di Armando Lancellotti

Alberto Burgio, Critica della ragion razzista, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 272, € 20,00

L’ultimo lavoro di Alberto Burgio, da pochi mesi dato alle stampe, tratta di una materia di studio su cui, da oltre vent’anni a questa parte, il filosofo e docente di storia della filosofia dell’Università di Bologna è ritornato più volte: il razzismo, le sue forme, la sua storia. Il titolo del volume, Critica della ragion razzista, ricalca chiaramente ed opportunamente quelli delle Critiche kantiane, perché l’operazione che l’autore si propone di condurre è l’analisi dei fondamenti, delle condizioni di possibilità e di realizzazione della razionalità che ha prodotto l’ordine del discorso razzista; in altre parole, del razzismo vuole comprendere la genesi, la ragion d’essere e la morfologia.

Sul piano metodologico Burgio, fin dalle prime pagine, mette a fuoco come si renda necessario procedere preliminarmente ad una definizione del concetto di razzismo, che sia in grado di fuggire i limiti di un approccio meramente “storiografico”, che sembrerebbe intendere il razzismo come l’inventario fenomenologico completo delle sue multiformi manifestazioni. Si ripresenta, insomma, l’annosa questione, ben nota da molto tempo alla riflessione epistemologia, del corto circuito tra concetto (“a priori”, “la parola”) e dato empirico (“a posteriori”, “la cosa”); tra la necessità di una preliminare elaborazione concettuale, che guidi l’atto empirico, rendendolo capace di riconoscere “il dato” e l’altrettanto indispensabile e costante confronto con la concreta realtà dei dati d’esperienza (in questo caso le specifiche forme e manifestazioni particolari del razzismo), che diano sostanza e legittimità alla definizione del concetto.

In altri termini, Burgio esprime il bisogno di un’azione di comprensione “teoretica” del razzismo, che possa fungere da cornice di conoscenza complessiva della sua storia, dalla sua genesi fino alla contemporaneità. Si tratta allora di cogliere le strutture fondanti di quella che Burgio definisce come una «insaziabile fame di discriminazione» (p. 15) che turba la civiltà e la società moderne dal Cinquecento ad oggi, da quando l’Occidente non riesce a «fare a meno di inventare “razze” inferiori e parti infette dei corpi sociali che meritano di essere isolate o amputate». (p. 15)

Una delle tesi portanti di tutto il discorso di Burgio è che tra modernità e razzismo vi siano, per dir così, consustanzialità e consequenzialità: il razzismo è una malattia congenita della modernità e della nostra civiltà. Pertanto, esso va inteso come un fenomeno storico, vale a dire storicamente determinato e la sua storicità coincide con la modernità occidentale. L’autore critica le interpretazioni “metastoriche” del razzismo, che leggendolo come un aspetto congenito della “natura” umana e considerandolo avulso dalla concreta e determinata cornice storica della sua genesi e del suo sviluppo, lo trasformano di fatto in un fenomeno “naturale” e pertanto in qualcosa non solo di inevitabile, ma, alla fine, anche di giustificabile. Lo stesso deve dirsi delle interpretazioni “teologiche”, che, ancora una volta in maniera astorica e “metafisica”, lo leggono come la realizzazione del male assoluto, precludendosi così la possibilità di comprenderlo per ciò che è: un fenomeno storico, prodotto della storia della civiltà umana, insomma un fatto di cultura, non di natura. In quanto fenomeno culturale, il razzismo – spiega Burgio – si configura invece come a) un’organica e specifica struttura discorsiva; b) basata su antropologie di tipo essenzialistico; c) nata tra Sette e Ottocento sullo sfondo dei processi di modernizzazione (definitiva affermazione degli Stati-Nazione, urbanesimo, colonialismo e adozione di politiche imperialistiche, sviluppo dell’economia manifatturiera capitalistica, divisione sociale ed internazionale del lavoro); d) con potenti capacità performative, cioè di produzione di comportamenti collettivi.

Dinanzi ai cambiamenti profondi e sconvolgenti dell’età moderna, l’uomo occidentale ha avvertito il bisogno di nuove granitiche certezze e la ha trovate nel razzismo e nella convinzione incrollabile della propria superiorità essenziale. Molti sono gli intellettuali e numerose sono le opere che hanno posto l’accento sul legame tra modernità e violenza e tra i più significativi Burgio annovera i francofortesi Adorno e Horkheimer con la Dialettica dell’Illuminismo e Zygmunt Bauman con Modernità e Olocausto. Le tesi e le argomentazioni dei due scritti sono troppo note perché occorra qui ripercorrerle, ma entrambe le analisi sono da Burgio giudicate inadeguate, in quanto unilaterali, perciò riduttive e deterministiche. Individuano un solo aspetto della modernità, quasi che fosse l’unica epoca storica ad avere l’esclusiva della violenza e non, al contrario, proprio quella che ha dato il contributo essenziale e decisivo all’elaborazione di principi quali il rispetto della dignità umana, il riconoscimento dei diritti, la ricerca della giustizia, la libertà dell’individuo, insomma proprio quei valori “moderni” che fungono da criteri su cui si fondano i giudizi negativi espressi dai francofortesi e da Bauman sulla “modernità”. La tesi avanzata da Burgio è, potremmo dire, uguale e contraria: uguale, per l’individuazione dello stretto legame che unisce modernità e razzismo (e quindi violenza); contraria, in quanto l’autore ritiene che il razzismo sia nato «proprio perché la modernità non si è mai conciliata con la violenza che la pervade, e che per questa ragione – perché fonte di irrisolti conflitti etici – esige giustificazioni» (pp. 21-22): il razzismo è esattamente questa giustificazione, che permette alla civiltà occidentale moderna di trovare una conciliazione tra il piano intellettuale e teorico dei valori e dei principi che è andata elaborando e quello materiale, concreto, delle forme di violenza, sfruttamento e ingiustizia che ha sprigionato a seguito dei propri processi di sviluppo e di affermazione mondiale. Il razzismo è il lato oscuro della modernizzazione, il prodotto, l’espressione e l’esplicitazione delle sue contraddizioni strutturali.

È sul piano dell’etica, quindi, che l’analisi teoretica dei fondamenti e delle condizioni di possibilità della ragione razzista avanzata da Burgio rintraccia il cuore del problema: il razzismo ha risolto il dilemma etico prodotto dalla natura critica, ossia contraddittoria, della modernità, dalla divergenza tra quanto teorizzato e quanto praticato, tra il piano strutturale dei processi materiali di sviluppo e riproduzione economica e sociale (che hanno causato disuguaglianza, violenza, sopraffazione e sfruttamento) e quello intellettuale e valoriale di una cultura che parallelamente andava codificando i principi di libertà dell’individuo, di uguaglianza tra gli uomini e di fraternità universale. Per reggere il peso di questa palese contraddizione serviva una giustificazione autoassolutoria, un’ideologia adatta allo scopo: il razzismo.

La modernità ha una natura critica (cioè vive di lacerazioni e contrasti) ed è all’interno della contraddizione della modernità che occorre rintracciare la genesi del razzismo. Tra il Cinquecento e il Settecento la cultura moderna ha elaborato e diffuso il principio della “libertà” dell’uomo, inteso come uno di quei diritti inalienabili che tali sono perché naturali, ossia posseduti da tutti gli uomini, propri della sua natura e che pertanto rendono tutti gli uomini uguali; “uguaglianza” che ha senso solo se declinata in termini universali ed estesa a tutti gli esseri umani. Uguaglianza e universalità – dice Burgio – sono «cardini dell’ethos moderno» (p. 23), non di epoche storiche precedenti, fondate su distinzioni e gerarchie sociali essenzialistiche e quindi inattaccabili poiché pensate come – per esempio – parte dell’ordine divino. Con l’Ottocento e il Novecento, poi, la diffusione degli ideali e dei sistemi politici democratici ha ulteriormente sviluppato questo processo. È nella collisione tra principi etici (universalistici ed egualitari) e processi materiali di sopraffazione e sfruttamento che si consuma la tragedia della modernità che ha prodotto il razzismo come soluzione ideologica e come razionalizzazione autoassolutoria.

È la cultura illuministica che fissa definitivamente il binomio «libertà-uguaglianza definito sullo sfondo universalistico, cosmopolitico, dell’universalità» – in sostanza i “principi dell’89” – come cardine della tavola dei valori della civiltà occidentale, ma, al tempo stesso, le modalità della realizzazione materiale del principio della libertà all’interno delle relazioni e dei processi economico-sociali concreti e le dinamiche dei rapporti economico-politici tra l’Occidente e il resto del mondo hanno palesemente contraddetto quella stessa tavola assiologica egualitaria. La libertà è andata realmente configurandosi in termini esclusivamente individuali, particolaristici e privati: essa è la libertà economica dell’individuo della società borghese e capitalistica, che non riesce a trovare un punto di convergenza con il principio dell’uguaglianza. Se la libertà borghese, a seguito delle dinamiche della sua attuazione capitalistica si manifesta come libertà di iniziativa privata, di appropriazione, di imposizione di sé e subordinazione dell’altro, allora essa ripudia ed esclude l’uguaglianza, perché produce disuguaglianze, rinnovate forme di sfruttamento e di esclusione, nuove gerarchie sociali e conseguenti pratiche di sfruttamento e violenza. Se lo slancio e il pieno sviluppo dell’economia capitalistica moderna, mercantile e manifatturiera, determinano sul piano internazionale la corsa imperialistica dell’Occidente alla conquista coloniale e allo sfruttamento di risorse e di popoli lontani, allora il valore universalistico della fraternità si riduce ad una nobile ed elegante parola svuotata di senso.

Sono gli sviluppi stessi del progresso e dell’affermazione dell’Occidente moderno, quindi, che lo conducono di fronte ad una lacerante contraddizione, tutta interna alla modernità stessa: la divergenza tra l’idealità dei valori e la concretezza dei processi materiali, economico-sociali. La libertà borghese si riduce ad essere una libertà formale e giuridica che si regge su nuove disuguaglianze ed ingiustizie, che essa stessa produce, nonostante fosse stata elaborata, sul piano ideale, per sovvertire le disuguaglianze e le ingiustizie feudali dell’antico regime. Si tratta di una contraddizione palese tra ideale e reale, tra valori diffusi e condivisi dal senso comune e comportamenti altrettanto correnti nelle relazioni sociali in genere; un conflitto che ingenera nell’uomo occidentale un disagio morale ed un equivoco etico che richiedono di essere risolti. La disuguaglianza e l’ingiustizia praticate de facto necessitano di una giustificazione de jure, che salvaguardi la tavola dei valori ideali. Il razzismo risponde perfettamente a questa necessità e il caso dello schiavismo coloniale (della tratta dei neri africani, ecc.) è quello più emblematico: trasformare i popoli conquistati o i neri africani deportati in “razze”, renderli diversi ed inferiori in base a teorie (pseudo)scientifiche comporta la loro espulsione dal terreno di applicazione del valore dell’uguaglianza, che può così essere idealmente ribadito e al contempo concretamente e palesemente tradito. Il razzismo, osserva pertanto Burgio, è un potentissimo dispositivo ideologico di giustificazione e di riconciliazione dell’Occidente moderno con se stesso. E per elaborare questo apparato ideologico, la cultura moderna si serve di un altro dei suoi pilastri fondamentali, cioè della razionalità scientifica, ricorrendo ai saperi e alle scienze della vita o inventando nuove discipline, come la craniologia o l’eugenetica e così facendo, attribuisce oggettività, attendibilità e rigore a politiche, metodi e pratiche di sfruttamento, di discriminazione e di violenza.

Insomma, il razzismo è un processo di “razionalizzazione”, intendendo il concetto nel suo significato psicanalitico: è un meccanismo inconscio di difesa che consente la giustificazione e quindi l’accettazione di comportamenti altrimenti psicologicamente traumatici, disturbanti o angoscianti. Tale fenomeno di razionalizzazione viene conseguito attraverso la stesura di una narrazione ideologica (le teorie della razza) che funge da “falsa coscienza” dell’Occidente.

Burgio di seguito si occupa della morfologia e della fenomenologia del razzismo, analizzandone le forme fondamentali e le particolari manifestazioni storiche. Una prima tipologia di razzismo, detta poligenetica e sorta principalmente nell’ambito delle relazioni commerciali coloniali con il Nuovo mondo, nega l’esistenza di un’unica specie umana, teorizzando la compresenza di una pluralità di esse, tra di loro incommensurabilmente differenti (e che pertanto dovrebbero evitare ogni tipo di ibridazione o meticciato). Tale forma poligenetica è detta anche (secondo la categorizzazione di Pierre-André Taguieff, a cui più volte Burgio si riferisce) “differenzialistica” e conosce la propria manifestazione storica paradigmatica nell’antisemitismo moderno pseudosceintifico, erede di quello religioso antico e medievale, che ha condotto allo sterminio nazista degli ebrei d’Europa, considerati non tanto e non solo una “razza” non ariana “inferiore” da schiavizzare (al pari di slavi e latini), ma propriamente una razza “diversa”, di fatto disumana, la cui distruzione non comporta quindi l’insorgenza di alcuna resistenza etica.

La seconda fondamentale forma di razzismo è detta monogenetica e gerarchica: essa non nega l’appartenenza all’unica specie umana delle differenti razze, ma le colloca in una rigida gerarchia antropologica che sentenzia l’inferiorità delle une e la superiorità (per intelligenza, sensibilità, capacità, ecc.) delle altre, che possono così sentirsi legittimate a discriminare, segregare, asservire, sfruttare e infine anche sterminare le razze inferiori. Nel linguaggio di Taguieff, si tratta del razzismo “inegualitario”, che conosce la propria manifestazione paradigmatica nello schiavismo coloniale e nella tratta dei neri.

Va per prima cosa sottolineato come, nonostante le differenze, i due modelli possano intrecciarsi e sovrapporsi e come, in secondo luogo, la logica e la sintassi del discorso razzista si articolino secondo le medesime strutture in entrambi i casi e che sostanzialmente uguali sono anche gli effetti, ovverosia la giustificazione teorica di atti e comportamenti crudeli, che dalla discriminazione procedono fino alla possibile eliminazione fisica del gruppo che subisce il processo di trasformazione in “razza”. In linea di principio il razzismo “inegualitario” tende soprattutto a giustificare il dominio e lo sfruttamento, mentre quello “differenzialista” teorizza e prepara il terreno per l’esclusione e lo sterminio. Ma – rileva efficacemente Burgio – «l’ebreo, il non-uomo, può anche servire egregiamente come schiavo» – prima di essere eliminato – e «il nero e il proletario, “schiavi naturali”, possono ben essere sfruttati sino allo sfinimento in quanto, in definitiva, non pienamente umani» (p. 53) perché inferiori.

Per quanto riguarda la struttura logica della narrazione razzista, Burgio individua i seguenti elementi essenziali: la stereotipizzazione olistica, essenzialistica, riduzionistica e fissistica del gruppo che viene definito “razza”. Qualsiasi discorso razzista si regge sulla creazione di uno “stereotipo” fatto di presunti tratti fisici e psichici propri ed esclusivi di quel gruppo, che risulta in tal modo delineato e circoscritto. Fondamentale è il vincolo psico-somatico (in questo senso “olistico”), stretto e necessario, che il razzismo pone tra gli aspetti esteriori del corpo e le attitudini intellettuali, spirituali e morali della persona, che forzatamente ne conseguono. I tratti che connotano una razza vengono ipostatizzati, in sostanza vengono intesi come “essenze” naturali e non più come caratteristiche storicamente determinate di un gruppo umano, vale a dire caratteri culturali. In quanto tali, le proprietà di una razza diventano eterne ed immutabili, permangono “fisse” ed immodificabili nel tempo, vincolando in modo totale ed assoluto l’individuo alla razza di appartenenza. Si tratta di un tratto deterministico e totalitario del razzismo in forza del quale il singolo uomo è “ridotto” ad identificarsi totalmente con il gruppo, perdendo ogni aspetto o tratto individuale e particolare e finendo per essere considerato identico ad ogni altro.

«Lungi dall’essere entità naturali» – riflette Burgio – «le “razze umane” sono il prodotto (artificiale, simbolico) di tale articolato dispositivo. Per ciò stesso […] deve considerarsi oggetto di razzismo (“razzizzato”) qualsiasi gruppo umano nei confronti del quale venga impiegato questo dispositivo». (p. 54)
In altre parole «è oggettivamente razzista ogni discorso che proietti su un qualunque gruppo umano stereotipi olistici, essenzialistici, riduzionistici e fissistici». (p. 53) Pertanto, a nostro parere opportunamente, Burgio sottolinea come le forme di discriminazione e violenza che possono e che devono essere riconosciute come declinazioni particolari del dispositivo razzista siano molto più numerose di quelle “classicamente” considerate tali in riferimento al passato storico o al presente, ma in quanto ricollegabili o eredi di quelle passate. Perché il razzismo, si è visto, è un sistema ideologico di giustificazione e razionalizzazione della violenza dinamico e adattabile a contesti e oggetti differenti, ai quali applica lo stesso dispositivo di procedure. E allora nel corso del Settecento, nel momento della ascesa e dell’affermazione della borghesia europea e del sistema di produzione capitalistico, il sistema logico del razzismo si è rivelato arma potente nelle mani della borghesia nel conflitto sociale che ha condotto alla “razzizzazione” della classe operaia. E medesima sorte è toccata alle donne, ai poveri e alle altre categorie di “asociali” e refrattari all’ordine vigente, ai “delinquenti nati” dell’antropologia criminale lombrosiana e così via.

Osserva Burgio che per un lungo periodo «le classi lavoratrici e le donne sono state escluse dalla cittadinanza e integrate nella popolazione in funzione subordinata. E il discorso razzista ha costituito una risorsa ideologica fondamentale nella gestione di questa dinamica. Per secoli e ancora nella prima metà del Novecento servi, lavoratori salariati e donne furono rappresentati come “razze” a sé stanti, afflitte da specifiche tare fisiche e da insormontabili limiti intellettivi, caratterizzate da odori particolari e dall’insopprimibile vocazione a trasgredire i valori morali della classe media. […] Nei confronti delle componenti più povere delle comunità civili europee fu impiegato lo stesso schema sperimentato tra Sette e Ottocento sugli schiavi “negri” delle colonie» (p. 105). La stessa sorte che oggi tocca a chi occupa l’ultimo gradino della scala sociale, ai reietti delle nostre società di inizio XXI secolo, non più gli operai delle fabbriche, ma i migranti che si avvicinano alle porte dell’Occidente e i nuovi schiavi del capitalismo contemporaneo globalizzato.

Non è possibile in questa sede affrontare in maniera esaustiva la presentazione e il commento dell’intero contenuto del lavoro di Burgio, un libro rigoroso e profondo nell’analisi dell’argomento studiato e molto ricco ed articolato, per la capacità di affrontare i numerosissimi aspetti della storia del razzismo, come la complessa questione dell’antisemitismo, delle sue relazioni con l’antigiudaismo cristiano, che vengono esposte in modo puntuale ed incisivo, seppur necessariamente riassuntivo, nelle pagine centrali del libro, che si conclude con il sesto capitolo dedicato ad un aspetto dell’argomento di grande interesse e che più volte è stato da noi affrontato: il caso del razzismo italiano e della sua quasi totale rimozione dalla coscienza collettiva del nostro paese.

La riflessione di Burgio prende le mosse da una considerazione di Enzo Collotti, che nel suo libro del 2003 – Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Laterza – avanzava l’ipotesi che gli italiani, nell’immediato secondo dopoguerra, avessero rimosso le leggi razziali del 1938 e l’antisemitismo fascista per l’incapacità di affrontare e di elaborare fino in fondo l’enorme responsabilità di quanto accaduto e che per queste ragioni la voce “disturbante” dei testimoni, dei sopravvissuti, fosse rimasta per lo più inascoltata. L’autore opportunamente rileva che se il ragionamento dello storico e tra i massimi studiosi italiani del nazismo può essere considerato valido e pertinente per gli anni di poco successivi alla tragedia della guerra, lo stesso non si può dire per le generazioni di italiani successive e per i nostri giorni, per i quali si rende necessario comprendere come, perché e con quali conseguenze sia stato elaborato il mito collettivo del “bravo italiano”, che mostra una capacità di resistenza nel tempo e di pervasività tali da essere diventato parte essenziale ed inamovibile della coscienza collettiva italiana.

Per ricostruire la genesi e lo sviluppo del processo che ha condotto all’elaborazione dell’inossidabile immagine dell’italiano per indole e natura buono e quindi mai razzista, Burgio risale al lavoro storiografico di De Felice, che già a partire dagli anni Sessanta del XX secolo poneva le fondamenta dell’interpretazione sostanzialmente assolutoria della politica razziale fascista, che presentava le leggi del ’38 come una dettatura di Berlino, recepita e subita da Roma al fine di consolidare l’alleanza italo-tedesca e che non avrebbero però mai trovato un terreno adatto in cui attecchire, essendo il popolo italiano non ostile verso gli ebrei e in generale immune, a differenza di altri popoli e paesi europei, dalla malattia del razzismo; estraneità tra il carattere italiano e le dottrine della razza che sarebbe stata corroborata dalla tradizione cattolica del paese e dall’operato della Chiesa. Si trattava – è facile comprenderlo – di una rappresentazione “riduzionistica” di una delle pagine peggiori della storia della dittatura italiana, che si prestava ad un utilizzo ideologico, teso a diffondere un’immagine bonaria del fascismo e di Mussolini e che consentiva agli italiani di deresponsabilizzarsi e di concepirsi come “buoni” ed incapaci di quegli orrori che venivano imputati completamente ai “cattivi tedeschi”.

Sulla scorta dei risultati a cui, da molti anni ormai, è giunta la storiografia italiana antidefeliciana, Burgio ricorda come le leggi razziali del 1938 abbiano avuto una genesi ed uno sviluppo autonomi ed indipendenti dalle leggi di Norimberga e che i loro presupposti siano da ricercarsi nella legislazione di discriminazione e segregazione razziale in Africa e nelle brutali politiche di polizia coloniale, attuate in Libia e in AOI sia prima sia dopo la guerra d’Etiopia. Come, ben lungi dall’essere per indole estraneo ad ogni forma di razzismo, il popolo italiano abbia recepito la propaganda e la politica razziali volute dal regime, salutando positivamente l’emanazione delle leggi del ’38 ed avvantaggiandosene a scapito dei connazionali ebrei e come, infine, il tutto sia potuto accadere anche grazie ad una robusta e lunga tradizione di antigiudaismo cattolico, teorizzato, predicato e praticato dalla Chiesa e da molti suoi organi ed influenti esponenti.

A questo si aggiunga che ben prima del fascismo la pianta venefica del razzismo aveva messo radici in Italia, già a fine Ottocento nell’Italia liberale che si lanciò nelle imprese coloniali in Africa orientale e poi a inizio Novecento in Libia e, prima ancora, anche l’”epopea” risorgimentale del processo di unificazione nazionale non può dirsi esente da evidenti tratti di razzismo, un razzismo tutto interno al paese e diretto nei confronti della sua metà meridionale.

Di grande interesse sono le considerazioni di Napoleone Colajanni, a fine Ottocento, e di Antonio Gramsci, trent’anni dopo, che mostrano come fosse ben chiaro nella mente di entrambi il funzionamento di quel dispositivo di razzizzazione di un gruppo umano, da Burgio descritto nelle pagine e nei capitoli del nostro libro. Per celare la natura “coloniale” del Risorgimento italiano nel Meridione e le vere responsabilità dell’arretratezza del Sud e della sua sottomissione al Nord, furono attuati, nei confronti dei meridionali in genere e delle plebi in particolare, i medesimi processi di codificazione di una “razza”, da considerare inferiore e perciò da sottomettere e sfruttare, già ampiamente praticati da tutto l’Occidente in Africa, nei confronti dei neri.

Negli ultimi anni dell’Ottocento il mondo scientifico italiano fu messo a rumore da una raffica di pubblicazioni di argomento antropologico che prospettavano una precisa interpretazione delle cause del forte divario economico che già separava il nord e il sud del paese. […] La tesi sostenuta da questi autori era chiara, non lasciava margini al dubbio. Il Meridione era arretrato perché i meridionali – i “sudici” – sono un’altra “razza”: renitenti al lavoro; indisciplinati e inadatti a cooperare; propensi a forme brutali di violenza e criminalità. E tali sono perché, come le donne e i selvaggi, prodotti di un arresto evolutivo. (p. 243)

Gramsci constatava che le stesse masse lavoratrici del Nord avevano fatto proprio tale punto di vista razzista e anziché comprendere le reali dinamiche dell’arretratezza del Meridione «il popolano dell’Alta Italia pensava invece che se il Mezzogiorno non progrediva dopo essere stato liberato dalle pastoie che allo sviluppo moderno opponeva il regime borbonico[…] non rimaneva che una spiegazione, l’incapacità organica degli uomini, la loro barbarie, la loro inferiorità biologica [A. Gramsci, Quaderni dal carcere]». (pp. 249-250)

Pertanto, conclude Burgio, «La storia del nostro paese tra il XIX e il XX secolo non si discostò in nulla di sostanziale da quella degli altri paesi europei, Germania compresa. Di questa storia il razzismo fu parte integrante e questa circostanza contribuisce a spiegare l’avvento del fascismo col suo carico di ferocia, di brutalità criminale e di atrocità». (p. 250)

Consideriamo questo bel libro di Alberto Burgio un lavoro fondamentale di uno dei più importanti studiosi italiani del razzismo; un volume prezioso, che merita di essere letto con attenzione da chi voglia avere del razzismo una conoscenza approfondita circa i fondamenti, i presupposti e le condizioni storiche determinate che lo hanno generato, che continuano a renderlo possibile e a conservarlo, purtroppo, in ottima salute. Un contributo, quindi, ad un lavoro di studio del razzismo che più che altrove sarebbe urgentemente necessario promuovere e soprattutto divulgare – affinché si estenda oltre l’ambito comunque ristretto degli addetti ai lavori – proprio in Italia; un passaggio indispensabile per uscire dalle pastoie di quell’approccio opportunisticamente riduzionistico che contraddistingue il modo distorto e falso con cui la coscienza collettiva italiana si rapporta col proprio passato prossimo.