di Carlo Trombino

Chi lo sa se un giorno

ci sarà un nuovo mondo

senza più padroni

senza stati né nazioni

V.R. è morto – dal disco Anarchy in Italy degli Airfish (2011)

Spesso le grandi catastrofi dell’umanità vengono anticipate da segni premonitori.

Il 7 febbraio a Palermo è morto Pietro Palazzo, un artista tra i più straordinari che il capoluogo siciliano ha avuto la fortuna di veder nascere in tempi recenti. Per circa un ventennio è stato il cantante e frontman del gruppo simbolo di una certa stagione della musica alternativa palermitana e non solo, gli Airfish.

Nati nell’estate del 1992, in quel mese o poco più intercorso fra le stragi di Falcone e Borsellino, gli Air fish hanno sempre avuto un approccio da gruppo rock espressionista, e ai loro concerti potevi aspettarti di tutto. Teleschermi che mandavano film di Jerry Calà, illuminando un idolo fallico al centro della scena mentre Pietro Palazzo immobile suonava con la tromba una frase atonale in una delle loro sfuriate noise rock. Potevano suonare di spalla ai Tafano Broders, cioè i Lillo e Greg della provincia di Caltanissetta, alla Festa di Liberazione alla Stazione Lolli, o potevi vederli in un posto occupato a suonare la colonna sonora a film d’autore o poliziotteschi proiettati sullo sfondo, facendo i Calibro 35 dieci anni prima dei Calibro 35. Suonavano in modo inafferrabile, incarnando le tendenze del momento, dal noise all’industrial, dai Mr Bungle a Zorn, dal surf alla no- wave, campionamenti lunghissimi, un breve periodo reggae/dub, una attitudine costante alla psichedelia e una attenzione alla realtà urbana palermitana, onnipresente nei titoli delle canzoni e nei collage sonori che dal vivo e su disco facevano da contrappunto alle loro canzoni.

I live erano sempre speciali non solo per la musica ricca e poco prevedibile, ma erano resi indimenticabili dalla presenza scenica di Palazzo. Il pubblico lo amava o lo odiava, i giudizi erano fortemente polarizzati, anche se le numerose presenze ai concerti dimostrano che i più amavano lo spettacolo. Ma capitava che qualcuno dicesse che la musica gli piaceva sì, ma non sopportavano “la voce da ragazzino nauseato di Pietro Matteo Palazzo, sorta di esteta del surreale e del barocco metropolitano”, come lo ha definito Rockit nella recensione ad Anarchy in Italy del 2011.

Sicuramente qualcuno tra il pubblico avrà detto all’amico all’orecchio, ridacchiando, “chistu pare frocio” o magari qualcun altro lo avrà anche detto ad alta voce, riferendosi a Pietro Palazzo che tendenzialmente rimaneva impassibile sul palco.

C’è da immaginare che i detrattori fossero inquietati dall’aspetto androgino più che dalle movenze lente e bambinesche interrotte da barriti animaleschi e seguite da note cantate con tono da diva melanconica, enfatici flussi di coscienza o frasi imperative prive di ironie, soffi di tromba con melodie traballanti su tappeti di sludge progressivo.

Ascoltate i pezzi come Tasta il Materiale e immaginatevi come doveva essere vederli dal vivo negli anni ’90, e cosa dovevano pensarne le famiglie e i passanti al Giardino Inglese per la Festa dell’Unità o le generazioni di giovani punk e alternativi per cui gli Airfish furono il battesimo di un certo tipo di musica dal vivo.

non ci sono più i padroni

siamo tutti ricchi e buoni

tutti uguali sulla carta

conta solo il conto in bancaehi!

impugna un’arma – ah!

ehi! una bomba in banca – ah!

da Impugna un’arma

 Salvo Licata ha detto che gli artisti palermitani sono di due tipi, della Palermo bianca o della Palermo nera, cioè artisti di famiglia borghese/nobile e artisti che vengono dai quartieri popolari o dalle periferie – Pietro Palazzo appartiene alla seconda categoria, cioè quei talenti che non vantano una rete di contatti familiari coi gangli dell’establishment culturale cittadino.

Viveva della sua arte e oltre agli Air fish ha composto colonne sonore che dimostrano una cultura musicale vasta e profonda, nel giro dei compositori di musica contemporanea. Il jazzista di fama internazionale Gianni Gebbia, che per un periodo suonò con gli Air fish, era tra le persone che lo stimavano, e sia la sua produzione solista che quella col gruppo erano note ai connoisseurs, agli intenditori di musica alternativa italiana, senza però riuscire mai a superare lo status di gruppo di culto, con un’aria perennemente misteriosa e ineffabile. Certo, canzoni come  Mary Lo Cascio possono essere considerati delle piccole hit alternative della scena siciliana, che giravano di mano in mano fra i banchi attraverso cassette copiate, e i molti tra gli addetti ai lavori della musica che consideravano gli Air fish (e Pietro Palazzo in particolare) dei geni, magari poi non hanno fatto nulla per dargli piattaforme più adatte al loro talento.

In questo senso la loro intransigenza artistica era apprezzata dai fan ma non tanto dall’industria musicale italiana. Anche perché la città di Palermo non disponeva del circuito di musica alternativa fatto di etichette, locali e promoter paragonabile ad altre realtà italiane come Bologna, Milano, Roma, Torino o il Nord Est, e ciò ha fatto in parte dissipare le tonnellate di talento musicale espresso dalla scena alternativa palermitana.

Un produttore romano che recentemente ha prodotto un gruppo palermitano (opportunamente ripulito nei suoni e nell’estetica) ha detto che molti artisti palermitani sono bravissimi ma sembrano suonare più per se stessi che per farsi capire dagli altri, lasciando ai forestieri solo un’intuizione del loro talento. Pietro Palazzo per certi versi può rientrare in questa de finizione, che però ha alla base una visione dell’ascolto come pratica pigra. Mentre chi non si faceva vincere dalla pigrizia può vedere che, ad esempio, il progetto solista di Pietro Palazzo, Un giorno disperato, aveva tutti i canoni per sfondare nel mondo dei cantautori italiani, outsider music suonata con una produzione lo-fi come sarebbe andato di moda negli anni successivi, melodie pop psichedeliche con testi brucianti ed evocativi di un’interiorità senza censura, come ci si aspetta dai veri artisti. Musicisti più noti come Bugo o i Pan del Diavolo o gli Zen Circus facevano qualcosa di simile ma, per minor cura o per farsi amare da un pubblico più vasto e più pigro, non raggiungevano le vette di immediatezza raggiunte dalla produzione di Pietro Palazzo.

A dimostrazione della scarsa comprensione da parte degli addetti ai lavori, basti dire che nessuna rivista musicale online, nessun giornale cittadino, nessuno dei pigri e bolsi operatori musicali palermitani ha ricordato Pietro Palazzo.

Con il suo aspetto fragile, da “fanciullo divino”, e il suo sguardo da artista autentico, proteso oltre l’interlocutore e oltre il pubblico, Pietro Palazzo aveva qualcosa di angelico. E il destino ha voluto che la morte di questo angelo della musica palermitana sia stata cronologicamente il più triste e oscuro presagio della pandemia che ha colpito il mondo, come se non si potesse andare avanti come prima senza la sua presenza su questa terra.

Erano giorni felici

Bastava stare vicini