di Luca Cangianti

Alberto Prunetti, Nel girone dei bestemmiatori. Una commedia operaia, Laterza, pp. 120, € 15,00.

Le più grandi testimonianze d’amore nascono inevitabilmente da ferite profonde. Pensiamo a quei figli, genitori, compagni, a quelle sorelle e a quei fratelli che combattono una battaglia di giustizia lunga una vita, contro chi ha torturato, bruciato, picchiato a morte o fatto ammalare i loro cari.
Alberto Prunetti ha subito lo stesso torto, ma vi ha saputo vedere un crimine ancora più grande: quello che viene commesso da una classe ai danni di un’altra, non solo sfruttandola, ma umiliandola fino a privarla della propria autocoscienza: «Quando ti portano via il nome e il diritto a esiste, ’un s’accontentano di vince’. Ti vogliono anche umilià… si son mangiati i salari, c’hanno portato via la fatica, il tempo e a volte anche la vita. Oh, ‘un gli bastava, c’era rimasto il nome. Noi s’era i lavoratori, l’operai, e loro i padroni. Macché, nemmeno più questo. Siamo tutti ceto medio, dicono loro.»

Figura centrale del nuovo romanzo Nel girone dei bestemmiatori è ancora una volta Renato, il padre di Alberto che abbiamo conosciuto in Amianto e incontrato in 108 metri, i primi due romanzi della trilogia working class dell’autore. Da quelle opere sappiamo che Renato è cresciuto nella Toscana del dopoguerra e con il duro lavoro ha permesso alla sua famiglia di vivere dignitosamente fino a quando una fibra d’amianto respirata durante una vita tra fabbriche, raffinerie e cisterne di petrolio, lo uccide senza che venga mai fatta giustizia.
In questa terza opera Alberto incontra Renato che continua a occuparsi di manutenzione in un inferno onirico e maremmano, dove Dante viene bonariamente bullizzato in quanto intellettuale, borghese e scansafatiche, mentre Gesù è il figlio fricchettone del “Principale”, buono solo a far «metafore, discorsi e parabole». Dai ricordi di Alberto e di Renato riemergono la provincia fordista degli anni settanta e i derby tra piccole squadre locali che calciavano la palla, mentre il pubblico mangiava lupini e beveva cedrata; le schedine erano sempre perdenti, gli epici pranzi domenicali terminavano con un bicchiere di citrosodina per «fare il rutto» e digerire; le automobili duravano una vita e potevano essere riparate all’infinito dalle mani unte e sapienti dei meccanici. Non era un paradiso proletario fatto di finocchiona e vino onesto: anche a quei tempi c’erano “loro”, i “quattrinai”, i prepotenti, gli sfruttatori. Però di contro a “loro” c’era un “noi”, un orgoglio di classe fatto di convinzioni granitiche: «guai a chi rompe un picchetto o parla coi crumiri» oppure «Bravo, hai fatto il tuo», cioè se hai fatto qualcosa di buono non ti azzardare ad alzare la cresta, altrimenti sarai deriso dai tuoi pari.
Renato è l’eroe working class di quel mondo: il cacciavite è la sua spada, la sua divisa è la tuta blu, la sua lingua è materiale, millimetrica, fatta di filettature, elettrodi e punti di saldatura; persino le sue memorie sono incise nei solchi metallici di una spazzola per mola. Il Renato dei libri di Prunetti è un classico eroe popolare con i suoi superpoteri e le sue inconfondibili prevedibilità. L’Alberto narrativo è invece un eroe contemporaneo segnato da ferite che lo predispongono al viaggio, alla scoperta e alla trasformazione. Egli è a tratti protagonista dell’azione (specialmente in 108 metri), a tratti (come in quest’ultimo romanzo) bardo, narratore che cerca di dar voce ai senza voce.

Nel girone dei bestemmiatori non è in alcun modo una cartolina metalmeccanica sbiadita. In primo luogo perché quel tempo ci è raccontato con un’ironia godibilissima che corrode ogni retorica nostalgica, in secondo luogo perché tra le righe poetiche e surreali del romanzo sibila vendicativa l’armonica degli spaghetti western. Renato, infatti, ha grandi competenze tecniche, compagni di lotta desiderosi di riscatto, nessuna voglia di restare all’inferno… e soprattutto un piano micidiale.