di Jack Orlando

Anna Curcio, Black fire. Storia e teoria del proletariato nero negli Stati Uniti, DeriveApprodi, Roma, 2020, 140pp., 10,00 €.

Quella del soggetto nero negli Stati Uniti è una storia secolare di oppressione e resistenza, che ha fatto della lotta per la sopravvivenza e l’autodeterminazione un laboratorio politico e di conflitto tra i più ricchi cui si possa attingere per lo sviluppo di un arsenale teorico di alto livello, per l’avanzamento di una proposta politica rivoluzionaria.
L’elemento che, forse più di tutti, rende questa esperienza particolarmente significativa è il fatto di contenere in sé l’elemento di sfruttamento capitalista ed al contempo quello di dominio coloniale all’interno del contesto democratico occidentale per eccellenza.
Dai campi di cotone della schiavitù, ai ghetti della segregazione, fino alle migrazioni forzate della riqualificazione urbana delle inner cities si trova, in purezza, quella che è l’essenza del modo di produzione attuale: una realtà che vive per accumulare profitto illimitato letteralmente sulla pelle dei subalterni; mettendo in campo una molteplicità di dispositivi che contengano, reprimano, addomestichino e mettano a frutto energie, saperi, relazioni, corpi.
Qui, la mano del padrone di casa o del lavoro e quella dello Stato si presentano sotto forma di violenza: nel primo caso sotto forma di ricatto cui si è sottoposti senza garanzia di difesa, nel secondo come pistole e manganelli che possono agire impunemente mietendo vittime e inserendo “liberi cittadini” nel tritacarne del sistema carcerario (anche questa, un’enorme macchina di profitto). Tutto legittimato e normalizzato da un registro mediatico che procede su un doppio binario: quello dell’integrazione, dei diritti civili, della convivenza; e quello della sicurezza, della lotta al crimine, della tolleranza zero. Una contraddizione che sta al centro dell’essenza stessa delle democrazie occidentali contemporanee, dove guerra di esclusione ai nemici interni e guerra di conquista per l’estrazione di valore, convivono e coincidono con il disciplinamento/inclusione al consesso sociale ed alla cittadinanza (intesa qui in senso più storico che giuridico).

Il volume di Anna Curcio si presenta come un compendio di questa storia di lotte e dei suoi sedimenti. Partendo dalla rivoluzione Haitiana dei giacobini neri e di Touissaint Louverture per arrivare al Black Lives Matter, e selezionando una articolata serie di testi ripropone un spaccato complessivo delle lotte per l’autodeterminazione afroamericana; tenendo al suo interno le differenti dimensioni dello scontro: dalla colonia alla classe, dal genere all’internazionalismo, dall’autodifesa alla rivoluzione e, su tutte, la costante della razza.
Perché, come ovvio che sia, l’architrave su cui verte tutta l’oppressione dei neri degli Stati Uniti si muove attorno alla linea del colore: i costi fatti pagare al soggetto nero sono stati possibili solo in virtù della sua deumanizzazione: biologicamente e culturalmente altri rispetto allo standard bianco/cristiano, i padroni hanno lavorato alla distruzione della loro soggettività già nelle stive delle navi negriere con catene, fruste e ferri roventi; continuato ad addestrarle nel sudore dei campi, tentando di inculcarne nel profondo un senso di inferiorità strutturale; non solo per ricavarne manodopera docile e conveniente, ma anche per farne il piedistallo che reggesse la retorica di superiorità e la presunta missione civilizzatrice su cui hanno edificato il loro impero e che, ancora, ne accompagna l’agire e ne legittima ogni spargimento di sangue.
Il razzismo come fattore culturale, che qui affonda la sua radice, non è quindi che un effetto di ciò che la razza rappresenta per il modo di produzione capitalista, un fattore di disciplinamento ed ordinamento gerarchico. Da questo punto bisognerebbe focalizzare e sviluppare le indagini della politica di fronte alla linea del colore; indagini che troppo spesso si arenano su una semplicistica riduzione della discriminazione razziale quale rimanenza culturale vetusta ed ottusa, oppure come problema di tipo umanitario.
In ogni caso come qualcosa che tocca direttamente solo chi è dal lato oppresso di questa linea, i neri con tutte le variazioni della blackness; mentre i bianchi, dall’altro possono essere solo agenti del razzismo o, in linea di massima, suoi oppositori, consapevoli del proprio “privilegio” (meravigliosa categoria proto-cattolica tanto in voga). Di qui il florilegio di attivisti (bianchi), intellettuali (bianchi) e bendisposti (bianchi) d’ogni risma ad impegnarsi nell’estirpare la piaga del razzismo e lottare per l’inclusione dei più sfortunati; ma sempre stando dal proprio lato della linea. I propri supposti referenti politici (neri) sono sempre intesi come indifesi, vittime, poveri, senza voce; in una parola: inferiori.
La linea della razza si porta appresso, sulla via dell’inclusione e delle buone intenzioni, anche le scale della gerarchia e della supremazia. E d’altronde lottare per l’inclusione all’interno del capitale, non è affannarsi per integrare qualcuno all’interno di un sistema di sfruttamento e dominio? O, ancora, non è che in fondo, pur privati di diritti politici, gli schiavi e i segregati erano già ben integrati dai loro padroni nel modo di produzione come carne da macello e bassa manovalanza?
Sono ovviamente domande retoriche cui già Malcolm X sessant’anni fa aveva risposto dicendo “vaffanculo l’integrazione e vaffanculo i liberali! Quello che vogliamo è il controllo sulla nostra vita e sulla nostra comunità!” (non l’aveva detto proprio così, ma il succo è quello).
La questione, vista da questo altro lato, è ben più chiara: non è una questione di inclusione o di esclusione. Di razza quindi? Anche, ma soprattutto di potere. Togliersi dal collo il ginocchio del padrone, come testimoniano le schiere di insorti di questa storia, non è una roba da diritti civili e di richieste democratiche: è un fatto di organizzazione; di trovare, alimentare e far crescere la propria forza, di capire come metterla in campo, farla funzionare ed avanzare fino a rovesciare il nemico. Questo è un fatto di potere: avere la forza di decidere del proprio divenire, di imporre alla controparte la propria presenza, decisione, verità; di imporre il proprio controllo sulle strutture di produzione e riproduzione. Se è con la forza che i neri sono tenuti in terra allora è con la forza che debbono alzarsi. E dell’attivismo bianco, della morale progressista, c’è poco da farsene.
Ecco che nel nocciolo del potere, che torna sempre tra le righe del volume, come nella storia afroamericana del resto, assume nuova e maggiore valenza l’insegnamento delle lotte nere.
Se gli schiavi non avevano diritti nei campi, era tra le baracche dove alloggiavano e le comunità in cui erano disseminati che potevano e dovevano trovare gli strumenti per liberarsi dalla propria condizione, fosse la fuga, il sabotaggio o la rivolta; così allo stesso modo tra i ghetti della segregazione (o della subordinazione) le Pantere Nere e altre sigle del Potere Nero dovevano organizzarsi per prendere il controllo di una comunità governata e diretta dall’esterno; qui parlare di Nazionalismo nero non significava (non solo per lo meno) costruire un improbabile etnostato separato in Nord America, quanto rivelare i meccanismi coloniali alla base della condizione del popolo afroamericano e concepire questo come soggetto sociale e storico preciso in grado di muoversi verso un orizzonte di liberazione, nel momento in cui ad altre latitudini del globo altri popoli nella medesima condizione facevano lo stesso. Parlare di autodifesa, imporre la propria volontà e capacità di difesa dalle “truppe di occupazione” significava riprendersi un pezzo di potere, di autoemancipazione, e contemporaneamente gettare i semi per passare poi all’offensiva. Un’offensiva che era (ed è) necessaria non soltanto per gli stessi neri, ma per tutti gli altri subalterni a prescindere dal loro colore.
Ecco allora schiudersi un altro piano del discorso; come scavalcare quella linea del colore? Come è noto, fu la consapevolezza della propria posizione oggettiva nel ventre della bestia, a fornire il punto di forza per le elaborazioni e l’azione dei neri nel contesto interno ed internazionale degli Stati Uniti, capofila del cartello di dominio capitalista.
Essendo colonia, ovvero essendo laboratorio di domino e sfruttamento i cui risultati, una volta testati, poi si ripetono e ripercuotono nella madrepatria, agire al suo interno significa portare la guerra dentro uno dei punti più avanzati del nemico, scompaginarne l’avanguardia ed incepparne la replicazione.
E, come in ogni colonia, l’oppresso si libera da sé, deve liberarsi da solo proprio per scoprire le sue reali forze e potenzialità, per ritrovare l’umano sepolto sotto croste di inferiorità imposta; e quando lotta lo fa sulla prima linea dello sfruttamento capitalista. I popoli bianchi del caso, come già invitava a fare Fanon ai compagni francesi rispetto alla guerra in Algeria o il Che agli studenti americani rispetto a Cuba, devono invece portare la guerra nelle retrovie, in casa del nemico. Fronte e retrovia devono coordinarsi, connettersi, ma mai confondersi.
Le Pantere, che apertamente rifiutavano la retorica razziale che fioriva anche in seno al loro campo e coltivavano un turbolento ma prolifico rapporto con gli altri movimenti, non accettavano di aggregare membri bianchi al partito, né volevano qualche attivista di Berkley a volantinare nel ghetto. Con le altre comunità e gli altri movimenti piuttosto era d’obbligo stringere alleanze e rapporti che portassero alla costruzione di un fronte antimperialista, anticapitalista e rivoluzionario. Dalla liberazione di un anello della catena dipende la liberazione di ciascuno.
Ma prima ancora che essere strategia politica messa a sistema, un tale sistema di alleanze si è sempre dato tra gli oppressi in forma spontanea e istintuale: se è certo vero che la competizione tra pezzenti ha perennemente comportato una violenta e tesa rivalità interrazziale, è anche vero che alle comunità di schiavi fuggiaschi erano interni anche numerosi mezzadri bianchi, spinti dalla miseria e dal giogo padronale alla fuga, così come erano spesso partecipi delle rivolte contro gli schiavisti, che erano non erano poi padroni solo di schiavi.
Così come in coda al ventesimo secolo le fiamme del riot di Watts non parlavano solo di violenza della polizia e di neri brutalizzati, ma di una rabbia che era nera, bianca, chicana e asiatica. Una rabbia che apparteneva a tutti coloro che in vent’anni di retorica sulla underclass e la lotta al crimine giocate sulla pelle dei neri, avevano visto scaricarsi addosso tutto il peso della ristrutturazione neoliberista.
Lo stesso dicasi per l’eruzione dell’ultimo BLM, quando la spontaneità era ancora padrona, la sussunzione non completata e le proteste bruciavano anche il midwest repubblicano.

Quando si guarda alla storia ed alle teorie del proletariato nero, quindi, la razza è un elemento fondamentale e non aggirabile; ma è una porta, un primo tassello da smantellare per aprire ad una dimensione politica più profonda. A focalizzarsi sull’identità razziale si cade in una trappola costruita dal nemico, fatta di politiche identitare, particolarismi e moralità. È invece la trasformazione dell’esistente ad essere messa all’ordine della discussione. Superare la linea del colore, così come dell’antirazzismo morale e liberale, insomma, vuol dire andare a scuola dal subalterno in guerra per la vita, ripensare la colonia come paradigma di governo della democrazia neoliberista che non riguarda solo un pezzo particolare della popolazione ma tutti i dominati, tutta la struttura. Soprattutto, significa rimettere al centro la questione del potere, dalla sua riappropriazione al suo controutilizzo.
La storia degli afroamericani non ci parla di sconfitti, o di pietas, non dice “i neri sono oppressi, liberate i neri”. Ci dice che se vogliamo farla finita con la razza dobbiamo anzitutto pensare a distruggere la macchina da guerra del padrone.

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