di Alessandro Barile

Jean Ziegler, Il capitalismo spiegato a mia nipote (nella speranza che ne vedrà la fine), Meltemi, 2021, pp. 124, € 12,00.

Jean Ziegler è autore fin troppo noto, anche in Italia. Il suo ruolo politico all’Onu e la sua attività di divulgatore al confine tra sociologia e politica, ne fanno uno dei più apprezzati narratori dei guasti della globalizzazione. Molti dei suoi libri si prestano infatti ad un immediato uso militante, alimentando le ragioni degli sconfitti del liberismo, accomunando la sua fortunata verve polemica a quella di altri autori-simbolo della stagione no-global: Naomi Klein, Edoardo Galeano, gli scritti politici di Noam Chomsky. Almeno con gli altri due autori anglosassoni Ziegler condivide anche l’orizzonte utopico di fondo, di matrice libertaria, vagamente terzomondista, sospettosa verso le esperienze socialiste di ieri e di oggi. Il tramonto della stagione dei controvertici dei primi anni Duemila ha ridimensionato la fortuna pubblica di molti di questi autori. Ziegler, invece di cedere al pessimismo della ragione, in ogni sua pubblicazione trasuda ottimismo verso l’avvenire, le giovani generazioni, i nostri figli, che riusciranno – sembra continuamente dirci – laddove abbiamo fallito noi e i nostri padri. Anche questo spiega il suo ultimo lavoro tradotto in italiano, questo Capitalismo spiegato a mia nipote che si inserisce in un suo filone di pubblicazioni dal taglio simile e dagli obiettivi invariati: spiegare nella forma più semplificata possibile perché è giusto abbattere il capitalismo. L’autore non può essere certo accusato di ambiguità. Alla soglia dei novant’anni non ha remore nel dichiarare che «il capitalismo non può essere ridefinito. Deve essere distrutto. Totalmente, radicalmente, affinché si possa concepire un’organizzazione sociale ed economica del mondo del tutto inedita». E ancora: «ciò che ci viene richiesto, quel che ci si aspetta dalla tua generazione, è la distruzione del capitalismo, il suo superamento» (p. 107). Insomma Ziegler non le manda a dire, né cerca di camuffare il suo discorso attraverso distaccate analisi delle politiche neoliberiste di questo cinquantennio. Ziegler si pensa immediatamente come combattente di una battaglia che sa di aver perso come consigliere all’Onu, ma che l’umanità non potrà che vincere in un domani più o meno lontano. Questo è forse l’aspetto più interessante di tutta l’opera dell’autore svizzero: in un tempo in cui a dominare è un certo sconforto idealistico verso le potenzialità umane, l’opera di Ziegler ci dice continuamente: è necessario farlo, dunque si può fare. Si può pensare altrimenti e si deve agire di conseguenza.

Qui si situano i meriti di tutta l’opera di Ziegler e anche di questo agile libricino scritto in forma di immaginario botta e risposta tra l’autore e la sua piccola nipote. Quel che il docente svizzero tenta di edificare è una pedagogia anticapitalista, in grado di raggiungere quelle giovanissime generazioni stordite dal maelstrom di infotainment e social network che integra e pacifica le coscienze, anche quelle più inquiete, disattivando ogni possibile pensiero critico in grado di pensarsi fuori da questa realtà. Una realtà costruita e presentata come unica possibile. Magari non il panglossiano “migliore dei mondi possibili” ma, parafrasando Churchill, la peggiore realtà possibile, ad eccezione di tutte le altre. Tanto, qui, non si tratta di convincere più nessuno: l’importante è narcotizzare. Secondo l’adagio ripreso spesso anche da Ziegler, infatti, è ormai più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. Sembrerebbe, e in effetti lo è, la più grande vittoria riportata dal sistema capitalistico: una vittoria ideologica, a fronte delle conclamate sconfitte economiche. Eppure una vittoria sufficiente a paralizzare ogni via di fuga. Per questo, occorre un’educazione che sappia generare coscienza critica, immaginare altri mondi al tempo stesso utopici e realizzabili. Qui sorgono alcuni problemi, che potremmo definire metodologici, che rendono il tentativo di Ziegler – e di tutti coloro che insistono su questo piano – problematico. La pedagogia è infatti un concetto ambivalente, scivoloso, addirittura pericoloso in certi casi. Semplificare i concetti, dileguare la complessità, presentare le ragioni del mondo come un confronto tra buoni e cattivi, disegnare un capitalismo che si regge sull’avidità di alcuni pochi oligarchi (questi e altri motivi ricorrono lungo il testo): tutto ciò non è detto che produca l’effetto desiderato. Viviamo infatti in un’epoca di semplificazione strutturale, un’epoca che addirittura ripudia ogni forma di fatica intellettiva (almeno per quel che riguarda il discorso pubblico). Giocarsi la partita su questo terreno, di fronte al martellamento ininterrotto, pervasivo e ossessivo dei social network, di Hollywood, delle televisioni, degli smartphone e delle app, significa accettare un piano del confronto impari, segnato in partenza. Sul piano della semplificazione vincerà sempre il Capitale, dotato di apparati ideologici di gran lunga più performanti: mentre noi scagliamo la freccia del pamphlet accorato e moralizzante, dall’alto droni teleguidati lanciano bombe di pensiero impoverito. Insomma, dobbiamo stimolare le intelligenze non appiattirle. Insegnare la fatica, non suggestioni just in time. I “buoni contro i cattivi” (del tipo: «gli oligarchi del capitale finanziario globalizzato hanno in mano le sorti dell’umanità», p. 58) è un frame narrativo guasto in partenza, e non basterà mutarlo di segno per risolvere i problemi gnoseologici alla base. Se l’obiettivo è quello di avvicinare i giovani alle ragioni dell’anticapitalismo e all’urgenza della rivolta, non resta che dire la verità. Cercando, oltretutto, di stimolare una certa consequenzialità nelle scelte e nei comportamenti: una volta giunti alla verità ci si deve comportare di conseguenza, altrimenti si è complici. Non ci sono vie di mezzo, nonostante il flusso ideologico mainstream ci dica esattamente questo: che siamo destinati a vivere una vita di mezzo, né giusta né per forza sbagliata, né eroica né noiosa, né ricca né povera. Al prezzo, ovviamente, di un’umanità che non percepiamo e che paga il prezzo di questa nostra serena mediocrità. Ziegler ha il pregio di lacerare il velo di conformismo che alimenta il dibattito pubblico, e come il taglio di Fontana ci dice: la tela ha esaurito la sua funzione, andiamo a vedere cosa c’è dietro. Quale sia il modo migliore per lacerare questa tela, è questione ancora da approfondire.