di Franco Pezzini

Che i concorsi per racconti banditi da riviste o altre intraprese letterarie abbiano svolto nel tempo una funzione importante per far conoscere nuovi autori è ben noto: si pensi solo ai concorsi cui partecipò Poe all’inizio della sua carriera. Che poi il fenomeno possa riguardare anche proprio la narrativa del fantastico non stupisce, a fronte della vocazione del medesimo a un grande pubblico – laddove invece il supergenere fantastico in quanto tale ha a lungo patito in Italia un certo sordo sprezzo accademico e una diffidenza che fino agli anni Ottanta ha impedito il sorgere di una critica scientifica mirata.

Va detto peraltro che la produzione di antologie di racconti a tema fantastico, per i tipi soprattutto di piccoli editori, presenta in molti casi qualità ineguale: spesso a esiti di eccellenza si accompagnano nello stesso volume prove di appassionati dai forti connotati di naïveté, al netto di trame anche originali. Vale sempre il discorso che in simili prove minori possa emergere in chiave anche più trasparente e diretta un tessuto immaginale recettore di miti d’epoca e di critica dell’esistente, e dunque la cosiddetta paraletteratura ha le sue buoni ragioni per essere pubblicata. Tuttavia le carenze tecniche nella scrittura, più o meno domate dai curatori con robusti editing, finiscono talora col penalizzare anche la dimensione “testimoniale”, “documentale”: e per quanto banale suoni l’asserzione (ma non lo è troppo, a cogliere asserzioni circolanti sui social), è bene rimarcare come una scrittura letteraria, non solo quanto a spessore di contenuti ma a qualità formale, sia meglio godibile anche per il lettore, e non rappresenti una mera pippa della “casta”.

E proprio questa chiave, di un fantastico di qualità molto alta e di spessore letterario, è appunto avvertibile nei dieci testi finalisti a un recente premio per racconti brevi di esordienti, “Oltre il velo del reale”, bandito dal Premio Calvino, insieme alla rivista L’Indice e al Mufant di Torino: un esito molto felice su cui ha senso soffermarsi anche al di fuori dello stretto contesto, perché gli autori presentano qualità tali da far immaginare si parlerà di loro nella piazza letteraria di domani. Con la freschezza della loro scrittura e l’approccio per nulla sussiegoso di chi gioca coi topoi del fantastico (il che, nell’Italia dei salotti letterari, di certa scrittura rarefatta ombelicocentrica e degli “io, io, io” narcisoidi risulta davvero una boccata d’ossigeno) queste voci potranno contribuire a vivificare il panorama.

Una breve disamina dei testi (dallo spoglio di 875 incipit inviati, tra i quali erano stati individuati 36 racconti promettenti – ridotti appunto a dieci in finale) può essere d’interesse. Otto sono al momento ancora disponibili sul sito dell’Indice, mentre i due racconti vincitori – premiati uno dalla giuria, l’altro dai lettori – sono apparsi in uno speciale con L’Indice di maggio: e partiamo da questi.

Il premio della giuria è andato a Beatrice Salvioni, per Il volo notturno delle lingue mozzate, un racconto Folk Horror di straordinaria bellezza ed efficacia. Il contesto è un vago medioevo patriarcale in cui alle donne infettate dalla “Voce” – non meglio identificata patologia sovrannaturale che concede potere alle loro parole – viene pubblicamente tagliata la lingua dal macellaio del paese. La giovanissima Zora, appena infettata, constata come a quel punto la sua parola sia in grado di convincere quasi ipnoticamente gli interlocutori; e forte di quel potere decide di andare a liberare le lingue mozzate delle donne, inchiodate come farfalle nella casa del macellaio. Lei e l’amica vi riusciranno, e potranno udire il canto di libertà di quelle lingue che svolazzano via proprio come farfalle – una scena di straordinaria, vivida forza visionaria – ma a un prezzo altissimo: e la potenza della metafora sottesa conforta un finale amaro e poetico. La ricchezza simbolica e immaginale dell’apologo (le donne, private di voce dai patriarchi, sono liberate e rese potenti da una malattia che colpisce solo loro, e tentano un sovversivo recupero della parola in sede comunitaria) è valorizzata da una scrittura di grande eleganza, che inchioda con nettezza fotografica d’immagini fin dalle prime righe. L’autrice è molto giovane (del 1995), e mostra insieme lucidità e potenza visionaria – ripeto l’aggettivo, pare importante – sulla base di una formazione alla scrittura ricca e varia, dunque non solamente fantastica: un profilo la cui produzione futura meriterà assolutamente di essere tenuta sotto controllo.

Considerazione, quest’ultima, che vale anche per l’altra vincitrice, del racconto più votato dai lettori: quasi altrettanto giovane (del 1993), Monica Acito offre in Amaràvia uno scritto di singolare fascinazione, che pare uscita dalle raccolte De mirabilibus del mondo tardoantico. La storia della creatura eponima, sorta di donna-uccello che prima di morire deve “prendersi la verginità di tutti gli uomini, beccarli fino all’ultimo” sulla bocca, pena l’isterilire della Valle, e dell’unico uomo che alla fine sta per sfuggirle, culmina in una scena di seduzione profondamente onirica. Il testo, estraneo ai linguaggi consueti al fantastico moderno, originalissimo e anche in ciò tanto interessante, potrebbe solo con qualche forzatura e vari distinguo appartenere al fantasy: il suo orizzonte ideale è quello della fiaba o piuttosto del mito, rivelando nessi con entità femminili molto arcaiche, e facendo insieme pensare al filtro visivo di un Fellini che ne coglierebbe i tasselli sensuali (l’erotismo di quel beccare, quelle cosce aperte, la sessualità feconda ritualizzata in sorta di Misteri), nel racconto giocati benissimo e con scintillante eleganza narrativa.

Passando agli altri testi, si possono individuare un paio di filoni. Il primo, distopico ed eventualmente fantascientifico, può rivelare rapporti d’innesco non accidentali nella distopia pandemica dell’ultimo anno. Germano Antonucci (1975), in Ma davvero i mangiasbagli sono golosi di geografia? mostra la situazione classicissima di un mondo devastato, e un uomo invalido e una bimba che attendono l’ultimo treno che potrà salvarli – alla Snowpiercer, se vogliamo: il tema della contronarrazione per ridurre l’impatto traumatico sui più piccoli è qui declinato attraverso la fantasia buffa sui presunti “mangiasbagli” che si papperebbero errori ed erranti assieme. Il tutto è offerto con una tenerezza giocosa e ironica, senza sbavature dolciastre da americanata per famiglie, e uno stile compatto e controllato. Altra storia dai connotati classici e ottimamente scritta è quella di Alessandro Marangi (1965), Il modulo: su una Terra in crisi ormai dominata da un regime distopico, dove si vive con dispensatori d’ossigeno, e in cui la vieta formula “Andrà tutto bene” è assurta a saluto, il rapporto d’amore di una coppia è ciò che permette loro – previa difficile scelta – un salto nel buio, la firma sul modulo di disponibilità a emigrare su un altro pianeta. Grande equilibrio di registro narrativo si nota anche nel racconto di Simone Masoni (1980), No tech: il diciottesimo compleanno del protagonista Marlin – quando dovrebbe presentarsi alla selezione per l’ingresso nella Poltech, la Polizia Tecnologica – cade in un giorno di techdown, cioè di silenzio tecnologico, vietato l’utilizzo di dispositivi elettronici. A dispetto dell’ambientazione futura, il modo in cui il giovane, dopo una serie di disavventure, riesce a superare la prova ha i connotati arcaici e ben poco tranquillizzanti di certi antichissimi, crudeli riti di passaggio… Le prove di Antonucci, Marangi e Masoni possono ascriversi sia in chiave tematica (distopie future) sia di risposta narrativa (trame “classiche”, compattezza e qualità stilistica) a un omologo bacino di fantasie; al quale, con qualche distinguo per i connotati onirici e fantastici sul filo della fiaba nera (inevitabile pensare a Il pifferaio magico, o al Terrore di Arthur Machen), si può richiamare anche un quarto testo distopico bello e convincente, Le pecore vanno dove c’è l’erba di Alessia Rossi (1993). Qui enigmaticamente appaiono e attraversano la città fiumane di animali – a partire da uccelli con scene alla Hitchcock – che però si allontanano in assenza di arche di salvataggio riconoscibili dagli uomini. Alla fine, arriva anche l’esodo dei bambini, che invano i genitori cercano di trattenere… e a quel punto, depauperata di tutto il suo futuro, alla città non resta che attendere la fine. Spoiler a parte, ciò che regge la trama è un registro di scrittura equilibratissimo, asciutto e letterario grondante echi, dove nulla è di troppo e nulla manca.

Dalle visioni del futuro e dalle ombre distopiche su identità collettive si passa a quelle di un presente più o meno angoscioso o ironico, dove il discorso identitario è declinato più spesso sulle crisi individuali. Splendido e convincentemente letterario è il racconto di Emanuela Cocco (1973), Nel verde: si sente la consuetudine dell’autrice sia con la scrittura in quanto tale, sia con un fantastico anche molto classico, in una sorta di trascrizione moderna e liberissima del mito di Apollo e Dafne. Liberata dalla violenza femminicida di un partner per volontà della vegetazione del bosco, la protagonista dovrà fronteggiare lo stesso geloso, equivoco attaccamento del mondo vegetale, in una grande metafora sull’ambiguità delle liberazioni. Ottimamente giocato è anche il racconto di Sergio Sessini (1959), L’altro, sul tema del Doppio: da sempre, attraverso esperienze, sprazzi di un altrove che il padre derubricava a sogni, l’io narrante Gregorio ha scoperto di dover vivere la vita anche di qualcuno che non è lui, o almeno non il lui che possa riconoscere. Ogni tanto, infatti, la sua coscienza si trova proiettata nella vita di un alter ego (il termine è qui da intendersi in senso letterale) che vive un’esistenza rischiosa e primitiva in una giungla, a un livello molto diverso di civiltà. La narrazione è portata avanti con abilità in termini di grande suggestione, attraverso una serie di tasselli simbolici ben giocati: Gregorio fabbrica specchi, inizia una relazione con l’affascinante Saskia che soffre di schizofrenia con personalità multiple… Sempre di identità, ma con un referente collettivo nel tema delle stigmatizzazioni comunitarie si parla in Ona storia briansö di Margherita Padovan (1989). Qui il tema può riassumersi – a voler semplificare la quantità di spunti in una chiave unitaria – la stigmatizzazione degli altri: nella fattispecie gli zingari che la piccola Margherita non ha mai visto e immagina “esseri con bocche a ventosa al posto degli ombelichi”, visto che mangerebbero bambini. Salvo finire vittima delle attenzioni non gradite del sedicente “cusin de la tu nòna”, in uno scenario di periferie brianzole felicemente evocato. Il surreale, spiazzante finale dal sapore quasi lovecraftiano porta una nota di sorpresa che merita di non essere qui spoilerata… Decisamente in tema di identità personale ma con un passo idealmente tra Kafka e Achille Campanile è poi il bel racconto di Daniela Ginex (1960), Anime gemelle, dove l’inopinata trasformazione di un serio professionista in cane ingenera una serie di comiche e vagamente melanconiche dinamiche nella sua famiglia: e i richiami della natura – ecco la vera metamorfosi, molto più eversiva dei rituali sociali – si imporranno in ultimo sulla forma dell’istituzione borghese.

Di tutti questi autori, in parte legati a scuole di scrittura ma non appiattiti su schemi didattici, in parte battitori liberi, qualcuno con blog e produzioni d’interesse disponibili in rete, sarà insomma bello leggere altro.

Poi lo sappiamo, i racconti non sono una forma troppo amata dagli editori, soprattutto i medio-grandi. Ma sembra probabile che potremo apprezzare in tempi non troppo dilatati opere più ampie dei menzionati. Fantastiche o meno, non importa: del resto fantastico non è tanto un contenuto quanto un modo di narrare, di vedere, di mettere a fuoco con un linguaggio-laboratorio ciò che altrimenti non riusciremmo a cogliere. E costituisce un buon allenamento alla percezione di quell’immaginario, concetto dallo spettro ancora più ampio, che rimanda alle strutture-base culturali con cui interpretiamo la realtà e in qualche misura la costruiamo. Se ciò che avvertiamo come “il reale” è frutto di una stratificazione di esperienze, idee, bias, parole d’ordine impiantateci dentro e spesso subite, scostare idealmente quei veli uno dopo l’altro per cogliere con più lucidità ciò che sotto sotto resta implicito – e pronto a trasformarsi in mostro – è forse uno dei compiti più urgenti di chi scrive oggi.