di Mauro Baldrati

IL MAUSOLEO

Una volta – sarà stato il maggio ’68 – io e il gruppo dei 48 (i motorini di cilindrata 48 cc. che poi erano in realtà dei 50), decidemmo di andare a Predappio a visitare il mausoleo di Mussolini. Eravamo attratti dai famosi nostagici. “Ma chi sono ‘sti nostalgici?” aveva chiesto qualcuno. “Sono quelli che hanno nostalgia di Mussolini e dei fascisti” aveva risposto un altro.

I fascisti. Avevo 15 anni. Non ne sapevo granché. O meglio, qualcosa sapevo: una decina d’anni prima, poiché il babbo lavorava spesso all’estero (in Africa soprattutto), e mia madre aveva fondato il suo laboratorio di parrucchiera, il primo nel paese di Mezzaluna (RA), che era sempre affollato di donne dall’alba a notte fonda, io venivo spedito con la corriera dai nonni materni, a Voltana di Lugo, nella grande casa colonica dove sono nato. Poiché nelle fattorie di quegli anni non c’era l’acqua corrente, ogni mattina, con la nonna, scendevamo il vialetto e raggiungevamo la fontana. Funzionava a manovella, e quello era compito mio. Dovevo caricarla col peso del mio corpo, su e giù, mentre l’acqua zampillava nei cinque bottiglioni di vetro caricati sul carretto. Più di una volta la nonna mi ha detto, indicando un vecchio lampione arrugginito: “Vedi quel lampione? Lì i tedeschi hanno impiccato un ragazzo di 16 anni col filo spinato, e l’hanno lasciato appeso per diversi giorni. I fascisti facevano la guardia perché nessuno lo tirasse giù.” Il filo spinato. Mi toccavo la gola e rabbrividivo. Mi sembrava un fatto inimmaginabile. E i fascisti che facevano la guardia al cadavere… Ma chi erano?

Così saltammo sui motorini, e dalla nostra base, il bar dei socialisti, partimmo in direzione Predappio.

Tra gli altri c’era Scopino, che aveva un Garelli giallo come il mio, col quale gareggiavo quando ci lanciavamo giù dal Passo della Colla, tagliando tutti i tornanti, fiduciosi nella protezione dei nostri angeli custodi (i quali, va detto, erano molto attenti alla nostra incolumità). Poi Enzino Fabbri, col Malaguti, e Dialma, col Malaguti a cui aveva sostituito il motore con un Ceccato 100 (per il quale avrebbe dovuto avere il patentino, che naturalmente non possedeva). Dialma era il ragazzo più forte di Mezzaluna, anzi, di Ravenna, no, d’Italia; che dico, d’Europa. Solo un russo avrebbe potuto batterlo. Una volta pestò da solo due comacchiesi, tipi molto temibili, in una discoteca della bassa ferrarese. Era il ragazzo alfa del gruppo, e ci comandava a bacchetta. Per esempio, quando andavamo nei campi a raccogliere le fragole e le ciliege, lui aveva il diritto di prima scelta. Erano sue le più grosse e le più mature. E anche le cozze, che pescavamo lungo la palizzata di Porto Corsini: prendeva le più belle, e se riuscivamo a procurarci un paio di limoni uno era sempre di sua proprietà esclusiva. Ma coi motorini non metteva becco. Eravamo Scopino e io i conduttori. L’unica cosa che era autorizzato a dire una volta arrivati ai piedi della Colla era: “O’, ma voi due siete matti spaccati, fatta roba!”

A Predappio ci aspettavamo un’atmosfera misteriosa, invece era un paesotto come tanti. Delle case, delle strade, qualche macchina, gente in bicicletta. Come a Mezzaluna.

Parcheggiammo e raggiungemmo il mausoleo.

Entrammo. C’erano dei tipi strani in effetti. Tutti uomini, di mezza età, e anche qualche anziano. Sembravano dei clandestini. Si appartavano, non parlavano tra loro. Tenevano la testa bassa, non si guardavano intorno. Molti avevano il berretto, o il cappello. E gli occhiali scuri. Non è che a quei tempi ci fossero chissà che elegantoni in giro, ma loro sembravano più sciatti, più male in arnese dei nostri genitori. Indossavano abiti vecchi, sgualciti, di colore scuro, grigio piatto o verdastro marroncino. Altri invece erano particolarmente in tiro: portavano berretti militari, camicie nere con cinturoni di cuoio e stivaloni al ginocchio. Io ero incantato dagli stivali. Ancora non lo sapevo, ma quando sarei diventato grande, due anni dopo, e mi avrebbero chiamato Jimi Hendrix di Romagna, col mio bro’ Martò li avrei cercati dappertutto, a Ravenna, a Bologna, a Faenza. Inutilmente. Gli stivali non esistevano. Loro dove diavolo li avevano trovati?

Dentro era scuro. Persino freddo, nonostante la stagione temperata. Subito il mausoleo mi sembrò una cosa stupida e inutile. C’era il faccione di Mussolini, alcune teche con fogli e coccarde, foto, medaglie. Almeno ci fossero state delle mazze, dei pugnali, i cappi che usavano per impiccare la gente. Ma erano “loro” il nostro museo. I nostalgici. Stavano immobili, come se pregassero. Avevano una faccia dietro agli occhiali neri? Un’espressione? Se mi avvicinavo giravano la testa. Era evidente che noi, una piccola banda di adolescenti, rappresentavamo un fastidio. Addirittura una profanazione.

Uscimmo dal mausoleo che “ci tirava il culo”, come si diceva, per avere perso tempo con quella roba. “Boh, è come essere andati allo zoo, dai” disse Dialma.

Già. Intanto era presto. La visita era durata poco.
Così saltammo sui motorini e partimmo a razzo verso la collina, a caccia di tornanti.

BAR GIUSEPPE

Un film di Giulio Base, disponibile su Netflix

Giuseppe gestisce un’area di servizio con annesso bar. Siamo in un ambiente di campagna pugliese, piatto, desolato. La scena iniziale, in campo lungo, con una fotografia manierista che sembra provenire da un film di fantascienza, evoca un nuovo remake de Il postino suona sempre due volte. Scenario perfetto. Desolation row perfetta. É l’alba. Vediamo Giuseppe e la moglie che scendono dalla Panda e si dirigono verso il cubo di cemento con veranda del bar. La donna barcolla, cade a terra. Giuseppe la soccorre.

E qui inizia la serie dei bruschi salti temporali che caratterizzano tutto il film: passa direttamente al funerale, per le strade pietrose della cittadina che fa secondo scenario.

Giuseppe ora è vedovo, e gestisce il bar da solo. L’interpretazione di Ivano Marescotti costituisce – per usare un termine abusato – l’eccellenza del film. Chiuso in se stesso, arcigno, non parla, non ride, non risponde alle battute dei clienti. Va avanti per inerzia, perché deve. Perché esiste. Perché è il suo destino. Vive in una stalla ristrutturata; come hobby lavora il legno, con sistemi arcaici, pialla a mano, martello, carta vetrata. Dunque lui è Giuseppe, falegname, nella stalla. Un input è già stato lanciato, no?

Ma l’impegno è troppo gravoso per un uomo solo, per un uomo distrutto. Così pubblica un annuncio per trovare un collaboratore.

Assumerà una ragazzina africana, Bikira (interpretata dall’attrice italo senegalese Virginia Diop), che si presenta coi genitori. Vorrebbero essere assunti in tre, per alternarsi, ma non è possibile per motivi fiscali. Sarà Bikira la titolare del contratto. Lei inizierà l’apprendistato, a fianco dell’uomo taciturno con lo sguardo basso. Il dialogo è quasi ridotto a zero, mangiano in silenzio nel retrobottega, in una curiosa inquadratura pittorica, con una tenda a fili tra i due soggetti e la macchina da presa.

A una certo punto, all’ora di chiusura del bar, mentre Bikira è impegnata a riordinare, irrompono due balordi. Sono violenti, cercano i soldi, buttano tutto all’aria. Bikira è terrorizzata. Ma arriva Giuseppe di corsa, forse attirato dalle urla. Ha con sé una vecchia pistola trovata in un cassetto. Li minaccia, li mette in fuga.

E qui parte un altro salto temporale: ora Giuseppe è nella caserma dei carabinieri, sotto interrogatorio per la pistola. Dove l’ha comprata?

Sorge spontanea una domanda: perché Giuseppe ha sporto denuncia e ha “confessato” di avere usato una pistola? Non era più semplice dire che li aveva messi in fuga con un coltello da cucina, invece di una pistola non denunciata? Sembra non avere un senso.

Invece il senso c’è. La sceneggiatura aveva necessità di piazzare Giuseppe agli arresti domiciliari, così Bikira lo va a trovare, lo assiste, gli porta il cibo, mentre lui lavora il legno con la pialla a mano nella stalla. Ne aveva bisogno per farli innamorare, ovviamente con lo stile di Giuseppe, fatto di silenzi, sguardi impenetrabili, energia implosa, contrapposta alla giovinezza esuberante e allegra di Bikira.

E, con un nuovo salto, dopo un faccia a faccia in cui si fissano senza parlare, con la maschera pietrificata di Giuseppe che sembra addolcirsi, li troviamo già sposati. Con enorme scandalo in paese, battute acide, maldicenze. E l’opposizione intransigente dei due figli, che considerano Bikira un’arrivista che ha sedotto il padre anziano vedovo.

Il primo figlio – interpretato dal bravissimo Nicola Nocella – fa il panettiere, sforna quelle meravigliose pagnotte pugliesi, e ha la sua famiglia. La moglie (Serena Caramazza), enormemente più carina di lui, è sempre in ciabatte. I figli gridano, e il matrimonio di Giuseppe aggiunge tensione a una situazione già difficile. Il secondo figlio – Michele Morrone, altrettanto bravo – tossico, allampanato, scarruffato, è incavolato a sua volta, rivolge accuse pesanti sia al padre sia a Bikira. Giuseppe si prende i rimproveri, non ribatte, neanche risponde.

Anche i genitori di Bikira sono contrari. É disdicevole che una ragazza così giovane sposi un uomo che potrebbe essere suo nonno.

Tutti sono contro.
Il mondo intero è contro.

Infine arriva l’evento. La svolta.

Bikira è incinta. Giuseppe barcolla. Va in crisi. L’hanno violentata? O è stato quel bellimbusto coi baffetti, cliente del bar, che la corteggia?

Bikira piange, è disperata, continua a giurare che nessuno l’ha sfiorata. Ma Giuseppe non le crede. Non può crederle, perché…

Soprattutto in questa fase finale raccomandiamo agli spettatori di essere attenti e concentrati. Siete su Raiplay, in casa; non mangiate, non rispondete alle domande del/della partner o dei figli, perché un bisbiglio di Giuseppe, sussurrato con un filo di voce, può essere la chiosa del film.