di Iuri Lombardi

Vi è un filo, e neppure tanto sottile, che sembra unire i poeti nati negli anni novanta e i giovanissimi del duemila. Un filo unico – elettivo senza dubbio – che pare intrecci tra queste voci – molti amici anche nella vita corrente – una tela unica, un mondo che i grandi – di età e non solo, anche per autorevolezza- non possono non vedere. Si tratta di un nuovo mondo, un nuovo modo di percepire la realtà – fisica e spirituale- il cui caposcuola è senza dubbio il compianto Gabriele Galloni.

Quanto ho appena detto trova conferma in vari testi di giovani e giovanissimi poeti che con la loro poesia stanno ricostruendo un nuovo olimpo di voci autentiche, un manifesto (non sappiamo quanto ne siano consapevoli) di una inedita sensibilità e bellezza e la raccolta di Paolo Pitorri, Abbiamo discusso dell’aldilà (Marco Saya Edizioni, per la collana diretta da Antonio Bux, sottotraccia) è lo specchio che non inganna e che ci trasmette, si fa portavoce di questa nuova tendenza.

Si tratta anche in questa raccolta, nel caso di Paolo (che mi fregio del privilegio di essergli amico) di un lavoro chiaro, nitido che non dà adito a fraintesi, che ci regala una poesia pura. La raccolta, nata in seno a vicissitudini di vita del poeta e a lunghi febbrili anni di elaborazione, si suddivide in cinque parti – Luce, Corpo, Sete, Vele rotte, Terre opache- e ognuna di esse sono l’esplicito e inequivocabile mondo di un poeta. È infatti oggettivo che nelle cinque sezioni della raccolta, Pitorri, il giovane poeta romano, compia un viaggio fuori misura, un viaggio esplorativo per un mondo interiore e comune, inoltrandosi in un universo di possibilità e cose accadute.

Se consideriamo il lavoro nel suo insieme, ci viene facile comprendere la maestria e la sapienza di Paolo nella conduzione del verso e la relativa struttura (Pitorri gioca stilisticamente con il tradizionale endecasillabo sino al verso lungo, quasi epico, per arrivare al verso spezzato, ricco di ellissi e arcature), ma in particolare ci risulta facile costatarne l’importanza, a mio modesto avviso, rivoluzionaria dei contenuti. Paolo con queste poesie, con la raccolta Abbiamo discusso dell’aldilà, pur solfeggiando con la propria voce, per altro riconoscibile, distinta, si allinea orgogliosamente al mondo autentico dei suoi contemporanei. Ecco allora che nelle pagine dirette da Bux si scopre quella realtà di intenti, svelata per intero e senza (finalmente!) pudore che fa della poesia di questa nuova generazione, una prova continua e autentica di quello che dovrebbe essere la vera letteratura. E che cos’è questo filo che congiunge tutti loro? Quali sono le caratteristiche che li unisce?
Cerco di elencare questi elementi e di analizzarli singolarmente.

a) l’aspetto ecologico e l’attenzione per la natura

b) l’amore per la vita e il senso della morte

c) il soggettivismo umanistico, ossia il biografismo

Ma partiamo con l’analizzare il primo aspetto.

In primo luogo, si riscontra in tutti questi poeti della nuova generazione l’attenzione per la natura e la salute dell’ambiente. Si tratta in sostanza di un inedito sguardo che il poeta ha nei confronti del proprio tempo e del proprio spazio. Ma non è da intendersi un ecologismo di maniera, tanto per fare tendenza, si tratta invece di una specifica sensibilità che li spinge ad andare oltre il tangibile, oltre l’ordinario. Riguarda una visione del tutto nuova e sincera che ascolta la natura e la sua voce, e propone in versi, negli intrecci di sillabe, nei motivi di parole e nei ritmi il pentagramma della melodia universale del creato. Paolo in questo non fa eccezione.

Così, pagina dopo pagina, silloge dopo silloge della raccolta, i suoi versi ricostruiscono un mondo che noi tutti davamo scontato, dà vita ai cervi, agli insetti, alle foglie, agli alberi, ai quanti di luce.
Si tratta, come dicevo, di una similitudine che abbraccia questa intera generazione di nuovi e promettenti autori e che ciascuno di loro riesce ad esprimere con maestria e originalità.

Questo amore per la natura, questa caratteristica di saper cogliere le sfumature del mondo e della realtà animale e ecologica segna in questi versi l’amore smisurato per la vita e fa prendere coscienza a queste giovani leve il senso della morte. Si tratta di una acquisizione della morte che non è quello della tradizione più classicista o romantica, come nel caso di un Foscolo o di un Pindemonte; qui non si tratta di fare della poesia cimiteriale, ma di evidenziare la morte come senso e giustificazione della vita. In altre parole, come direbbe Pasolini: il montaggio è la morte del cinema, nel senso che è il senso del piano narrativo. Così, Pitorri e i suoi colleghi fanno della morte l’atto che dà il senso alle cose, al piano sequenza della esistenza. Tanto che non è difficile sostenere che per loro non è vita l’esserci ma è vita il consumarsi sulla terra. Ecco allora che avanzano questo amore sfrontato per la vita, per le avventure, per gli episodi in virtù di quella che sarà la morte: il senso del tutto. Loro, a cominciare da Pitorri, sembra abbiano appreso a pieno la lezione di Cioran quando sostiene che la vita è una fuga dalla nascita e non una corsa verso la morte. La morte avviene sempre dopo, si può calcolare solo con il senno del poi, proprio perché dà un senso alla vita stessa.

In terzo luogo, questi giovani autori – mettendo in primo piano la propria vita, un solo piano sequenza, mettendo in primo piano lo spazio e l’oltre, il tempo e la sua durata, quasi avessero una clessidra dentro loro – proiettano nella poesia un elemento imprescindibile: la propria autografia.
Questi scritti, questi versi del Pitorri in particolare, sono un diario, un album iconografico della propria vita e sono scatti di Canon (oggi in digitale) di momenti dopo momenti, di attimi, di possibilità vissute, di episodi consumati nei giorni.

In Paolo l’autografismo porta il poeta in Europa dalla sua Roma alla Parigi tanto amata dal giovane autore romano. Si tratta di un viaggio senza sé e senza ma che Pitorri combina colloquiando con i propri fantasmi, le proprie amate assenze, con i ricordi. Così, non è difficile riscontrare nei suoi versi, in particolare nella silloge “Corpo similitudini” con il tratto febbrile di un Beppe Salvia. Insomma, si tratta di una prova ben riuscita, che sono sicuro – e non solo la sua- rimarrà ai posteri, a nostra futura memoria.