di Cesare Battisti

“Così la prima cosa che la peste portò ai nostri concittadini fu l’esilio.”

Preziose le parole di Albert Camus ai tempi del coronavirus. Ci fanno sentire sulla pelle l’angoscia delle famiglie separate dalla “Peste” di Orano, nella sua Algeria dell’immediato dopoguerra. Si tratta, lo sappiamo, di una mai abbastanza lodata metafora del nazismo, appena sconfitto, ma i cui germi duri a morire continueranno a minacciare l’umanità, in attesa del prossimo passo falso per tornare.

La peste scoppia come una guerra o un brutale cambio di regime. Segrega il popolo, lo confina. Una calamità che però non sorge dal nulla, essa cova negli interstizi di una società debole, assuefatta agli abusi, intossicata. Sta nelle case, nelle strade, nei posti di lavoro e negli uffici del potere, nei raggiri di parole, nell’assenza di diritto tanto cara al populismo nostrano. Sta nei difetti della democrazia, i cui vuoti sono riempiti da coloro che nelle circostanze del momento hanno la legittimazione del ricorso alla forza dalla loro parte. Sta nel chiudere gli occhi al dolore altrui.

La peste è sempre stata qui, sulla porta di casa, ma non la vedevamo. Ci si ostinava a credere che mietesse solo vittime lontane. Che importanza hanno un milione di morti, quando non se n’è visto nemmeno uno? L’egemonia culturale dei nostri tempi è quella di semplificare e banalizzare tutto, e questo contrasta con la complessità del mondo in cui viviamo. Si separano le cose dal loro contesto, e si trova una supposta soluzione a quel pezzetto di realtà, come se non fosse inserito in tutto il resto.

Intanto il popolo diseredato boccheggia. In nome dell’ordine e del progresso, si rompono gli equilibri naturali. I topi di Camus escono dalle fogne di Orano per venire a morire sotto il sole; cacciati dalle grotte, i pipistrelli di Wuhan fuggono in cerca della luce. E le guerre continuano a deflagrare, il sud del pianeta viene devastato, il suprematismo fascista è tornato di moda. I virus nascono nel cuore dell’indifferenza. E un giorno, all’improvviso, ci ritroviamo soli.

Ci dicono che bisogna stare chiusi in casa, che d’ora in poi sarà proibito anche stringere la mano. Dalla finestra non si vede più nessuno, ci manca anche il runore del traffico, sotto un cielo divenuto troppo azzurro. Deve essere un momento passeggero, ci illudiamo ancora di sentire suonare il campanello e riabbracciare i nostri cari che erano partiti in viaggio poco prima. Ma il tempo passa e il pandemonio cresce, la segregazione si fa pesante, le previsioni fanno rabbrividire. Ci si prepara allora ad accettare l’esilio, soffrendo mancanze insospettate, respingendo sentimenti inadeguati. È così che gli esiliati riscoprono se stessi, rimpiangendo i valori da cui sono stati bruscamente separati. Ciò che era ovvio e trascurabile è, da un giorno all’altro, una privazione insopportabile. Ci sentiamo indifesi, ci affidiamo allo Stato-padrone che imbocca tutti i giorni in TV il popolo-bambino. Ci dicono che è finita, poi che è ricominciata, per colpa di un bacio dato senza mascherina. C’è da stare allerta, denunciare i trasgressori. Si introduce la cultura del sospetto, la salvezza è nella delazione. È nella ripresa dell’economia. Coraggio, il virus sarà domato, il male non ha futuro, continueremo a crescere, il mondo ci appartiene, La folla si riversa in strada, torna l’allegria, andremo tutti in spiaggia a scaldare le chiappe chiare.

Il dottor Rieux di Camus resta alla finestra. Guarda e sospira. Egli sa ciò che la folla ignora e che si può leggere nei libri di storia. Virus e bacilli sono come il fascismo, non muoiono, non spariscono mai, restano nascosti, in agguato fino al giorno in cui, per disgrazia degli uomini o per cattivi insegnamenti, ratti e pipistrelli verranno a spargere il loro sangue nelle regge occidentali. E allora non ci sarà più terra nemmeno per l’esilio.