di Mauro Baldrati

C’era una signora ceca, Karolina, che abitava nell’appartamento di fianco al nostro. A dire il vero era un’ospite, anche se di lungo corso, di un signore che andava per gli ottanta, Sergio, che anni prima l’aveva assunta come collaboratrice domestica, poi le aveva proposto di trasferirsi in pianta stabile nell’appartamento, in cambio di lavori per la casa, tenere in ordine, pulizie ecc. Si trattava di un’abitudine che si andava consolidando a Bologna, l’ospitalità delle donne immigrate dall’Est da parte di persone anziane, spesso sole, in cambio di compagnia e un po’ di assistenza.

Sergio era un “umarell”, ovvero un pensionato dinamico, anche se non era certo il tipo da fermarsi a contemplare i cantieri stradali. Ex taxista, viveva con quattro gatti e, come tutti i veri bolognesi, amava le crescentine e il pignoletto; era un tipo sempre allegro, di una allegria “scaldata” da generosi bicchierini di pignoletto, anche di mattina. Lo incrociavo spesso in strada, e mi dedicava sempre battute spiritose e anche un po’ grasse, un’altra caratteristica tipica dei bolognesi. Quando parlava, quasi esclusivamente per battute, alzava e abbassava le spalle, oscillava la testa sullo stesso ritmo delle spalle, probabilmente per qualche incertezza motoria, o di controllo neurale, tanto che mi evocava un’anguilla, o un serpentello acquatico. Era anche un appassionato floricultore, il suo balcone era sfarzosamente istoriato di piante multicolori e officinali.

Tra Karolina e Sergio era nato un rapporto di autentico affetto, tanto che lui, quando capitava di incontrarci, oppure di vederci sui rispettivi balconi, che erano adiacenti, si riferiva a lei come la sua “badante”, ma in realtà era diventata la sua compagna. Infatti certe giornate o serate ero costretto a condividere, quando entravo in bagno, che confinava con la stanzetta dove dormiva Karolina (lui non la voleva nel letto matrimoniale perché diceva che russava – e dal bagno ne avevo la conferma), certi gemiti tipici di un rapporto sessuale. Sergio le aveva anche comprato una casa nella repubblica Ceka, dove vivevano il marito disoccupato e le due figlie, una di 18 anni l’altra di 20. Tutti i soldi che guadagnava Karolina li spediva a loro, poiché non pagava nulla di affitto, di bollette e di spese alimentari.

I suoi guadagni derivavano da lavori di pulizia che svolgeva in vari appartamenti, compreso il nostro. Infatti lei e mia moglie, proprio come io e Sergio, si vedevano dai balconi, mentre stendevano i panni, oppure per le lunghe sedute di occhiate tra uno dei loro gatti e l’aristogatta Nina, che era entrata in casa nostra. E un giorno in cui Karolina si lamentava di avere poco lavoro, Susanna ebbe l’idea di proporle una giornata di pulizie alla settimana in casa nostra.

Così iniziò la collaborazione di Karolina, che si rivelò una macchina da guerra delle pulizie e della messa in ordine dell’appartamento. Per me, che lavoravo ancora in comune di Bologna, tornare a casa alle 14 circa e trovare l’ingresso, di solito disordinato, con tutte le cose a posto, e la cassettiera col ripiano di vetro sgombro da tutti gli ammennicoli che lo ricoprivano in un disordine scaleno, era una sensazione nuova e piacevole.

La regola d’ingaggio era questa: iniziava alle 13, per prima cosa sistemava la stanza da letto, poi passava al soggiorno e alla seconda stanza da letto, mentre la cucina la teneva per penultima, in quanto io entravo e subito pranzavo, poi mi trasferivo in camera per un pisolino. Lei proseguiva col corridoio e terminava col bagno. Quando mi svegliavo, abbastanza intontito, era impegnata con lo straccio sui pavimenti. Lavorava con foga, sudava, anche perché insisteva in modo maniacale sui particolari, per cui ogni millimetro quadrato veniva pulito con la precisione di un microbiologo. Però questa sua attività frenetica non era esente da pericoli. Una volta, col potente aspirapolvere Kirby (per rendere l’idea delle sue poderose prestazioni basta sapere che è l’azienda dove lavorava Michela Murgia prima di diventare una scrittrice a tempo pieno) aspirò il tasto “B” della tastiera del computer; un’altra volta mentre spolverava scaraventò la plafoniera della piantana sul pavimento, mandandola in frantumi. Migliorò col tempo, anche dietro le osservazioni di Susanna: “Lavora con calma, non avere fretta! Piuttosto impiega un’ora in più!”.

Presto però si manifestò un “grosso guaio a Chinatown”, come a quei tempi io amavo definire i guai. Karolina ne parlò con Susanna, alquanto imbarazzata. Disse che aveva dei problemi con Sergio, che non tollerava il fatto che restasse sola in casa con un uomo, cioè con me. Non la lasciava più vivere, la martellava di domande, cosa fate, lui cosa fa, lui cosa dice, e così via. Caddi dalle nuvole alla velocità di un “martello smanicato”, come si diceva al paese in Romagna. E Susanna sorrideva sotto i baffi che non aveva. “Possibile?” esclamai. “Se c’è un pensiero che non mi sfiora è fare qualcosa con Karolina!” Ed era vero. Non che la considerassi brutta o roba del genere, semplicemente era fuori dalla mia sfera di quel tipo di attrazione. E Susanna, che mi conosceva, o credeva di conoscermi, lo sapeva. “Ma come facciamo?” disse. “Sembra davvero disperata. Dobbiamo cambiare giorno.”

E così fu. Invece che di mercoledì, quando io tornavo alle 14, passò al giovedì, spostando l’impegno che aveva altrove al mercoledì. Infatti di giovedì tornavo verso le 18.30, quando lei aveva terminato i lavori ed era già uscita.

Intanto lei e Susanna svilupparono un rapporto di amicizia. Karolina si confidava, anche perché aveva saputo che mia moglie era psicologa, ovvero un personaggio dedicato all’ascolto. Susanna la consigliava, anche con lunghe conversazioni telefoniche, che talvolta erano fuori tempo e fuori posto, ma in fondo facevano parte del suo guanxi di psicoterapeuta. Lo sapeva e lo accettava. E non si tirava indietro.

E questo suo ruolo fu importante, per Karolina, quando accadde la disgrazia. Un giorno in cui Sergio era solo in casa, salì sulla scala per sbloccare una tapparella, perse l’equilibrio, rovinò a terra dove si fratturò il bacino e riportò un trauma cranico abbastanza serio. Quando Karolina rientrò lo trovò mezzo privo di sensi. Fu immediatamente ricoverato in ospedale, dove contrasse il Coronavirus e finì in terapia intensiva, in coma. Karolina risultò a sua volta positiva, così passò due settimane in casa, in quarantena, con sintomi non gravi, febbre e tosse. Era sconvolta, la sentivamo piangere dal bagno, e durante le telefonate con Susanna esprimeva tutta la sua disperazione, soprattutto per la sorte di Sergio: “Come farò senza di lui?” diceva, tra i singhiozzi. “Non può, non deve morire!” Pregava per notti intere, perché aveva sognato un angelo che le aveva rivelato che Sergio sarebbe guarito. “Lo so, me lo sento, si sveglierà! Sergio ce la farà!”

Susanna era preoccupata per la sua salute mentale. Il peso della solitudine nell’appartamento vuoto, la malattia, lo stato di Sergio, che non si svegliava dal coma, sembravano spingerla verso un abisso di misticismo ossessivo fatto di sogni premonitori, preghiere che si protraevano per tutta la notte, pianti convulsi. La sua sofferenza era duplice: il dolore per Sergio, verso il quale provava un affetto sincero, e la preoccupazione per il suo stesso stato, per cui se Sergio non ce l’avesse fatta lei si sarebbe trovata in strada. “E allora cosa farò?” diceva, tra i singhiozzi. “Come potrò spedire i soldi a casa, che servono alle mie figlie per l’università?”

Susanna, ovviamente, non poteva andare a trovarla, per via del virus, però le portavamo la spesa, alternandoci col figlio di Sergio, che si dimostrò comprensivo e generoso, consapevole che Karolina era la donna di suo padre.

Poi, quando stava per terminare la quarantena, arrivò la notizia: Sergio era morto. Qualcosa sembrò spezzarsi. O ricostituirsi. Karolina entrò in uno stato di calma apparente. Smise di piangere. Disse a Susanna che doveva partire per la repubblica Ceka, sua madre stava molto male. Le avevano diagnosticato un cancro ai polmoni in stadio avanzato.

Passarono giorni. L’assenza di Karolina si faceva sentire. Soprattutto per il disordine che tornava a regnare sovrano. Mia moglie ed io avevamo poco tempo per le pulizie, e anche poca energia, va detto. Così la casa ricominciava a degradarsi un po’. Dovevamo farci forza, raccogliere le forze per passare il potente aspirapolvere Kirby di Michela Murgia. E questo era soprattutto compito mio. Perché anche questo va detto: sempre per la paranoia del virus Susanna aveva deciso che non dovevamo assumere un’altra collaboratrice per le pulizie. Si trattava di donne che passavano da una casa all’altra, erano portatrici di rischio.

Intanto iniziarono ad arrivare le telefonate di Karolina. Telefonate problematiche. Il marito aveva cominciato a bere e la insultava. La chiamava “troia” e “puttana” davanti alle figlie, perché aveva vissuto con quell’italiano, col quale sicuramente andava a letto. Le faceva schifo, la odiava, quella vacca. Susanna era preoccupata. Cercava di capire se le faceva violenza. Nessuna violenza fisica, ma morale e psicologica certamente sì. Insulti e minacce si susseguivano. Inoltre ci comunicò in lacrime che la madre era morta. Karolina aveva bisogno di lavorare, per le figlie. E non reggeva più la coabitazione col marito.

Così, cercando in internet, aveva trovato un annuncio di lavoro in Germania, nei pressi di Amburgo. Cercavano un’operaia in una fabbrica. Partì subito, abbracciando commossa le figlie, che intanto progettavano di trasferirsi a Praga per iscriversi all’università.

Lavorò tre mesi nella fabbrica, imbustando prodotti di cosmesi femminile. Ogni tanto telefonava a Susanna. Abitava in una camera, con altre operaie. Lavorava tutto il giorno. Pensava a Sergio, alle figlie. Ogni tanto piangeva, e pregava.

Poi una telefonata da Amburgo ci informò che, attraverso le sue conoscenze bolognesi, aveva trovato lavoro presso una signora novantenne come badante. “Ma io non voglio fare badante!” disse, cercando consiglio da Susanna. Lei non poteva che invitarla a riflettere sulla situazione: si trovava bene in Germania? Le interessava rientrare in Italia? Cosa le conveniva dal punto di vista economico?

Alla fine decise: sarebbe rientrata in Italia. Così arrivarono altre telefonate, dalla Bolognina. Era contenta di essere tornata, ma presto le cose iniziarono a complicarsi. La vecchia signora era isterica, intrattabile, inoltre aveva iniziato a minacciarla con forbici e coltelli. Girava per la casa con un coltello da cucina e la fissava. Durante il giorno non aveva paura, la donna era debole, camminava a fatica, ma di notte? “Sto male” diceva Karolina. “Mi sembra una pazza assassina.” Non riusciva più a dormire.

Susanna le consigliò di parlarne coi figli. Lo fece. I figli arrivarono, parlarono con la madre, che sembrava non capire nulla. “Invece capisce!”

Era in grande difficoltà. Lo stress e la mancanza di sonno le causavano un peggioramento dei sintomi che per Susanna erano psicosomatici: una sorta di raffreddore allergico con una tosse nervosa e febbricola.

Poi la signora fu ricoverata in ospedale per disturbi gastro intestinali. Karolina andava da lei tre volte al giorno per imboccarla. Per il resto stava a casa, finalmente calma e riposata. Ma la situazione era molto precaria. La signora era arrivata al capolinea. Si riproponeva il problema dei soldi.

Ma il mondo delle badanti era costantemente in movimento. Fu contattata, sempre attraverso conoscenze, da una coppia di anziani che cercavano una badante notturna. Doveva essere attiva da mezzanotte alle sette di mattina, poi arrivava quella diurna. Il problematico era l’uomo, ultranovantenne. Si coricava sempre verso le tre, e dormiva pochissimo. Si girava continuamente, si lamentava. Inoltre non tollerava il pannolone, per cui bisognava sempre lavarlo e cambiarlo. Però aveva una camera sua, questo era importante. La situazione presentava parecchie difficoltà, perché durante il giorno doveva, per contratto, recarsi in ospedale per imboccare la vecchia. Quindi dormiva poco, e in modo discontinuo. Però era un disagio transitorio, perché la signora peggiorava, e non sarebbe certamente più uscita viva dall’ospedale.

Per cui la sentivamo più tranquilla, più fiduciosa verso il futuro. Poi, ricevemmo la notizia che sarebbe tornata nell’appartamento di Sergio per qualche mese. Nella casa dove lavorava non riusciva a dormire, il vecchio gridava, la badante diurna passava l’aspirapolvere. Così il figlio di Sergio, che sapeva quanto lei e suo padre si erano voluti bene, le offrì l’appartamento, gratis. La rivedemmo sul balcone, era dimagrita di quasi trenta chili. Per Susanna sembrava sofferente e malata, io invece la vedevo abbastanza bene, più calma, più vissuta.

Viveva alla giornata, ma questa ormai era la situazione di tutti noi. Il mondo girava, il tempo scorreva, e Karolina non si fermava. Continuava a combattere per la sua vita.