di Gioacchino Toni

Michele Guerra, nel suo recente libro Il limite dello sguardo. Oltre i confini delle immagini (Raffaello Cortina Editore, 2020) affronta le modalità attraverso cui si è sino ad ora tentato di mostrare l’orrore dei lager nella convinzione che l’immagine della Shoah si trovi costretta a riflettere sulla propria limitatezza. É a partire da tali ragionamenti che, inevitabilmente, lo studioso finisce con il porsi domande a proposito del mutante rapporto tra vedere, immaginare e sapere.

Una parte dell’analisi di Guerra è dedicata alla fotografia ritraente i fratelli Sril (Israel) e Zelig Jacob, rinvenuta insieme ad altri scatti realizzati dai nazisti a Birkenau (“Album Auschwitz”). Secondo lo studioso tale immagine, oltre a contenere  una traccia dell’arrivo dei due bambini nel lager, manifesta la lacuna della fotografia: la sparizione del contesto, del fuoricampo.

L’immagine pone così al cospetto dell’inenarrabile, di ciò che sta osservando Siril, che ignoriamo, e di ciò a cui presta lo sguardo il fratello, Zelig: il nazista che lo sta immortalando ed allo stesso tempo noi che osserviamo la fotografia e con essa gli occhi del bambino, occhi che, continua lo studioso, sono l’immagine-lacuna, quella che Georges Didi-Huberman chiama immagine-sparizione e Jacques Rancière soppressione.

In veste di direttore del Museo memoriale di Auschwitz-Birkenau, Piotr Cywiński, trovandosi a scegliere il logo per tale istituzione, si è reso conto che nel pensare a quel campo di sterminio con “l’occhio della mente” si tende a vedere un panorama di torrette di guardia, filo spinato e baracche. Si resta pertanto all’interno di quella visibilità del campo di Auschwitz derivata dalla narrazione che di esso è stata fatta, ma ciò su cui varrebbe davvero la pena concentrare lo sguardo e il pensiero è il dispositivo di disumanizzazione. Pertanto, sostiene Guerra, Cywiński si rende conto che «al fondo della nostra idea di Auschwitz c’è un’impossibilità di vedere […] Proprio perché nessuno di noi ha visto e può vedere quell’orrore, abbiamo bisogno di fissarlo attraverso segni vicari che sistematizzino quel che la nostra ragione non può accogliere diversamente.» (p. 37).

Il dettaglio degli occhi di Zelig può essere visto come radicalizzazione di quell’impossibilità. «Noi non vederemo mai Auschwitz, in nessuna fotografia, in nessun film, in nessun resoconto. Ma non rimarremo ciechi se comprenderemo cosa vuol dire tenre fissi gli occhi nell’inenarrabile» (p. 38). Ecco perché Cywiński sceglie come logo del museo proprio il dettaglio degli occhi di Zelig.

Qualcosa di simile, sostiene Guerra, è ravvisabile anche in alcune fotografie contemporanee che toccano l’orrore di altre realtà ed altri dispositivi di potere: si pensi ad esempio ad un paio di fotografie scattate alla camerunense Josefa durante le operazioni di salvataggio della nave Open Arms nei pressi delle coste libiche nel luglio del 2018.

In una foto realizzata da Pau Barrena (AFP/Getty), Josefa è ripresa in campo medio tra alcuni operatori che la stanno portando in salvo e qua il fulcro dell’immagine risiede negli occhi della donna che sembrano “aperti sul vuoto”, sul buio, sulla notte, tutte metafore ricorrenti nella letteratura sulla Shoah funzionanti ciascuna come anti-medium, come dispositivo che non media la visione e non permette di vedere distintamente. Non si saprà mai cosa stesse guardando Josefa in quel momento, così come non saremo mai in grado di sapere cosa guardasse Siril giunto nel lager.

In una seconda fotografia, scattata da Juan Medina (Reuters), Josefa è ripresa in primo piano con gli occhi sbarrati che sembrano testimoniare il farsi strada di un barlume di consapevolezza circa la tragedia avvenuta. Sono gli occhi descritti da Primo Levi, suggerisce Guerra, gli occhi «che hanno visto qualcosa che l’umano non avrebbe dovuto assistere e sopravvivere» (p. 41). Ecco, questa fotografia di Josefa è un esempio attuale di immagine-lacuna, di immaginie-sparizione.


Per una riflessione più articolata sull’importante volume di Michele Guerra si rinvia allo scritto: G. Toni, “L’immagine lacuna. Riflessioni sulle condizioni di visibilità della Shoah”, Il lavoro culturale, 05/02/2020.