di Giorgio Bona

Sul Prospekt Marx è quasi imponente il manifesto di Leonid Breznev. I suoi prorompenti duri tratti asiatici sembrano osservare dall’alto ogni piccolo movimento del popolo russo.

Dio vi vede. Breznev anche. Mi viene improvvisa questa battuta e mi scappa da ridere sotto lo sguardo di alcuni passanti.

Agosto 1981. Ultimi anni prima della Perestrojka, ma non si avverte ancora l’imminente rinnovamento che porterà il paese alla svolta dell’agognato nemico, quel capitalismo che impera nell’occidente della corruzione e del malaffare.

È difficile trovare un taxi e solo i temerari tassisti abusivi si fermano per portare uno straniero a destinazione. Per fortuna la metropolitana offre un servizio a soli cinque, dico cinque copechi e ti permette di attraversare tutta la città in poco tempo.

Sono le sette di sera. A quell’ora si diventa un corpo solo, ci si può spostare senza sollevare i piedi o muovere le gambe.

Scendo in piazza Puskin. Osservo con uno sguardo di grande venerazione il monumento dedicato al grande scrittore che si eleva magniloquente e sembra osservare la grande gioventù moscovita che si dà appuntamento ai suoi piedi.

Attraverso la piazza in un batter d’occhio e mi trovo sulla Via Gorkij. Appena girato l’angolo all’altezza del famoso Teatro dell’Arte entro in questo Bufety specializzato in pelmeny, ravioli siberiani con un ripieno di carne di montone.

Arkadj mi sta aspettando. Ci gustiamo queste prelibatezze gomito a gomito, in piedi, appoggiati a un grande bancone. Ha due biglietti per uno spettacolo in ricordo di Vladimir “Volodja” Vysotsky. È trascorso appena un anno da quel 25 luglio del 1980 quando si spense per un arresto cardiaco e in cui, nonostante la cortina di silenzio che si era creata intorno, i suoi funerali furono una spontanea manifestazione di massa con una coda lunga oltre nove chilometri.

Tra l’altro il tempo incombe.

Arkadj insiste per il Taganka, teatro cult della capitale. Il Taganka era conosciuto come il Teatro di Volodja.

Tra i tanti paradossi della storia bisogna riscontrare che la grande popolarità del chansonnier non ha per nulla origine dai canali ufficiali e accademici.

La Melodia, unica casa abilitata alla diffusione dei dischi in Unione Sovietica, non aveva voluto pubblicare le sue canzoni. Questo non aveva fermato il processo di diffusione. Ci fu un umile e privato uso di riproduzione domestica in cassetta, limpido e trasparente processo controculturale.

Le sue canzoni cominciarono a diffondersi per tutto il paese. Lo conoscevano i minatori, i cercatori d’oro della Siberia, i marinai delle navi da pesca ai confini del mondo.

Vitzoskij amava esibirsi sul palcoscenico del Taganka, piccolo teatro allora poco conosciuto dove faceva la sua comparsa anche come attore.

Lì furono registrate le sue canzoni, in parte improvvisate, in parte modificate durante lo spettacolo.

In un’intervista alla radio Vladimir dichiarò: il mio lavoro non termina mai a tavolino, non lo considero mai chiuso. Né con la chitarra, tantomeno con il registratore. Continua oltre e non si ripete quasi mai e penso che l’attrattiva di una canzone d’autore è che concede la possibilità all’autore stesso di cambiare e variare molto. Testo, musica e ritmo. Tutto questo dipende dall’auditorio, dall’atmosfera, dalle persone che ti trovi davanti in quel momento.

Lì furono registrate anche le sue canzoni, tante canzoni celebri come “Il pugile sentimentale”, “La fucilazione dell’eco”, “La caccia ai lupi”, per dirne alcune. Dal 1969 compose alcune canzoni come “E’ cessato il tremito”, “Il volo interrotto”, che sono poesie vere e proprie e dimostrano una maggior eleganza di scrittura.

C’è un episodio del film “Il sole a mezzanotte” in cui Mikhail Baryshnikov balla in un teatro vuoto sulle note di Utrennjaja Gimnastica (ginnastica mattutina)

In un paese così colto, così vivo, così culturalmente avanzato, ricco di slanci culturali, emotivi, pur imbrigliato dal potere, con effluvi di passioni vere, Vysotsky ha dato vita al sentimento collettivo attraverso le sue canzoni, dove al linguaggio burocratizzante del regime opponeva il suo linguaggio popolare autentico.

Nel suo ruolo di attore furono straordinarie le interpretazioni di Majakovskij e di Esenin, ma il suo ruolo più famoso fu l’interpretazione di Amleto.

Anche se il regista Jurji Ljubimov non era molto convinto delle doti di attore di Vladimir e lo prese con sé perché amava le sue canzoni, quelle interpretazioni furono un successo trascinate dal mito che come cantautore si stava propagando in Russia.

L’Amleto, il suo ruolo più memorabile, lo perfezionerà fino alla fine, l’ultimo da lui recitato prima di morire.

Ecco, adesso stiamo entrando al Taganka. Lo spettacolo è appena iniziato. Il cantante che riprende alcune canzoni di Volodja mi sembra bravo. Sta cantando un brano che io non conoscevo.

 

In piena luce, accessibile a tutti gli occhi,

mi accingo alla consueta procedura,

ritto davanti al microfono come davanti alle icone

ma oggi mi sento proprio come davanti a una feritoia.

Al microfono non vado a genio

E la mia voce urterebbe chiunque.

Certo se mi capiterà di sbagliare,

lui darà vigore al mio errore.

Le luci della ribalta mi colpiscono ai fianchi,

le luci negli occhi mi danno fastidio,

i riflettori mi accecano.

Ed io soffoco! Soffoco!

Questa sera sono particolarmente rauco

E non rischio di cambiare la tonalità.

Ma se la voce mi tradirà

Lui si rifiuterà di raddrizzare la curva.

Non ti agitare! Non ti muovere! Non osare!

Ho visto la tua lingua biforcuta, vipera, lo so…

Ma oggi io sono come un incantatore di serpenti,

non canto più, io esorcizzo un cobra.

 

Qualcuno si commuove.