di Luca Baiada

È una prostituta, neanche bella, però tonda e formosetta. Boule de suif, Palla di sego, è socievole e patriottica, populista alla prima maniera: ammira l’imperatore Napoleone III, che non fa il demagogo a torso nudo, ma già odora di folla. Col racconto che parla di lei, Guy de Maupassant conquistò il successo. Emile Zola, incontrato a casa di Flaubert, considerò subito Palla di sego un capolavoro, e fu grazie a lui che Maupassant conobbe Ernest Renan, Hippolyte Taine e molti altri. Fu lo stesso Zola, però, a chiedere che la protagonista avesse un po’ meno pancia; pochi anni dopo si sarebbe battuto per un obiettivo più nobile, della linea di un personaggio: l’innocenza di Dreyfus.

Nel 1870 i prussiani avanzano, la Francia è invasa, i civili fuggono. Il microepisodio è sezionato con l’abilità di uno scienziato, e regge il paragone col realismo senza sconti di Beppe Fenoglio. In piccolo formato, in una tragedia che sembra incruenta e sfida ogni convenzione, mentre il corpo del debole – donna, sola e prostituta – diventa preda e terreno di scontro, c’è tutto.

I personaggi: borghesi dalla retorica dritta e dalla morale curva; clero, con le suore miti e furbe; notabili ingessati nel mestiere dell’egoismo. E poi la distinzione fra militari e civili, carica di falsa coscienza e di violenza per delega. I partigiani, franc-tireurs, ultimo baluardo della patria sconfitta, in cui si mischiano coraggio e illusioni, generosità e fanciullaggini: «Passavano poi legioni di partigiani dai nomi eroici – i “Vendicatori della disfatta”, i “Cittadini della tomba”, i “Votati alla morte” – e dall’aspetto di banditi». Gli effetti dell’occupazione, cioè della presenza di armati ostili nel territorio dei disarmati: «Da tutte le strade vicine arrivava l’esercito tedesco, snodando i suoi battaglioni che facevano risuonare il selciato col loro passo duro e cadenzato. Lungo le case che parevano morte e deserte salivano gli ordini gridati da voci estranee e gutturali, mentre dietro gli scuri socchiusi gli occhi degli abitanti spiavano i vincitori, padroni della città». L’attacco spontaneo a sorpresa, estrema risorsa del popolo, che dissemina la campagna di cadaveri prussiani: «La melma del fiume seppelliva queste vendette, selvagge e legittime, eroismi sconosciuti, assalti silenziosi, più pericolosi delle battaglie alla luce del giorno e senza la risonanza della gloria».

Il capriccio dell’ufficiale straniero prima è alluso, poi è sempre più chiaro, infine è tollerato, avallato. Approvato, il capriccio: ma dai francesi. E Palla di sego in mezzo, lei che ha osato più degli altri: «Li guardavo dalla finestra, quei maialoni col casco a punta, e la mia donna di servizio mi reggeva le mani per impedirmi di scaraventargli addosso i mobili. Poi alcuni sono venuti a stare a casa mia: sono saltata alla gola del primo, non ci vuol mica tanto a strozzarli. Con quello ce l’avrei fatta se non mi avessero tirata via per i capelli». L’Agnese che va a morire, nel romanzo di Renata Viganò, neanche lei è pratica di armi, ma ci riesce. Palla di sego la fermano prima; ora fugge, col paniere delle provviste per un lungo viaggio, previdente conoscitrice delle cose del mondo, eppure adorabile ingenua.

E ingenuo chi segue tracce invisibili. Adesso, dopo tre quarti di secolo dalla strage del Padule di Fucecchio, un massacro tedesco ma in Italia, seguire le orme di una prostituta del Novecento, incollando testimonianze, verbali polverosi, luoghi enigmatici, dicerie. A Montecatini di notte ci sono tre ragazze a ogni incrocio, a ogni rotonda, intirizzite dalla ghiaccia padulina, appollaiate sui paracarri, vestite come al night fra le brume della Valdinievole. Sono scrigni muti dei ricordi più recenti, non quelli della guerra ma quelli del dopopace, dopomuro, dopoglobalizzazione, dopocrisi, dopo tutto e prima di niente. Stanno lì, con le gambe nell’aria e gli occhi prigionieri del telefono, un focolare dalla luce azzurrina che brilla piccolo e freddo nella mano. Provare a chiedere: «Conosci mica la Romana, quella che stende le calze al crocifisso del fontanile, quella che sta in canonica con l’ufficiale della Wehrmacht? È quella che mostra le scarpe eleganti alle contadine scalze. Dai, quella venuta su coi fascisti, e poi scappata al Nord a settembre del ’44!». Risponderebbero: «Bocca fica trenta euro». O la storia è un’illusione ottica, o è invisibile da punti di osservazione troppo bassi. Ma il tempo è una beffa, il passato non è andato via, si è nascosto, ammicca, parla per segni come un oracolo. La Sibilla è equivoca anche lei, inganna coi suoi responsi imbrogliati.

Ancora ieri. Ma ieri, quando? Ieri prima, ma prima di quel dopo. Nella guerra franco-prussiana, i concittadini convincono Palla di sego con mille argomenti suggestivi, è come un assedio: «Stabilirono il piano d’attacco, le astuzie da usare e le sorprese dell’assalto, per obbligare quella cittadella vivente a ricevere il nemico nella piazzaforte». Ecco, adesso è lei la fortezza da espugnare, la terra di conquista. Curioso rovesciamento, lo scopo della manovra è concedere la donna a un ufficiale tedesco, a un invasore; per poter ripartire, sfollare, sfuggire alla guerra che dilaga. Palla di sego è la Francia stessa, nel suo essere sopraffatta dalla Germania c’è la sciagurata impresa militare di Napoleone III, ma si anticipa qualcosa dell’ambigua condotta francese nel 1940, L’étrange défaite, complici la miopia militarista, quella denunciata da Marc Bloch, e la simpatia strisciante filotedesca, quella che presterà l’efficiente burocrazia di Parigi alla persecuzione degli antifascisti, alla vendetta sui repubblicani di Spagna, allo sterminio degli ebrei.

La storia di Boule de suif è intramontabile come i dittatori e il loro pubblico, come i burocrati pietrificati, i giuristi dal cuore inaridito, i generali larghi di sangue altrui, gli intellettuali in vendita. Più in fondo, per noi italiani, si affacciano la retorica fascista, l’impero, l’entrata in guerra, spezzeremo le reni alla Grecia, noi tireremo diritto, vinceremo. Poi i fatti: il fascismo che frana, l’armistizio dei doppiogiochisti, il re e il governo che fuggono, la presa di coscienza, così necessaria che non basta mai, la svolta della Resistenza. E ancora il senso di colpa, l’inadeguatezza, la Costituzione messa tra parentesi, la falsa inferiorità nei confronti della Germania. In questi rovesci c’è l’orrore di ricevere lezioni di fermezza dove meno te le aspetti: se a ribellarsi è una puttana, se l’unica solidale, disposta a condividere il suo canestro di cose buone coi viaggiatori digiuni, è sempre una puttana, dove vigliacchi sono i benpensanti, il clero, il notabilato, allora il sottinteso è che sono luride di meretricio le posizioni arrendevoli, quelle del buonsenso e del privato tornaconto.

Boule de suif è lì, fremente di rabbia e aggrappata a un cencio di rispettabilità, che ci rinfaccia il nostro tradimento. Forse proprio lei, che vede l’umanità dal lato più inconfessabile, che accoglie le nudità incerte o respinte, lei fiuta per prima i corpi intrusi. Guy de Maupassant: «C’era qualcosa nell’aria, qualcosa di sottile e d’ignoto, una insopportabile atmosfera estranea e una specie di odore diffuso, l’odore dell’invasione. Riempiva le case e i locali pubblici, mutava il gusto dei cibi, dando l’impressione che si fosse in viaggio, lontanissimo, fra tribù barbare e pericolose». Piero Calamandrei, sui tedeschi in Italia: «Artiglieri della sozzura e dello sterco, di cui pareva che nei loro rifornimenti portassero inesauribili riserve, sì da potersene servire a comando nei più scherzevoli modi, quasi per lasciare a coronamento delle stragi compiute la firma autentica del loro passaggio».

È patriottica come Palla di sego un’altra donna, in Maupassant: Irma, Il letto 29. Perché Palla di sego è una, fra le tante in un affresco che spazia dalle trame sconvolgenti alle storielle grassocce. Irma è una combattente suicida. Resta nella zona occupata dai prussiani, e a cose fatte neppure il suo amante, all’ospedale, apprezza la sua strategia terribile: «“Ma non ti sei curata?” Negli occhi di Irma guizzò un lampo: “No, mi sono voluta vendicare, anche a costo di crepare! E anch’io li ho appestati tutti, tutti, più che ho potuto. Finché loro sono rimasti a Rouen non mi sono curata”». La più umile è la più risoluta, sorella infetta dell’unico soldato semplice nei Ragazzi della via Paal.

Invece non sono come Palla di sego, le brave signore del conformismo organizzato: «La contessa e la industriale, che nutrivano in cuore l’irragionevole odio della gente dabbene contro la repubblica e l’istintivo affetto che tutte le donne hanno per i governi impennacchiati e dispotici, si sentivano loro malgrado attirate da quella prostituta piena di dignità». Certe esigenze superano ogni scrupolo: «Dal momento che lo fa di mestiere, quella sgualdrina, di andare con tutti gli uomini, mi pare che non abbia il diritto di rifiutare questo o un altro». S’impegnano anche le cancellerie internazionali: «Il conte, che discendeva da tre generazioni di ambasciatori, e aveva la figura del diplomatico, propendeva per l’astuzia: “Bisognerà convincerla”, disse».

I frequentatori del potere sono disposti a mettersi in vendita, quando non preferiscono donarsi al più forte, e per questo a volte trovano imbarazzante che gli altri non cedano. Dopo il 2008 accade che un gruppo di storici italiani accetti denaro tedesco per raccontare le stragi naziste: a pagare la narrazione infiocchettata è la stessa Germania che le ha commesse e che si rifiuta di risarcire le famiglie colpite; l’effetto sa di mercato d’alto bordo, e infatti sembra aver radici all’epoca del governo di Berlusconi, un uomo che ha premiato le sue favorite così bene, che anche dopo il suo tramonto passano per statiste. E accade che il governo di Roma attivi l’Avvocatura dello Stato a difesa di Berlino, non degli italiani, quando si chiedono risarcimenti davanti ai tribunali, e gli atti ufficiali su tutto questo sono così indicibili da esigere il segreto più impenetrabile, un segreto che se provi a chiedere ti rispondono che è segreto anche il perché del segreto, è un mistero persino se ci sia un accordo internazionale con la Germania, che forse non c’è, forse sì, però no, e non si facciano troppe domande perché è tutto ambiguo e tutto falso.

Lei, Boule de suif, fu vera. Irrisolta, come ciò che sta con un piede nella realtà e uno in quell’altra che chiamiamo letteratura, arte, rappresentazione, altrove. Adrienne Legay, nata intorno al 1848 in un paesello vicino a Fécamp, era andata a Rouen a cercar fortuna ed era diventata l’amante d’un affarista. Scoppiata la guerra del 1870, lui fu richiamato alle armi e Adrienne l’andava a trovare. L’episodio della diligenza e del prussiano che volle a tutti i costi fare i suoi comodi, costringendo i fuggiaschi alla sosta, è in uno di quei viaggi. Dopo la guerra, Adrienne compra un caffè e perde tutto. Spiantata peggio di prima, si ritrova per strada, a ricominciare dal suo corpo calpestato, ingannata e tenace, dolce e sfrontata come la Cabiria di Federico Fellini. Ma scende sempre più giù: cartomante, morfinomane, Adrienne si uccide il 18 agosto 1893. È sfiorita e l’hanno gettata via, è solo una bagascia di provincia, non come Margaretha Zelle, che in quel momento è una ragazza olandese dal fascino forestiero, e presto sarà desiderata da amanti in cerca di esotismo, sarà famosa con un nome d’arte, come una Salomè dell’Oriente più estremo, quello dei sogni: Mata Hari.

Maupassant fa in tempo a rivedere Adrienne, a Rouen, e a invitarla a cena. Lei confida a un amico: un tempo quel Guy non le era piaciuto, e poi, via, non poteva mica sapere che sarebbe diventato qualcuno. Gli scrittori rubano la vita degli altri: Maupassant divenne celebre, coi proventi di Bel ami armò un vascello tutto per sé; la donna che gli ispirò la trama del suo primo successo si uccise in miseria. Sarebbero buoni motivi per non scrivere, per rinunciare a lasciarsi dietro questa bava nera su uno specchio confuso. In fondo, scrivere è sempre una colpa che finge di assolversi con la sua confessione, ma neppure tu che leggi sei innocente.

Palla di sego suicida, e Mata Hari, l’agente H21, fucilata e mai riabilitata, anche lei stritolata in quella Grande guerra che Dreyfus, riammesso nell’esercito, fece in tempo più a sostenere dalle retrovie che a combattere. Tutte e due più sfortunate di Raab, quella che a Gerico faceva la locandiera e qualcos’altro. Dante la trova nel cielo di Venere: è stata accolta in paradiso, e per prima, alla resurrezione del Cristo. A indicargliela è Folchetto di Marsiglia, trovatore innamorato che si fece chierico. Ma in questi incontri celesti i benpensanti vedrebbero prosa: un vagheggino pentito strizza l’occhio a un ricercato politico, per presentargli una poco di buono.

In certe storie il lieto fine sarebbe un’offesa. Anzi, è meglio che non abbiano nessuna fine, che si diano per disperse e si intravedano da un affaccio postumo. Fra la narrativa della prostituzione e la prostituzione della narrativa, una storia che voglia stare nella Storia è costretta a ritagliarsi pretesti, a spezzarsi in fragili occasioni, come gli appuntamenti di una signorina di piccola virtù.

In Italia, nel 1944, la Romana accompagna le truppe tedesche passando per la Valdinievole, lasciando nei verbali delle autorità i segni dei suoi capricci di bambina cattiva. Tanti anni dopo, in Francia, Madame Rosa, ebrea, ex prostituta, bambinaia dei figli delle puttane, in La vita davanti a sé di Romain Gary, punteggia la sua tragedia grottesca di allucinazioni in cui rivive la persecuzione nazista: il passato è vero perché è sotto il presente, non prima. Forse, l’unica risposta sincera a un Dreyfus monumentalizzato è lei, povera, grassa e invecchiata. Gronda belletti stinti, troneggia su una fungaia di travestiti e di furfanti, inganna per terrore della solitudine e incarna l’intuizione di Marcel Proust: c’è qualcosa di più tremendo del dolore, ed è l’oblio. Dev’essere per questo, che Madame Rosa si fabbrica un nido in cantina, un Israele catacombale che è rifugio e camera mortuaria. Kapò di Gillo Pontecorvo, con una ragazzina ebrea che nel Lager diventa ladra, prostituta, aguzzina, è tra i film più intensi ma è del lontano 1959: vuol dire che qualcosa seppellisce le vittime credute al sicuro: tutti noi.

C’è un’altra tana oscura, è in L’armadio, ancora di Maupassant: una donna si vende, ha solo una stanza e riceve i clienti nascondendo il suo bambino in un armadio. A tradire il sotterfugio sono il freddo e il sonno: «Il bambino continuava a piangere. Un povero ragazzetto gracile e timido, era proprio il ragazzetto dell’armadio, dell’armadio buio e freddo, il bambino che ogni tanto usciva a riscaldarsi nel letto della madre, nel letto appena vuoto». L’Armadio della vergogna è una storia tutta italiana di stragi nascoste, rimaste senza punizione né risarcimento, coi fascicoli e le prove a stingere per mezzo secolo, in qualche stanza remota di un palazzo della Roma rinascimentale, mentre sui familiari delle vittime trionfavano i postriboli della ragion di Stato. Quell’Armadio, la giustizia l’ha lasciata così: sola, al buio e disperata.

Certo, gli scrigni nascosti hanno un fascino speciale. In Infanzia berlinese, capitolo Armadi, Walter Benjamin rivive il piacere dei calzini appaiati, arrotolati e rincalzati all’uso antico, a formare una piccola borsa: ficcarci la mano, srotolarli e scoprire ogni volta che scrigno e tesoro sono una cosa sola, e sono anche la terza cosa in cui si trasformano, una cosa che per incanto sparisce quando le altre due si separano. Lo stesso Benjamin accosta questo teorema alle favole. Per dimostrarlo ci vuole un romanzo da arrotolare e srotolare, spezzare e ricomporre, col piacere di infilarci dentro le mani per metterne a nudo il mistero. E non sapeva, Benjamin, di un altro ripostiglio dal futuro più tenebroso, a pochi passi dalla casa degli armadi, proprio nella Delbrückstrasse, la strada di Berlino dove abitava: la sede dell’Operazione Bernhard, l’immensa, minuziosa falsificazione di sterline organizzata dai nazisti, su cui non fece chiarezza neanche il processo di Norimberga.

Tutto sommato, le bugie delle puttane non arrivano alla capacità di falsificazione della finanza creativa, quella di guerra, di pace, d’anteguerra e di dopoguerra. Le messe in scena del potere prendono in contropiede filosofi e letterati, li invecchiano e li beffano, vicini di casa sospetti che non si vede l’ora di cacciare via, di braccare, di consegnare a una polizia, di quelle come si vede in un disegno di George Grosz, con gli sbirri nazisti che frugano in una stanza trovando carte e una macchina da scrivere, col ghigno di chi snuda una colpa: «Uno scrittore, lui?».