di Walter Catalano

Dopo aver determinato fin dagli anni ‘80 l’immaginario visuale della fantascienza a venire con film come Alien e Blade Runner, Ridley Scott, si è da decenni cristallizzato in una carriera fatta di alti e bassi, di colpi di genio e di banalità kitsch, spaziando un po’ attraverso tutti i generi – dal neon noir  di Black Rain al neo-peplum de Il gladiatore, dal clito-esistenzialismo di Thelma & Louise al fascio-femminismo di Soldato Jane – per riemergere recentemente in modo saltuario e poco convinto nel campo SF con le tutt’altro che entusiasmanti prove di Prometheus  e Alien:Covenant.

Anche nel campo del serial televisivo il cineasta britannico si era finora cimentato come produttore esecutivo, abbastanza defilato, in progetti efficaci come The Man in the High Castle, da P.K. Dick, e la prima stagione di The Terror, da Dan Simmons, o l’interessante ma purtroppo sfortunato Strange Angel ispirato all’omonima biografia dello scienziato-stregone Jack Parsons, sebbene un coinvolgimento più totale anche come showrunner e regista non fosse mai stato concesso. Con Raised by Wolves, serie ideata e sceneggiata da Aaron Guzikowski (già autore di Prisoners per Denis Villeneuve, della serie The Red Road, e del quasi ignorato remake di Papillon) e distribuita da HBO Max, invece si è finalmente messo in campo oltre che come produttore esecutivo, anche come regista dei primi due episodi (affidando i successivi, sotto la sua supervisione, ad altri, compreso suo figlio Luke). E’ un ritorno alla fantascienza a pieno titolo, recuperando tutti o gran parte dei temi affrontati nei suoi primi e più famosi film: gli androidi prima di tutto. Androidi in stile Ash di Alien, più che Roy di Blade Runner, con plasma bianco che scorre loro nelle vene e che schizza fuori al posto del sangue quando è il caso.

La vicenda si svolge su Kepler-22b, pianeta extrasolare (realmente esistente) che orbita attorno a Kepler-22, una nana gialla lievemente più piccola del Sole distante circa 620 anni luce dal sistema solare, situata nella costellazione del Cigno, e appartenente alla categoria delle super Terre, cioè corpi celesti affini per massa al nostro pianeta. Qui gli androidi Madre e Padre sbarcano con un piccolo numero di feti umani e il compito di crescerli per ricostruire in libertà e pace una nuova umanità, essendo quella terrestre sul punto di scomparire dilaniata sul pianeta d’origine da una spietata guerra di religione fra Atei e Credenti, detti Mitraici.

Sottolineiamo a questo proposito un aspetto interessante che pochi hanno notato, dati gli accenni allusivi disseminati lungo tutto il corso delle puntate e che lasciano ampio spazio allo spettatore per ricomporre i frammenti sparsi di un mosaico sfumato ma inequivocabile. Il futuro descritto nella serie non scaturisce da un immaginario arbitrario e casuale ma si origina presumibilmente da un mondo ucronico molto preciso in cui l’Impero romano d’Occidente non è mai crollato e dove la religione di Mitra, rivale del cristianesimo, non è stata soffocata dall’editto di Tessalonica del 380 e dai successivi decreti del 391, con i quali Teodosio imponeva all’Impero come religione di stato il cristianesimo nella forma niceno-costantinopolitana, cioè secondo la formulazione del Concilio di Nicea, mettendo fuori legge ogni altro culto. La fede in Apollo e Mitra, sincretizzati in Sol Invictus, dio sole di Emesa, professata dagli imperatori Eliogabalo, Aureliano e Giuliano, sarebbe dunque sopravvissuta all’alleanza progressivamente sempre più stringente con le gerarchie cristiane voluta da Galerio, Costantino e Teodosio, cancellando definitivamente le dottrine rivali (nel nostro mondo la cancellazione è avvenuta invece all’inverso e, solo per citare un esempio, il 25 dicembre, dies natalis del Sol invictus, solstizio d’inverno, è diventato a forza il Natale cristiano).

Nella serie, la religione del futuro deriverebbe quindi dal mitraismo, divenuto però un culto fanatico, gerarchico e sacerdotale (non meno del cristianesimo) che adora Sol, un dio personale simboleggiato da un sole cucito sulle divise candide degli allo-crociati interplanetari, dai caschi simili ad elmi legionari o medievali e dai nomi propri romani come Marcus, Lucius, Drusus o Cassia. La fazione opposta, e perdente, è rappresentata dagli Atei che ostentano invece nomi anglosassoni e rifiutano ogni imposizione irrazionalistica e liturgica.

Quasi decimati questi pochi superstiti cercano di far sopravvivere i loro ideali illuministici progettando la missione su Kepler-22b. Campion Sturges, il Creatore, ex scienziato mitraico passato dalla parte degli Atei, modifica due androidi, riprogrammandoli secondo modalità umane, soggette quindi ad empatia: Padre, un androide di servizio, efficiente ma non troppo avanzato e Madre, una micidiale macchina bellica, sottratta agli avversari mitraici, una Lamia, versione Negromante, capace – grazie al potere dei suoi occhi estraibili e sostituibili – di assumere forma corazzata e volare rigida con le braccia in forma di croce disintegrando uomini e cose con il suo terrifico grido ultrasonico.

La prima stagione della serie, già riconfermata per una seconda, si sofferma sulle vicissitudini del primo insediamento e il dibattersi delle due creature artificiali fra la loro natura macchinica e l’insorgere di sentimenti e passioni umane: l’affetto reciproco e per i “figli” loro affidati. Tutti i bambini della prima generazione, tranne uno, moriranno (ma la più piccola, scomparsa precipitando in un cratere senza fondo, riapparirà anni più tardi al fratellastro sopravvissuto come inquietante e malevolo revenant) e verranno sostituiti con una seconda generazione di età superiore, rapita al gruppo rivale di Mitraici, anch’essi in fuga, atterrato su un’astronave-arca chiamata Heaven, Paradiso, in un altro punto del pianeta, e in larga parte sterminato da Lamia.

Nel gruppo di Mitraici sopravvissuti sono infiltrati due Atei, marito e moglie, che hanno ucciso i due veri componenti dell’equipaggio assumendone chirurgicamente i tratti somatici: come Padre e Madre, anche loro hanno trovato un “figlio” nel bambino della coppia che hanno assassinato, affezionandosi a lui come veri genitori. Si delinea abbastanza chiaramente il tema portante – e ricorrente in Scott – della Genitorialità e della Maternità in particolare, e la parziale spiegazione del titolo: “cresciuti dai lupi”. Anche un aspetto metafisico e mitologico in questo ambito si svilupperà nella seconda parte dello show: forse è atteso l’avvento di un nuovo Messia, e i due androidi hanno tutta l’aria di nuovi insoliti Adamo ed Eva, generanti senza unione sessuale e in edenica grazia, ma chi sarà il bambino all’origine della nuova umanità? Per scoprirlo Madre,  infrangendo i protocolli del proprio sistema operativo, cercherà di recuperare i suoi blocchi di memoria cancellati e durante progressivi flashback agnitivo-psichedelici incontrerà più volte virtualmente il Creatore nel laboratorio dove è stata riprogrammata, finendo per avere con lui un appassionato amplesso che la lascerà miracolosamente incinta – divertente la scena della reazione offesa e ingelosita di Padre quando lei, ancora eccitata dall’esperienza, gli rivela candidamente l’“adulterio”. Credendosi finalmente madre davvero, Madre partorirà poi un mostruoso incrocio fra una lampreda e un serpente. Il simbolo del serpente potrebbe di nuovo rimandare ai Misteri di Mitra, ma per una spiegazione, speriamo soddisfacente, di questo e dei molti altri enigmi (allegorici?) disseminati nel corso della trama, bisognerà aspettare la prossima stagione.

Se la storia, pur derivativa, trae dalla sua ambiguità e laconicità gran parte del proprio fascino, un forte debito narrativo, oltre che all’inevitabile Philip K. Dick, va assegnato anche e soprattutto ai fumetti di Alejandro Jodorowski – L’Incal, La casta dei Meta-Baroni e I Tecnopadri. Il film progettato e mai realizzato dal maestro cileno, quel Dune – tratto dall’opera di Frank Herbert e passato dopo il siluramento di Jodo e una drastica riduzione del budget ad un poco convinto David Lynch – che avrebbe dovuto essere il massimo kolossal della fantascienza dell’epoca, coinvolgendo Moebius, Philippe Druillet, H.R. Giger, Salvador Dalì e tutta la creatività più lisergica di quegli anni, trasferirà il proprio immaginario visuale, attraverso gli story-board realizzati, oltre che ai fumetti del team di Metal Hurlant, a Dan O’Bannon, coinvolto nel progetto come supervisore agli effetti speciali, che lo riutilizzerà, insieme a Giger, per Alien. Da qui farà presa su Ridley Scott e si riverserà su Blade Runner, diventando la matrice visionaria di tutta la figuratività fantascientifica dagli anni ’80 ad oggi.

Proprio nell’immagine infatti, assai più che nella trama, va cercata l’importanza e la significatività di questa serie. I paesaggi brulli e montagnosi del pianeta, i colori desaturati, il decor archeofuturista degli ambienti e dei costumi, il design brancusiano delle astronavi, l’essenzialità olografica della tecnologia, tutto concorre all’edificazione di una stilizzazione visionaria di grande suggestione. Anche il fisico particolare degli attori è parte di questa estetica estraniante: la bellezza androgina dell’attrice e modella danese Amanda Collin – vera rivelazione della serie come Madre – esageratamente alta e magra, capelli a spazzola, sorriso botticelliano; il nero massiccio e bonario Abubakar Salim, servizievole ma risoluto, Padre, sempre pronto nei momenti meno opportuni a raccontare barzellette che non fanno ridere nessuno; Travis Fimmel – l’ex supermodello Kelvin Klein divenuto famoso come attore nel ruolo di Ragnarr Loðbrók nella serie Vikings – mefistofelico Marcus/Caleb; Niamh Algar – attrice irlandese, occhi di ghiaccio e mascella decisa, conosciuta soprattutto come protagonista femminile nel bel noir dublinese Calm With Horses di  Nick Rowland –  come Sue/Mary compagna di Marcus/Caleb. Infine i molti attori bambini che conferiscono alla serie un’apparenza (ingannevole) di contenuta saga young adult.

 Il risultato finale è decisamente intrigante. Un ritmo rilassato scandito da dialoghi spesso impegnativi che potrebbe risultare lento e pesante ad uno spettatore frettoloso, spezzato però spesso e volentieri da improvvise sequenze d’azione violenta e splatter (l’attacco di Lamia all’Arca dei Mitraici al grido micidiale che spappola gli avversari riducendoli in poltiglia sanguinolenta; gli scontri a fuoco fra Atei e Mitraici sulla Terra; gli androidi uccisi e riattivati più volte, con occhi e cuori espiantati e ritrapiantati tra profluvi di plasma bianchiccio; ecc.). Un ben equilibrato dosaggio tra avventura spaziale e riflessione filosofica (la dialettica fra fede e ragione, la coincidenza degli opposti, la diatriba dickiana fa umano e non-umano, fra naturale e artificiale, la Maternità e il rapporto figlio-genitore, ecc.) e i criptici riferimenti ad una simbolica mistica probabilmente più complessa di quello che lo spettatore medio possa inferire (Mitra, ecc. …e qui l’imprinting esoterico di papà Jodo emerge ancora più evidente), rendono questa serie assai più colta di quanto l’abitudine abbia indotto ad aspettarsi e probabilmente fin troppo ardua e disagevole al gusto comune. Ulteriore stigma di raffinatezza la splendida sigla dei titoli di apertura, con un pezzo composto da Ben Frost, intitolato semplicemente Opening Titles, e cantato dalla svedese Mariam Wallentin, l’immaginifico testo varia tra il secondo e il terzo episodio, la musica è degna di ascoltatori sofisticati.

Il giudizio complessivo sulla serie, a conti fatti, non può essere che positivo. E’ pur vero che gran parte degli interrogativi suscitati restano per ora senza risposta, che un’interpretazione coerente permane al momento dubbiosa e fin troppo problematica e che ben poco ancora può evincersi degli sviluppi futuri di personaggi e situazioni: ogni possibile soluzione è demandata alla o alle stagioni a venire e questa prima appare più che altro una promettente premessa ad un lungo e necessario proseguimento chiarificatore. Speriamo – onde evitare delusioni alla Lost – che giunga  presto e in termini sufficientemente esaurienti.