi ha ribadito che la fotografia “è un modo diverso per capire il mondo ed entrare nel mistero dell’umano”. La fotografia è per lei la definizione di una nuova prospettiva che fa emergere il marginale, il minoritario, il rimosso. Grazie ai suoi reportage Lisetta Carmi dà voce a quello che Rosi Braidotti ha definito “soggetto nomade”. Un soggetto che mette in crisi i rapporti di forza e di oppressione del sistema capitalistico e della cultura patriarcale, deegemonizzando le narrazioni, alla conquista di una libertà e di un’individualità non sottomessa alle rigide codificazioni dei generi (p. 108).

Focalizzandosi sulla produzione di Ketty La Rocca, Elena di Raddo si sofferma invece sul tema della “Grande Madre” ripreso da numerose artiste nel corso degli anni Settanata; «l’archetipo che definisce con varie sfumature, nelle diverse epoche e civiltà, il principio generativo della donna, il suo rapporto privilegiato con la natura, espressione quindi non tanto della singolarità, ma di un principio femminile che accomuna tutti i generi, al di là della semplice distinzione maschile femminile» (p. 121).

Fotografia e femminismo nell’Italia degli anni Settanta rappresenta davvero un’importante ricostruzione di come lo sguardo e la sensibilità delle donne abbiano fatto uso della fotografia in un periodo in cui, non accontentandosi della dimensione critica o del politicamente corretto, si volevano davvero cambiare le cose. La pratica fotografia “in mano alle donne” nel corso dei Settanta è certamente un altro sguardo sul mondo, ma è anche un’altra proposta di mondo.