di Francisco Soriano

Nel 1894 Cesare Lombroso scrisse “Gli Anarchici”, un libro che delineava una teoria sulla psicopatologia degli aderenti al movimento. Fra rei per passione, isterici e individui con comportamenti deviati egli tracciò un quadro di tipologie delittuose che videro gli anarchici, nella società del tempo, come primi attori di crimini politici.

Infatti fu in occasione dell’uccisione del presidente francese Sadi Carnot a Lione, per mano di Sante Caserio, anarchico italiano, che Lombroso concepì questo testo inserendolo in una vivace dialettica sul movimento anarchico di quegli anni: fra le tante pubblicazioni, da ricordare quella precedente di E. Sernicoli della casa editrice Treves, dal titolo: “L’anarchia e gli anarchici”. Che questi ultimi potessero essere comunque criminalizzati e accusati di ogni nefandezza in qualsiasi caso e, spesso, pur senza ragione, è una condizione abbastanza consolidata nel tempo fino ai nostri giorni, ma diversi furono i motivi che spinsero Lombroso a scrivere un libro del genere. Come sottolineato nelle moderne introduzioni agli scritti lombrosiani sugli anarchici, ben si evince che la narrazione della presunta “psicopatologia criminale d’un ideale politico” generava un’analisi non solo sui motivi che “favorivano il nascere e il diffondersi, presso vari strati della popolazione dell’ideale anarchico, sottolineando con precisione i rimedi per combatterlo”, ma determinava anche una critica serrata alle forme di potere che ne provocavano la “proliferazione”. Sorprenderà, lo studio del Lombroso non era rivolto solo alla definizione dei soggetti criminali anarchici, ma era riconducibile anche a una critica ad altre entità come specificato nel suo testo introduttivo all’opera: “Mi aspetto che questo mio libro, pubblicato, come “l’Antisemitismo” e come il “Delitto politico”, completamente fuori dall’ispirazione dei partiti che dilaniano il nostro Paese, ne corra la stessa sorte: raccolga, cioè, il mal volere di tutti; chissà che anche, con mirabile concordia, non si apprestino a punirlo alternativamente il pugnale dell’anarchico, che pretende confutare uccidendo e la daga di una guardia di P.S., che con logica non dissimile si pretende diventi l’arbitra del pensiero italiano”.

All’inizio del primo capitolo dedicato alla “posizione e cause dell’anarchia”, Lombroso pare nutrire qualche considerazione e comprensione verso il “fenomeno anarchismo”: “Come ogni favola contiene una parte di vero, ogni teoria, per quanto assurda, soprattutto se è seguita da un gran numero di persone, deve contenere qualche parte di giusto”. L’insigne psichiatra si rivolgeva anche a quanti fossero incapaci di amministrare e governare la cosa pubblica, colpevoli di provocare reazioni scomposte e delittuose nella società. É in questo quadro che Lombroso tendeva ad asserire, quasi a giustificare, l’implicita legittimità del sorgere di fenomeni “criminosi” come quelli messi in atto proprio dagli anarchici. Tuttavia, netta arrivava l’affermazione del Lombroso (sgombrando il campo da ogni pur lontano fraintendimento) che, “in questi tempi, in cui si tende sempre più a complicare la macchina di governo, non puoi considerare una teoria come l’anarchia, che accenna al ritorno verso l’uomo preistorico prima che sorgesse il paterfamilias, che come un enorme regresso”. Lo sforzo dello psichiatra, dunque, consisteva nel difendere ogni forma di autorità che provenisse da un glorioso passato, fatto di ordine e giustizia: la difesa della tradizione consisteva soprattutto nei confronti di quei valori riconducibili al più sacro conservatorismo e, nella denuncia del “dileguarsi” dei “valori religiosi, familiari, patriottici, di campanile, di casato, di spirito di corpo o di casta”. Non a caso la coerenza delle sue teorie in difesa delle antiche tradizioni trova la critica più fiera nell’inutilità del parlamentarismo, guarda caso e per assurdo, una polemica molto cara agli anarchici, chiaramente con visioni e analisi diametralmente opposte alle sue. Lo stesso Lombroso polemizzava nei confronti della fede e della vittoria del parlamentarismo, elencando una serie di “menzogne” che, evidentemente, a suo dire mistificavano la realtà delle cose, tanto che il governo del tempo “ogni giorno mette sempre più a nudo la sua triste impotenza”. La menzogna a cui si rivolgeva, era anche quella che “vuol farci credere nella fede che si nutre nell’infallibilità dei capi dello stato, che ci son sovente inferiori”. Lombroso si scagliava anche contro il potere giudiziario, un’ulteriore “menzogna assoluta” di una “giustizia che, gravando pesantemente sulle spalle degli onesti, non colpisce che il 20% dei veri colpevoli, per la maggior parte imbecilli”. A supporto della sua critica allo stato delle cose, lo psichiatra non mancava di citare il Machiavelli, laddove sentenziava che “ogni forma di governo porta con sé i germi della sua rovina; come la nostra che era fra le meno adatte, perché basata sulla folla; ed una folla anche la meno eterogenea, anche la più eletta, quando deve deliberare dà una risultante che non è la somma, ma la sottrazione del pensiero dei più”. In conclusione, il sistema parlamentare rappresentava il culmine della disonestà e, verosimilmente, “eccitava al delitto”, con la conseguenza e la causa degli attentati omicidiari per mano degli anarchici.

A conferma di quanto, Cesare Lombroso “comprendesse” le teorie anarchiche dell’epoca, è confermato dal paragrafo intitolato “Idee giuste di alcuni anarchici”, inserito all’interno del primo capitolo: “Dopo questo si può, non dico giustificare, ma capire come sia sorta l’anarchia, l’idea della protesta di un’anima sincera o pazza contro la menzogna e l’ingiustizia che ci dominano sovrane calpestando il vero e l’onesto. Quindi possiamo comprendere molte frasi degli anarchici che sono essenzialmente vere come queste … del Merlino e del Krapotkine”.

Dalle parole dello psichiatra si deduce chiaramente che esisterebbe una dicotomia-caratterizzante, di cui sarebbero ben connotati gli anarchici: la “pazzia-sincerità”. La pazzia e la sincerità ben si sovrapponevano a quelle dell’onestà e della giustizia, tanto da legittimare l’attenzione di chi intendeva analizzare le gesta violente degli anarchici in un’ottica del tutto nuova. In sostanza, le citate equivalenze determinerebbero l’esplicita ammissione che l’anarchia sia sorta per impulso “ragionevole” contro le violenze del potere, soprattutto quello connotato da una congenita fragilità e, dunque, malsano e disonesto, proprio contro i più umili! Il Lombroso nell’analizzare l’azione del governo dei suoi tempi con una serie di esempi, sottolineava come nel corso della storia il governo o è “la dominazione brutale, violenta, arbitraria di pochi sulle masse, o è uno strumento ordinato per assicurare il dominio e il privilegio di alcuni”. Inoltre, fra le dinamiche che risiederebbero all’origine dei problemi della società, vi era la ricerca continua del potere di dare continuità alla sua presenza, “come ogni corpo costituito, di allargare le sue attribuzioni, di sottrarsi al controllo del popolo”. Una retorica che intendeva stigmatizzare da un lato la debolezza di certe forme di potere, dall’altra si intendeva asserire la negatività della violenta e autoritaria immanenza delle stesse. Lombroso riconosceva che in alcuni governi antichi, come a Firenze o, addirittura, ad Atene, la minore azione data al governo e la maggiore agli individui, “fecero sviluppare individualità che dalle altre forme rigide di governo erano meno favorite”. Di conseguenza queste furono alcune premesse teoriche comprensibili per quei governi che si ispiravano a forme meno autoritarie ma, secondo l’autore, queste idee avrebbero determinato scopi pratici assolutamente impraticabili e da rigettare.

Infatti nel riassumere gli scopi “inaccettabili” dei movimenti che incitavano alla rivolta, egli elencava, ad esempio, la pretesa “fondazione di un dominio di classe con ogni mezzo”, specificando che nel termine “ogni”, inconfutabilmente, “covasse” il delitto comune. Sarebbe stato, pertanto, un ritorno all’antico, ma questa volta anacronistico e impossibile, tanto che avrebbe determinato la “fondazione di una società liberamente basata sulla comunione dei beni”. Era impossibile da comprendere, inoltre, l’organizzazione “facile” della produzione e il “libero scambio dei prodotti equivalenti”, compiuta addirittura senza intermediari e sottrattori del profitto. La critica proseguiva anche in campo pedagogico, quando pretestuosamente veniva propugnava l’organizzazione “su basi scientifiche” e non religiose, dell’uguaglianza per i due sessi. Era quest’ultima una condizione inconciliabile proprio con la natura, “data la diseguaglianza organica dei sessi”, che non avrebbe consentito a nessuna legislazione di pareggiarli. L’ultimo scopo impraticabile consisteva nella pretesa “relazione di tutti i pubblici affari mediante liberi trattati di Comuni e Società ordinate (addirittura) federalisticamente”.

Con questi presupposti l’autore dà inizio a una critica serrata contro gli anarchici, in un sottoparagrafo intitolato: “Critica dell’idea anarchica. Assurdità”. Il metodo seguito sembra essere contraddittorio, talvolta addirittura incerto nell’argomentare le “criticità” dell’ideologia anarchica, soprattutto nel falso tentativo di “giustificarle o comprenderle”: “Nessuno, o pochissimi di questi scopi sono raggiungibili; ma pure non tutti sono assurdi: e vi è nell’idea anarchica qua e là qualche oasi non priva d’avvenire, come la maggior parte fatta all’individuo, la critica agli inutili sistemi di repressione”. Il punto essenziale infatti risiedeva, secondo lo psichiatra e antropologo piemontese, nella consapevolezza che l’edificio anarchico “crollava nella sua base come nelle sue applicazioni”.

In definitiva, la maggior parte degli aderenti all’anarchismo erano criminali o pazzi con qualche eccezione che sembrava confermare la tesi: si sarebbero salvati dall’elenco dei “deviati” Ibsen, Reclus e Krapotkine. Infine, i regicidi, i feniani e gli anarchici che denotavano caratteristiche complete del “tipo criminale” erano i Kammerer, Reinsdorff, Riel, Holler, Stellmacher, Brady e Fitzharris. In successione, i pazzi criminali francesi dell’89 come Marat e, coloro i quali presentavano un tipo perfettamente normale, anzi “più bello del normale”, come i veri rivoluzionari Corday, Mirabeau e Cavour, fino ai nichilisti come Ossinski, Sassulich, Solowief e Ubanoba. Nel tentativo di rendere solide le sue teorie Lombroso citava il giudice Spingardi, che aveva fornito “vari materiali di indagine” confermandogli che “non ha mai visto un anarchico che non fosse zoppo o segnato, o gobbo, con faccia asimmetrica”. Altre caratteristiche “criminali” degli anarchici consistevano in una serie di segni inconfondibili che lo psichiatra, inequivocabilmente, riconosceva: ad esempio il gergo, riscontrabile nella “collezione dei loro canti” e, come prova testuale, il giornale loro favorito Pére Peinard, in cui veniva utilizzato il gergo “allo stesso modo dei criminali”. Così fra gli anarchici ci si chiamava “compagnons” e “copains”, mentre i “camerati propagandisti” venivano chiamati “trimadeurs” da “trimard”, “gran via”, sempre in gergo. Nel reo-nato non poteva mancare il tatuaggio, come nel 1888 si poteva notare durante i moti anarchici di Londra e dove, a un gran numero di tatuati corrispondeva un altrettanto numero di criminali: cuori, teste di morto, ossa incrociate, ancore e ricami. Dalla loro mancanza generale di senso morale derivavano atti orribili come il furto e l’assassinio. Anche l’abuso delle liriche in gergo era un’altra prova caratterizzante i “criminali di nascita”, che formavano addirittura un “intero Parnaso”: le “Coulisses de l’Anarchie”, “Les Ramages du beffrois révolutionnaire”, “Tablette d’un lézard”, “Ronde pour récréations enfantines”, “Boulangère” e “La Purge, fatta stampare dalla gioventù anarchica del XV quartiere, coi tipi del Duval. Questa la sua traduzione dal francese:

Io sono il vecchio padre La Purga,/ farmacista dell’Umanità,/ contro la collera io mi ergo/ con mia figlia Uguaglianza.// Mentre il popolo si intristisce/ per terra senza mangiare,/ Borghesia, ne abbiamo abbastanza della tua fiala,/ bisogna fare i conti con la mia purga.// Ho pugnali, falci, picche,/ rivoltelle e fucili,/ per attaccare i fianchi iniqui/ dei Gallifet e dei pizzardoni.// Ho il petrolio e la benzina/ per spennellare il castello;/ ho per l’occasione delle torce/ da portare al posto delle fiaccole.// Ho del picrato di potassio,/ nitro, cloro in abbondanza,/ per levar via tutto il sudiciume/ del Palazzo e della Prigione. // Ho delle pietre, ho della polvere,/ della dinamite, oh!/ Il dirigibile che compete col fulmine/ per farvi sollevare in aria./

La descrizione delle caratteristiche somatiche di alcuni anarchici rappresentava una prova inconfutabile della deriva persecutoria, razzista e pregiudiziale dei tempi. Secondo lo psichiatra, Ravachol era l’esempio-tipo del criminale-nato, sia perché la natura criminale veniva espressa naturalmente sul suo volto, sia nella presunta persistenza a delinquere: la sua personalità sarebbe stata intrisa di odio per la famiglia, del piacere per il male, della mancanza di senso etico, dell’indifferenza per la vita umana. Il Lombroso sentenziava che ciò che più colpiva, a prima vista, nella fisionomia del Ravachol era la brutalità: già la faccia infatti presentava un’asimmetria “spiccatissima”. Inoltre Ravachol si sarebbe “distinto” per una enorme stenocrotafia, per la “esagerazione degli archi sopraccigliari”, “pel naso deviato molto verso destra”, per le orecchie ad ansa e collocate ad altezze differenti e, per finire, per la mascella inferiore enorme, quadrata e sporgente che “completa in questa testa i caratteri tipici del mio delinquente-nato”. In aggiunta a tutte queste caratteristiche Ravachol avrebbe avuto un difetto di pronunzia che “molti alienisti consideravano come un frequente segno di degenerazione”; “quanto alla sua psicologia essa risponde in tutti i punti alle lesioni anatomiche”. Il Lombroso si appellava ad altre presunte nefandezze compiute dal Ravachol: quest’ultimo avrebbe tentato uno stupro a danno della sorella, cercato di uccidere la madre e compiuto l’assassinio di un eremita-clochard di novant’anni. Il Ravachol avrebbe avuto inoltre il nonno e bisnonno morti sul patibolo, colpevoli di essere incendiari e briganti associati. Un altro esempio di reo-nato era Pini, un “capo” anarchico di Parigi, “fratello di una pazza, con poca barba, fronte sfuggente ed enormi archi sopraccigliari, mascelle grandi e orecchie lunghissime”.

Altre caratteristiche che connoterebbero una criminalità congenita, soprattutto fra gli anarchici, consistevano nell’epilessia e nell’isteria politica. Lombroso tracciava ancora una volta un sorprendente teorema, senza alcuna prova scientifica, sostenendo che la vanità, le allucinazioni vivissime e frequenti, la megalomania, la genialità intermittente, insieme alla grande impulsività degli epilettici ed isterici “ne fanno dei novatori politici e religiosi”. È originale, inoltre, la citazione del Lombroso nell’identificare fra le figure di isterici ed epilettici religiosi il profeta Maometto, che “avrebbe avuto un attacco di epilessia alla sua prima visione o rivelazione e che, ingannato o ingannatore, siasi valso di questa sua malattia per spacciarsi inspirato dal cielo”. Fra le descrizioni di personaggi storici affetti da tali patologie, pur riconoscendo in questi individui (truffatori, uxoricidi, stupratori e ricattatori) anche dei poeti non privi di genialità, non vengono tralasciati quelli “a cui la pazzia geniale funge di fermento e da genio; tali furono Cola da Rienzi, nel Canada, Riel”. Nel testo un posto speciale veniva riservato ai cosiddetti “suicidi indiretti”: erano coloro i quali “uccidono, o meglio, tentano, colla massima imperizia, di colpire i capi di un paese per aver modo di finire una vita, che non hanno abbastanza coraggio di troncare da sé”. Per questa tipologia l’esempio storico fu quello di Karl Eduard Nobiling che, nel 1878, sparava a Berlino un colpo di fucile contro l’imperatore. Successivamente l’attentatore cercò di suicidarsi, senza successo, rivolgendosi l’arma: “egli pure era uno spostato, con forme degenerative importanti (idrocefalia, asimmetria facciali), laureato in filosofia, si dedicò all’economia rurale pratica, ed avendo pubblicato un opuscolo d’indole economica, chiese e ottenne un posto nell’ufficio prussiano di statistica”. Nobiling morì due mesi più tardi proprio in conseguenza delle ferite riportate e, il suo gesto, si verificò soltanto un mese dopo quello di Max Hödel, anch’esso fallito. Da ricordare che Otto von Bismarck utilizzò questi attentati per legittimare leggi repressive e antisocialiste nell’ottobre del 1878. Furono i compagni, a detta del Lombroso, che lo definirono in giudizio un incorreggibile, tenace ed egoista, “un mansueto sognatore di spiritismo e di teorie socialistiche, che svolgeva però in modo confuso: ciò gli procurava il nomignolo di Petroliere o di Comunista”.

Tuttavia non tutti i criminali per Lombroso erano brutti, epilettici e cattivi. Alcuni si caratterizzavano non solo per la mancanza di “tipo criminale”, ma avevano una “fisionomia bellissima, quasi anti-criminale, per la larghezza della fronte, ricchezza di barba, lo sguardo mite e sereno”. Di questi ultimi stilava addirittura un corposo elenco, chiarendo che su 30 nichilisti celebri, 18 presentavano bellissime fisionomie: Perowskaja, Cyddofina, Helfman, Bakounine, Lavroff, Stefanowich, Michailoff, Sassulich, Ossinski, Antonoff, Ubanoba, Vilaschenow, Icliaboff, Tschernyschewsky, Zundelewitch, Figuer, Presgnacoff. Anche gli italiani in questa folta schiera erano dei “bei criminali politici”, “le cui effige sono raccolte nel Museo del Risorgimento di Milano”. Le fisionomie erano quelle di “Dandolo, Poma, Schiaffino, Fabrizi, Pepe, Paoli, Fabretti, Pisacane, ecc. Dei rivoluzionari francesi invece si ricordavano Desmoulins, Barras, Brissot, Carnot. Carlo Sand era bellissimo”. Dunque molti di costoro avevano ereditato una sorta di patriottismo e forma di misticismo, infatti fra questi venivano inclusi gli Orsini definiti “fanatici rivoluzionari”, i padri di Guiteau e Nobling che erano degli “esagerati pietisti” e, infine, la madre di Staaps non parlava che in versetti biblici. Sand oltre a possedere una bellezza unica tanto da rappresentarne un modello, si connotava per “l’esagerazione dell’onestà”. Egli visse e morì da santo, tanto che il luogo del suo supplizio fu denominato dal popolo: “prato dell’ascesa al cielo di Sand”.

Di Sante Caserio, riguardo alla sua fisionomia, si affermava che aveva un “occhio mite”, dolce, bellissime forme del cranio e del corpo, salvo un neo al braccio. Nulla di criminale, insomma, se non la “scarsezza della barba, l’orecchio sessile, e gli archi sopraccigliari molto sviluppati”. Dal tentativo di elaborare una biografia di Sante Caserio, Lombroso deduceva che la “criminalità sua si sfogò tutta nella politica”, avendo esordito nell’anarchismo a soli 17 anni, quando venne arrestato per aver distribuito presso Porta Vittoria foglietti volanti ai soldati. Per gettare discredito sulle convinzioni di Caserio, il Lombroso affermava che, solo nel 1891, dopo la lettura di opuscoli si era “iniziato” al “partito anarchico” e che gli incontri e i colloqui con i suoi compagni anarchici avvenivano in una “osteria dove ci si ritrovava per giuocare alle bocce”. Originalissima la tesi del medico che affermava quanto “l’irritazione anormale del cervello prodottagli dall’eredità epilettica in lui si esplicò col fanatismo religioso prima, e politico poi”. Infatti egli sosteneva che nel paesello (in Lombardia) d’origine di Caserio, “nuovo ad ogni soffio di modernità (…), i primi fanatismi non potevano che essere religiosi, perché il contadino là non ha ideali che di religione”. A coronamento di questa ricostruzione lo stesso Lombroso diceva che “quest’uomo (…) se fosse vissuto in altre epoche e circondato dagli elementi migliori della Chiesa, sarebbe stato un Pietro Eremita, (…) ma viene a contatto a 17 anni circa con fanatici propagandisti anarchici: (….) e allora “il fanatismo religioso si muta in fanatismo economico, sotto forma di anarchia”, (…) aggiungendo che è una caratteristica questa di “chi vive (proviene) dagli agri lombardi, dove il proletariato è in peggior condizione degli schiavi romani”. Caserio fu un delinquente per passione connotato dall’onestà, “portata fino all’eccesso, come l’eccessiva iperestesia consistente nella sensibilità ai dolori propri e altrui”. Nelle lettere scriveva con caratteri comuni quando narrava della famiglia o di se stesso mentre, “se si parlava dell’anarchia e della Spagna che fucila i suoi compagni, il carattere diviene enorme, occupa mezza riga: è questo uno dei caratteri degli isterici e degli epilettici, la macrografia”.

La riflessione di Cesare Lombroso rappresenta una assurda narrazione, contraddittoria e stereotipata. Le caratterizzazioni elaborate non solo hanno inconsistenti riferimenti scientifici e storici, ma risultano permeate da forme di razzismo estremo che hanno sedimentato, nel corso dei decenni, i germi delle persecuzioni e delle discriminazioni. Gli strumenti forniti dallo psichiatra come quelli di tanti altri scienziati di altri paesi hanno dato il pretesto, gravissimo e imperdonabile, di contribuire in regimi dittatoriali alla elaborazione di liste di proscrizione e persecuzione, di delineare gruppi di individui caratterizzati da malattie, deviazioni o imperfezioni di origine genetica o fisica per consentire la persecuzione ai fini politici. L’oscurantismo e la vile letteratura messa a disposizione di persecutori e criminali nelle stesse istituzioni, fanno di questo libro un esempio e un punto di partenza per comprendere con quali mezzi giustificativi e legittimanti, culturali e antropologici, il potere abbia potuto macchiarsi di crimini gravissimi, fino al genocidio e all’Olocausto.

Non vi sono speranze invece per i criminali, quelli in giacca e cravatta, con barbe colte e fronti ampie, figli delle più apollinee realtà sociali, con alle spalle mulini bianchi e candide figure mistiche in sospensione, affamatori e schiavisti: finché ci sarà una sola fiamma in vita il sole dell’avvenire risorgerà.