di Giovanni Iozzoli
Daniele Maffione (a cura di), Da Seattle a Genova. Cronistoria della Rete No Global, DeriveApprodi, Roma, 2021, pp. 320, € 20,00
La raccolta di interventi e interviste curata da Daniele Maffione, sui fatti del G8 napoletano del marzo 2001, rappresenta uno strumento utilissimo di riflessione sulla nostra storia recente e sul vero “male italiano” – la maledetta continuità repressiva che fatalmente, epoca dopo epoca, gli apparati di Stato riversano sulle piazze critiche e i movimenti sociali. Nel ventennale di Genova, molte lacrime di coccodrillo sono state spese, sui media. Sorprendentemente, questa ricorrenza ha avuto una visibilità mediatica notevole – quasi come se collocando il movimento nella dimensione commemorativa, se ne volesse esorcizzare definitivamente il ricordo, magari anche con qualche “onore delle armi” assai postumo e sospetto. Alle lusinghe pelose e beffarde dei media, si sono aggiunti i piagnistei di taluni protagonisti dell’epoca – quanto avevamo ragione!-, come se il movimento antiglobalista fosse destinato tuttalpiù a recitare nella storia un ruolo di Cassandra triste e inascoltata.
Ma il libro di Maffione riporta alla luce un contesto – assolutamente poco indagato – che ha fatto da preludio e prova generale, rispetto ai fatti di Genova. La mattanza del 17 marzo 2001 in Piazza Municipio, in occasione della contestazione al Global Forum Ocse, con il suo seguito di sequestri, torture e arresti, costituì un impianto e un metodo che ritroveremo pari pari nel capoluogo ligure pochi mesi dopo. E’ per quello che ricostruire i fatti che si dipanarono intorno al G8 napoletano, è essenziale anche per capire Genova. Niente nasce in modo improvviso, quando si parla dello Stato; tutto è il prodotto di sedimenti e metodo: le istituzioni hanno una memoria storica più efficace dei movimenti.
A vent’anni di distanza da quegli eventi, che sfociarono nella contestazione del G8 di Genova, si è fatta largo un’esigenza. Col presente lavoro s’intende contribuire a colmare un vuoto di conoscenza su quella stagione di lotta, che è stata raccontata in modo distorto dalla parte dei cosiddetti vincitori. I vinti sono stati descritti come “black block”, terroristi e sfascia vetrine. E’ vero che sono state prodotte numerose memorie o testimonianze, individuali o collettive, sull’argomento, che hanno tentato di dimostrare il portato politico-sociale del movimento no global. Ma, viste nell’insieme, queste opere appaiono datate, episodiche e risultano essere lontane da una ricostruzione precisa della cornice storica in cui avvennero i fatti. Questa dispersività non ha aiutato la comprensione di ciò che avvenne, né ha favorito un adeguato bilancio politico dell’esperienza no global in Italia. Non sono state prese in esame circostanze reali, istanze soggettive, peculiarità che hanno portato ad una partecipazione di massa inedita nella contestazione al neoliberismo. Così come non sono state indagate a fondo le esperienze di azione diretta, né è stata compiuta una doverosa analisi della ragioni che portarono alla sconfitta di quel movimento. Di fatto, questa vacatio non ha tramandato alle nuove generazioni una consapevolezza critica di quella esperienza di lotta. (pagg. 11/12)
A Napoli, dicono alcuni dei protagonisti intervistati, solo per un caso fortuito non ci scappò il morto. Migliaia di giovanissimi – come Carlo Giuliani – subirono per ore le cariche selvagge e i caroselli dei blindati nella tonnara di piazza Municipio, una trappola senza vie di fuga. Ricorda Francesco Amodio, compianto leader dei Cobas scuola, il clima cileno che piombò all’improvviso su quella piazza:
Ho il racconto di alcuni compagni e colleghi, che dovettero mettersi in ginocchio con le mani alzate con tutti gli studenti per evitare di essere massacrati. C’erano questi giardinetti in piazza Municipio, pieni di studenti e professori in ginocchio con le mani in alto; è accaduto a noi, c’era una professoressa che ora è in pensione e raccontava che stava davanti agli studenti con le mani alzate, in ginocchio. Mi raccontò: guarda Francesco, il terrore dentro è una cosa terribile, tu lo fai perchè ti rendi conto che non c’è altro da fare, in realtà vorresti urlare e scappare, ma se lo fai questo è peggio, perchè hai rotto la situazione ed è terribile. (pag. 160)
Le torture e gli arresti abusivi nella caserma Raniero furono il preludio tragico di Bolzaneto. Al governo, all’epoca dei fatti napoletani, c’era il centrosinistra – città, regione ed esecutivo nazionale. Il passaggio di testimone ai berlusconiani, pochi mesi dopo, fu molto naturale: cambiano i governi ma i movimenti anticapitalistici vanno considerati nemici da annientare – almeno se superano le soglie del minoritarismo testimoniale e si candidano a diventare vettori di rappresentanza sociale.
Maffione è abile nell’evitare le trappole della memorialistica. Il No-Global day (i napoletani rivendicano il copyright del logo “no global”) viene declinato al presente, con ritmo, intensità, testimonianze dirette. Quasi metà del volume è riservato ad un racconto romanzato scritto da Francesco Festa e dedicato al pathos di quei giorni – molti ragazzi di vent’anni fa potranno riconoscersi in quei ritratti sincopati: attraverso la forma narrativa la ricostruzione dei contesti diventa più efficace e ricca di sfumature – come a DeriveApprodi sanno bene. Nell’altra metà del volume si alternano le voci di alcuni militanti storici della piazza napoletana e di figure – come quella di don Vitaliano della Sala – che attraversarono il movimento e conquistarono all’epoca notevole visibilità mediatica (senza lasciarsene però intrappolare).
Il grande evento napoletano giunse al culmine di un crescendo di mobilitazioni internazionali, da Seattle in avanti. In campo non c’era ancora l’ombra oscura della Grande Crisi, il ritorno della povertà di massa nella metropoli, la crisi pericolosa dei ceti medi e l’ennesimo arretramento operaio – tema e sfondo del decennio successivo. I tempi sono ancora pieni di speranza, segnati da una visione, da un’apertura su un futuro altro che si sente ancora possibile. Si contesta l’iniquità distruttiva dell’oligarchia finanziaria che globalizza i mercati e disegna gerarchie feroci fra territori e classi; si ragiona sulle grandi campagne contro il debito e la fame; lo zapatismo, la Chiesa di base, il movimento campesino nelle campagne del mondo, il rifiuto dei modelli agro-alimentari imposti dagli Usa, tutta una fusion di suggestioni belle e potenti. Il risultato di questa polifonia è una partecipazione davvero di massa. Ricorda Alfonso De Vito:
In qualche modo , il movimento no global canalizzò energie sociali troppo più larghe del collo di bottiglia delle forme della politica in cui ancora si muoveva. Sperimentammo sul campo il tema del conflitto e del consenso. Anche le strutture più moderate sentivano la spinta propulsiva e ne recepivano, almeno in parte, gli stimoli. Tanta era la partecipazione, che non sapevamo neppure dove tenere le assemblee. (pag. 175)
Visto oggi, il movimento no global lascia intravedere le sue ingenuità e i suoi limiti – con i suoi boy scout, le incursioni fiduciose su un web che doveva apparire una libera prateria da contendere, l’idea che si potesse dichiarare guerra a un nemico spietato, senza essere minimamente attrezzati a reggere il gioco. Ma sarebbe un giudizio ingeneroso: tutti i temi di allora suonano come funeste anticipazioni del presente. Un movimento così vivace e umanamente ricco, forse oggi non potrebbe nemmeno esistere: nel presente prevalgono ovunque i toni cupi, quasi apocalittici, di un mondo in disgregazione. Allora si pensava che i movimenti potessero in qualche modo piegare la governance capitalistica; oggi ci si misura non con la supposta onnipotenza di tale governance, ma con la sua incapacità di gestione delle proprie crisi; e più che l’idea di contestare la cricca dei cattivi globalisti che gestiscono il mondo, si fa i conti con la difesa disperata davanti alla guerra tra bande criminal-finanziarie, sempre più arroccate in un ritorno alla dimensione dello Stato nazionale (altro che Impero…). Un cambio d’epoca, di paradigma, di aspettative, che rende bene il segno dei tempi moderni.
Napoli fu anche la dimostrazione scientifica di come l’impunità di Stato sia essenzialmente criminogena. Alcuni degli imputati per le violenze della caserma Raniero, li ritroveremo a scorrazzare, palmare e manganello in mano, lungo le impervie vie di Genova – inquisiti anche in quel contesto, prescritti anche per quei fatti. Se fossero stati fermati prima, non avrebbero letto le lungaggini della giustizia italiana, come un sostanziale via libera alla tortura e alla violenza indiscriminata sulle piazze. La strada che conduce dalla Caserma Raniero alla Diaz fu breve e diretta: se l’abbiamo fatto là, con un ministro di centrosinistra (la macchietta tragica di Bianco), perché non dovremmo rifarlo ora, sotto l’egida di un Gianfranco Fini, ancora impiastricciato di nostalgie missine? E quanto è lunga la strada che porta da Bolzaneto a Santa Maria Capua Vetere – per rimanere ancorati al nostro drammatico presente?
Di libri così c’è sempre bisogno. Perché una storia che non viene raccontata, in qualche modo non è mai esistita. In controluce, quasi in ogni intervento, risuona la domanda più difficile: che cosa è andato storto, in quella stagione così intensa? Servirebbe un altro volume dedicato alle occasioni mancate, ai patrimoni dilapidati, alla dispersione militante, che non possono essere imputati solo alla repressione. Una riflessione necessaria che dovrebbe passare attraverso alcuni snodi importanti, tutti ancora da indagare: le dinamiche dello sfilacciamento del movimento no global, l’impotenza di quello contro la guerra, l’incapacità di cogliere la sfida di Marchionne che apre una frattura reale nel mondo del lavoro e nella società italiana, per chiudere simbolicamente un ciclo politico, con la giornata di lotta anticapitalistica dell’ottobre 2011 (che finisce in vacca, a conferma e suggello di una immaturità complessiva dei movimenti nel lanciare una proposta alla società italiana).
Quanto a Napoli, è l’unico territorio italiano in cui quel decennio non chiude ma rilancia una stagione nuova di protagonismo sociale, piena di ambivalenze ma fondata su un radicamento reale nel tessuto della metropoli. Nella speranza che i bilanci e le lacerazioni post-De Magistris non lascino troppe cicatrici sui movimenti, in una città stremata, vitale e ribelle.