di Stefano Erasmo Pacini

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La situazione iniziò a precipitare quando persino nel nostro piccolo paese medioevale ci accorgemmo di essere non solo guardati male dai vecchi del Pci e costantemente spiati dai carabinieri durante ogni sciopero, assemblea, corteo, ritrovo casuale, ma accoltellati alle spalle dalla improvvisa irruzione dell’eroina.
Brio di Follonica ce lo disse subito, candidamente: “Ragazzi, non è un caso che per un po’ di tempo si trovasse pochissimo fumo in giro, lo hanno fatto sparire, poi hanno immesso la bianca, a poco, a prezzi stracciati. L’hai mai provata? Ah, è bellissima, è pazzesca, come fai a spiegarla? Appena ti buchi senti un’onda calda da capo a piedi, un vero e proprio orgasmo con il tuo corpo, poi subentra una pace liquida enorme, beata, che speri non termini più. Ma quando riemergi non fai più vita, perché avverti quello che hai perso in maniera insostenibile. E allora, che tu lo voglia o no, prima o poi ti rifai, e come ti fai ti accorgi che ti fa un po’ meno e allora magari ti rifai prima e poi… a quel punto sei del gatto, vivi solo per la bianca, non esiste altro, non te ne frega più niente, tutto viene dopo. Mi faccio schifo ma è così, non so che farci”
Neppure noi sapevamo che fare. Cercavamo di cacciare gli spacciatori, ma spesso erano ragazzi come Brio o Alessio diventati tossicodipendenti; i trafficanti grossi erano mafiosi tollerati dal potere. L’equazione era semplice: più eroina, più debolezza, meno giovani arrabbiati, meno guai.
Brio non si compativa né voleva esserlo, spesso metteva su quello che chiamava teatro-guerriglia, con travestimenti, spettacoli surreali di poesia e di mimo. All’Umbria Jazz lo ritrovai che raccontava come avesse fatto l’autostop a un commenda che poi l’aveva ospitato due giorni a casa sua, sfamandolo e rivestendolo, gli era parso doveroso scoparselo prima di andarsene. Brio non si faceva recuperare da nessuno, scappava anche dalle comunità terapeutiche, riusciva sempre ad ironizzare sui propri mali e le sue debolezze.
Su un conto della spesa aveva scritto: “Solo perché voleva vivere lo aiutarono a morire presto.” Una volta riuscì a convincermi a comperare insieme a lui cinquantamila lire di erba. Naturalmente non avevo più visto né le une né l’altra, ma quando lo incontravo glielo ricordavo, così, giusto per farlo sentire un po’ in colpa. Finché una sera Brio mi fissò negli occhi e mi domandò se la nostra amicizia era più o meno importante di quattro soldi, e mi dette un libro di poesie di Ferlinghetti, rubato di fresco. Con l’andare del tempo la legge lo dichiarò delinquente abituale, finì confinato in un paesino di montagna, come fosse un mafioso. Lo incontrai l’ultima volta per caso lì, nel bar alimentari, ma non lo riconobbi subito, aveva i capelli completamente bianchi, sembrava un vecchio, camminava adagio. Era già malato di aids, il ricordo che avevo di lui non collimava più con la realtà. Poi mi parlò, e il suono familiare della sua voce mi fece capire con un tuffo al cuore chi fosse. Mi chiese di rendere giustizia a un suo amico, lasciato morire in overdose da un medico che aveva rifiutato il soccorso. Fino all’ultimo non si è mai disperato, scriveva poesie, alle volte sui muri con lo spray.
Del suo giro di amici, a distanza di pochi anni, non è sopravvissuto nessuno, e questo è accaduto in tutta Italia. Iniziarono a morire dapprima in maniera sporadica, con titoli giganteschi dei giornali locali. Poi sempre di più, a un certo punto a decine, tanto da meritarsi a fatica un articoletto in cronaca locale, tra una premiazione scolastica e una sagra della ranocchia fritta. Una generazione di desaparecidos dell’eroina, senza clamore o ricordo storico, morti senza possibilità di alcuna giustizia sia pur postuma. Di lui mi rimane un libro di Ferlinghetti e una poesia che aveva vergato nell’ultima pagina:

Parlare
iperparlare
la ragione sragiona
e ha ragione
se i mentecatti vinceranno
non ci saranno più i pazzi che ridono.


Mia sorella si era laureata, sposata e stabilita nel lontano Meridione. Mia madre mi disse che aveva discusso con mio padre e ora si aspettavano che anch’io scegliessi una facoltà: “Lascia perdere la politica, tagliati i capelli, datti una regolata e studia davvero e se no, se non vuoi fare l’università, come tecnico minerario sulle piattaforme petrolifere pagano bene, sai?
Ci parlavamo sempre meno, non esisteva più lo spirito del fantastico avamposto di campagna. I nonni uno a uno si erano spenti, sempre più scettici su un mondo irriconoscibile per loro. I miei erano sempre più stressati a causa di lavori che non lasciavano che rari momenti liberi, si sorrideva sempre meno, le comodità, gli elettrodomestici, i soldi, che adesso permettevano di cambiare anche l’arredamento e avere due auto, non compensavano la dignitosa povertà di un tempo. Oltretutto non riuscivano a capire la mia rabbia, il mio gesticolare e maledire, le discussioni finivano spesso male. Mio padre riusciva a mantenere la calma anche se spesso scuoteva la testa, cercava di farmi ragionare portandomi ad esempio Torquato, il nostro vicino di podere diventato senatore del Pci. Non capiva che quel tipo di politica per me non solo era finita, ma nemica. Un giorno, dopo l’ennesima scaramuccia, mia madre non si tenne più: “Accidenti a te e a chi ti ha fatto porcoddissi! Tanto lo sentii appena incinta che crostino saresti stato! E poi dopo la tu’ sorella che mi fece vedere i sorci verdi e non si capiva se sarebbe campata o no…figurati se ti volevo! Ho fatto di tutto per tirarti giù, ballare fino alle tre di notte, dare una mano a tuo padre in campagna, portare secchi pieni d’acqua, pesi… niente, sei nato di quasi cinque chili e hai cominciato a mangiare tutto, anche il buio avresti mangiato! Non arrivavi ancora con la testa al bordo del tavolino e già prendevi la roba da mangiare nel piatto di tua sorella, tanto che lei dalla rabbia ha cominciato finalmente a mangiare, in un certo senso le hai salvato la vita, ma di due figlioli qui non se ne fa uno a garbo!”
E lanciò l’asciughino dentro l’acquaio, uscendo di casa. Rimasi muto, non riuscii a ribattere niente, come facevo solitamente. Impietrito, anche se non lo detti a vedere. “Gli uomini devono essere forti, gli uomini non devono mai piangere, gli uomini non devono far capire cosa hanno dentro, ma agire.” Avevo da essere uomo, per forza.

Alla fine mi iscrissi a Filosofia a Firenze, ma a tempo pieno frequentavo solo i collettivi, spostandomi anche a Roma. Ci eravamo stufati di farci sparare addosso. Iniziammo a fare riunioni semi segrete, a staccarci dai vecchi gruppi che predicavano la rivoluzione a parole e poi partecipavano alle elezioni con risultati pessimi.
Tornai in paese per il funerale di Silvio “il leone”. Lo chiamavo così per via dei capelli forti e foltissimi. Piccolino e sorridente non dimostrava gli anni che aveva; curava la bacheca del gruppo anarchico Pietro Gori, suonava il mandolino e era un bravissimo creatore di mascheroni di carnevale con la carta pesta. Mi aveva raccontato di Pietro Gori, Bakunin, Malatesta e Durruti, delle sue peripezie per il mondo, di fatti meravigliosi e sconosciuti, come l’occupazione della chiesa a Scarlino per farne un teatro, con la storia del Bartolomei che dopo questi eventi, perseguitato dal fascismo era andato in esilio in Francia dove aveva ucciso in una sparatoria un prete italiano spia dell’Ovra fascista, per fuggire poi in Belgio, emigrando definitivamente, all’arrivo dei nazisti, a Montevideo, dove continuò a sostenere con collette e articoli la stampa libertaria. Mi aveva raccontato della vita dissoluta di Quisnello Nozzoli, ciabattino massetano, rissaiolo, agitatore, finito a Barcellona durante la guerra civile a infilzare con una spada i franchisti dichiarandosi anarchico trionfante. Riparato poi in Messico dopo esser transitato per Cuba, e ritornato in Italia alla fine della guerra. Saremmo stati tutto il giorno ad ascoltarlo. Silvio ci offrì di dividere la sua bacheca con i nostri sogni. La sua vita era stata tutta una avventura e noi ragazzi ribelli lo ascoltammo sempre con stupore e rispetto.
Piansi come un bimbo ma stavo piangendo anche quella stagione di scoperte e stupori che mi sembrava così lontana e perduta. Ci ritrovammo tutti insieme, forse per l’ultima volta, vecchi e giovani, riempiendo la via fino alla porta medioevale che guarda verso Siena. Un vecchio compagno del Cln ricordò la sua incrollabile fede in un mondo migliore, libero, solidale. La sua schiena dritta negli anni bui, le persecuzioni patite. Alla fine della cerimonia mentre Mau urlava “Sempre viva l’anarchia!” e il carro funebre con la bandiera rossa e nera partiva per il crematorio di Livorno, si avvicinò silenzioso alle mie spalle Mirto e mi disse in un soffio: “Paco stai attento, ho sentito dal responsabile del Partito che i carabinieri ti stanno curando, stai attento per favore. Questi scherzano poco, buttano via la chiave.” Poi mi dette una occhiata di sbieco scuotendo la testa, si allontanò come se non mi avesse neppure visto.

 

 

Ho cominciato a essere più circospetto, ma neppure per un attimo ho pensato a tirarmi indietro. Istinto e fortuna mi aiutavano. L’istinto animale che ti fa percepire un pericolo senza spiegarlo. Avevamo un appartamento in centro a Firenze dove alcuni di noi vivevano e altri transitavano, per organizzare manifestazioni e diffondere stampa insurrezionalista e movimentista, il cui confine con le formazioni clandestine era labile, specialmente per la polizia. Quella mattina ero appena arrivato nella via sotto casa, ma qualcosa di inspiegabile mi aveva bloccato. Una forza misteriosa mi aveva obbligato a tornare indietro. Dopo un po’ di fronte a una vetrina avevo visto un tipo che mi seguiva. Era sicuramente della squadra politica della questura. Avevo raggiunto apparentemente tranquillo una libreria in centro, sempre col tipo che mi pedinava. Entrato dentro avevo chiesto a un commesso che conoscevo, uno di quei ragazzi assunti per qualche mese che simpatizzavano per noi e spesso chiudevano gli occhi sui libri portati via o pagati in parte, se ci fosse una uscita secondaria. Aveva capito subito, senza fare una piega mi aveva guidato in magazzino e da qui in un vicoletto laterale. A fatica ero riuscito a dirgli un grazie sottovoce. Il giorno dopo da Roma potevo leggere di sei arresti tra gli studenti universitari di Firenze. Alcuni sarebbero stati rilasciati dopo pochi mesi, altri dopo diversi anni.