di Jack Orlando

Antudo Info (a cura di), Si resti arrinesci, Deriveapprodi 2020, 9,00€

È da quando l’Italia è fatta che la famigerata Questione meridionale torna ciclicamente ad agitare il dibattito politico, con la sua coda di narrazioni vittimistiche e di paternali da vecchia borghesia, di scrollate di spalle e promesse solenni; un nodo mai sciolto perché in fondo non si può sciogliere uno dei pilastri dell’edificio del paese Italia, costruito sul sottosviluppo consapevole e strutturale del Sud a vantaggio del motore capitalistico collocato al Nord.

Un Sud buono per essere usato come bacino di forza lavoro da trapiantare altrove, alle catene di montaggio della fabbrica, tra gli scaffali del terziario precarizzato o tra i banchi delle università-aziende delle metropoli, usato come discarica dove buttare gli scarti tossici di produzione e le colpe ataviche e primigenie del popolo italico pigro, truffatore e violento, la culla mitopoietica di un discorso dal sapore semirazziale, sempre buono per la legittimazione di politiche di sfruttamento sociale e avanzamento capitalistico da riversare poi su tutto il Belpaese.

Il Sud Italia come colonia interna, conquistato e assorbito a colpi di cannone e baionetta, normalizzato attraverso l’emorragia sociale delle migrazioni, desertificato attraverso la politica predatoria: è da questo assunto che parte il lavoro politico che la piattaforma siciliana Antudo ha sintetizzato nelle cento pagine del libro Si resti arrinesci (“se rimani riesci”), slogan che ribalta il vecchio e triste adagio cu nesci arrinesci (“chi parte riesce”), nel tentativo di dare corpo materiale e discorsivo alla battaglia contro l’emigrazione (soprattutto giovanile) dall’isola.

Più che tratteggiare i contorni essenziali di questa esperienza politica, quello che si rivela di importanza strategica nella riflessione proposta è l’assunzione di un punto focale per una prassi politica radicale (radicale nel senso originario, di andare alla radice delle cose) che sappia assumere attorno e dentro di sé tutto un caleidoscopio di contraddizioni e frizioni che vivono dentro lo schema del presente.

Assumere l’emigrazione come terreno di scontro vuol dire quindi andare a riscoprire quella storia, rimossa dalla storiografia ufficiale, che fa da trampolino alla riscoperta di un’identità culturale e collettiva sepolta sotto cumuli di giudizi inferiorizzanti. Insegnava Fanon che la scoperta di una propria identità e dignità costituisce una delle basi per il dischiudersi di una soggettività in grado di reclamare la propria emancipazione ed esercitare la propria coscienza. Non solo: significa ragionare sui meccanismi che si celano sotto quell’identità spezzata e sulle logiche politiche che hanno dato la forma alla realtà del meridione – quale posto assegnare alla sua gioventù, quali funzioni produttive (o improduttive) consegnare ai territori, quale tributo di sangue e denaro collocare sulla bilancia di disoccupazione e tassazione, quali nodi devono stringere più dolorosamente il corpo sociale per mantenerlo nella sua condizione subordinata.

Oppure, ancora, significa agire su una condizione oggettiva, materiale, che informa però soggettivamente tutto il tessuto sociale, ne crea le condizioni psicologiche ed emotive: dalle amicizie perse ai tornelli del porto, agli abbracci di congedo nelle famiglie, fino al senso di impotenza che aleggia su chi rimane e guarda gli altri andare altrove e quello di ineluttabilità che contorna gli emigranti. La dimensione strutturale si fa qui fatto intimo, di un personale che è immediatamente collettivo perché accomuna tutta una popolazione; il fattore particolare sgrana il rosario delle contraddizioni per disegnare tutto lo spettro del sistema di dominio e sfruttamento.
La battaglia per fermare l’emigrazione è allora battaglia per costruire le condizioni per rimanere, rimanere è il presupposto per la ricostruzione di una forza collettiva in grado di incidere e scardinare le strutture del nemico e costruire delle ipotesi concrete di cambiamento reale.

Se quello di Antudo è un lavoro pensato, costruito e agito particolarmente sulla dimensione locale della Sicilia è anche vero che, come vuole il luogo comune per cui ogni Nord ha il suo Sud, non è una dimensione esclusivamente siciliana quella dell’emigrazione come problema sociale, che, anzi, accomuna non solo tutto il meridione italiano, ma anche buona parte delle sue province, in cui il futuro ha i contorni stretti e grigi del cemento. Un minimo comune denominatore quindi, su cui ritorna quella possibilità di andare alla radice delle cose e dare corpo a focolai di resistenza e costruzione del dissenso e del contropotere.

Azzardando l’ipotesi di salire ancora di più nella catena della violenza sistemica, il marchio a fuoco impresso a suo tempo da casa Savoia alle terre del fu regno borbonico, non ricorda molto da vicino la collocazione che l’Italia ha assunto giocoforza nello scacchiere europeo? Fornitore di manodopera specializzata e rassegnata, discarica di colpe e rifiuti, peones cui dare pacche (o randellate) sulla testa; assunta con una punta di sarcasmo e saccenza padronale nel novero dei Pigs, i paesi scarsi d’Europa, i maiali che stanno nel primo mondo giusto a patto di stare nel fango del porcile.

Seguendo il filo del dominio coloniale non si tratta più (o non solo) di una faccenda localistica, di una Questione meridionale, ma di una questione dei territori, del loro uso capitalistico ma anche del loro contro-utilizzo all’interno di un disegno di antagonismo radicale di ampio respiro. Non si sta parlando qui della vetusta e mai chiarita parola d’ordine “ritornare nei territori”, ma di impugnare quei punti focali, quale è ad esempio l’emigrazione, che assumono su di sé la carica delle emozioni proprie del soggettivo e la dimensione delle contraddizioni oggettive che il capitale mette in bella mostra sui marciapiedi, di coniugare un’azione capillare e localizzata con una strategia di costruzione organizzativa e politica il più ampia e articolata possibile, sulla base di elementi centrali e riproducibili. Tale è la scommessa ambiziosa che, in controluce, le pagine di Antudo sembrano suggerire all’occhio militante, levandosi di torno quelle sfumature morali da sinistra pretesca che nessun interesse suscitano nel soggetto reale, per affrontare invece battaglie che sono prima di tutto materiali e che, proprio in quanto materiali, vanno a mutare l’orizzonte dei peones convertendoli in guerrilleros, e a ridisegnare i territori da luoghi d’accumulazione di capitale ad avamposti di conflitto.

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