di Marc Tibaldi

Geografie della rivolta. Primo Moroni, il libraio del movimento (210 pagine, Roma, 2019, libro edito da Dinamopress – in collaborazione con la libreria Calusca, l’Archivio Primo Moroni e il centro sociale Cox 18) – è una preziosa raccolta di materiali che – assieme a L’orda d’oro 1968-1977. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, firmata assieme a Nanni Balestrini – restituisce la complessità dell’operare di Primo Moroni e offre uno spaccato delle grandi e piccole trasformazioni che hanno attraversato quarant’anni, dagli inizi degli anni’60, passando per il “lungo ‘68”, fino ad arrivare alle soglie del movimento altermondialista, esattamente al 1998 (anno della scomparsa di Primo).

L’orda d’oro è un’antologia di scritti scelti e commentati: libro fondamentale, dove non c’è traccia di biografia, ma in cui il mosaico di contributi e testimonianze scelti parlano anche degli autori, dei loro interessi e desideri. Venne pubblicato da SugarCo nel 1988, in pieno “riflusso” (l’abbandono dell’impegno sociale e politico di massa, e la crisi dei movimenti), e dal 1997 è in catalogo da Feltrinelli, curato, e arricchito di nuovi contributi, da Sergio Bianchi.

Geografie della rivolta è invece una raccolta di interviste a Primo e di suoi testi scritti nel corso degli anni. Moroni era attento a tutte le eresie, a tutte le sperimentazioni, politiche ed estetiche, teneva assieme i tanti rivoli dei gruppi minoritari comunisti e anarchici, dei pensieri politici ottocenteschi e postmoderni, dei movimenti controculturali dai beat ai punk, e poi ancora il situazionismo, il femminismo, l’ecologia… come per cercare di trovare in ognuna di esse una briciola di visionarietà, una particola di immaginazione, un lampo di intelligenza critica e analitica da inserire in un patchwork complesso, aperto e in divenire.

Dalla lettura di questi due volumi si può ricostruire il metodo di lavoro e il modo di stare nel mondo di Primo Moroni. Metodo feyerabendiano contro i metodi? (l’unica regola necessaria per l’analisi e la ricerca si può ricondurre alla necessità di non farsi condizionare dalle regole, mantenendo un’assoluta libertà metodologica, sosteneva Paul K. Feyerabend). Conricerca? (“un lavoro sistematico di ricerca su tutto l’arco della loro sopravvivenza e conflittualità e lotta, realizzato da operai alla pari con intellettuali e ricercatori ‘esterni’ a quel dato ambito lavorativo”, sosteneva Romano Alquiati). Atlante warburghiano? (per Aby Warburg i libri non erano solo strumento di ricerca; riuniti e raggruppati, esprimevano il pensiero umano nelle sue permanenze e variazioni), ovviamente l’atlante moroniano non comprendeva solo i libri, ma anche le esperienze esistenziali e i movimenti. Insomma, qual era il metodo di Primo Moroni? Benedetto Vecchi in un’interessantissima riflessione pubblicata su Alias/Il Manifesto del 31/03/2018 (che introduceva la ripubblicazione di tre articoli scritti da Primo Moroni sul Manifesto negli anni ’90, esattamente: I sogni nel Casoretto e un corteo con il sole; Un Elfo metropolitano, Milano va alla Lega; Ballard, un’estrema modernità; ora anche su: https://ilmanifesto.it/primo-moroni-il-metodo-politico-di-fare-rete/ ), parla giustamente di “metodo politico di fare rete”: “Sapeva infatti trovare i punti di congiunzione, lavorando affinché funzionasse quell’indispensabile lavoro di «traduzione» affinché una esperienza potesse essere raccontata, illustrata, comunicata a chi non la conosceva. Con una particolarità che è rimasta una costante del suo essere intellettuale politico: una ricerca di punti di contatto senza cancellare le differenze, anzi valorizzandole quel lavorio di tessitura che pochi altri hanno saputo fare nella eterogenea e spesso rissosa sinistra extraparlamentare italiana”.

Un capitolo che ci porta indietro nel tempo è “Centri sociali: che impresa!” (introduzione al libro dallo stesso titolo, pubblicato da Castelvecchi, nel 1995), scritto con Daniele Farina e Pino Tripodi. Fu un documento dibattuto e contrastato da molte realtà antagoniste. Forse era una provocazione necessaria, utile al dibattito di allora, ma inutile al dibattito di oggi.  Nella voce dedicata a Primo su Wikipedia (i cui criteri di pubblicazione, rimangono ancora un mistero) si può leggere: “…uno dei suoi ultimi sforzi maggiori – vano – [fu quello] di introdurre nel Movimento italiano la pratica dell’Impresa Sociale nel contesto dei centri sociali, evidentemente immaturi nel recepire tale sollecitazione”. È evidente che la voce è stata redatta da una persona che condivideva quella proposta, ma un’enciclopedia, con pretese oggettive, dovrebbe rettificarla come opinione non scientifica, inserendo almeno il virgolettato e l’autore. È il testo meno moroniano tra quelli raccolti nel libro. Soprattutto a causa di una scrittura barocca e retorica, che a un’analisi linguistica mostra evidenti diversità con gli altri capitoli, sia quelli di trascrizione orale, sia quelli scritti da Primo, la cui penna era per nulla incline alle metafore e alle circonvoluzioni. Ovviamente se Moroni ha firmato questo testo significa che lo condivideva. Anche i profeti a volte possono cannare. Quel documento mancava di una connessione importante, quella con la conflittualità, il rapporto difficile tra conflittualità e recupero capitalista, o sussunzione, delle esperienze di produzione all’interno di luoghi antagonisti. Se vediamo come sono state “recuperate” molte realtà del circuito no profit/terzo settore (a cui quel documento strizzava l’occhio) avremo ben chiaro l’errore di fondo di quella proposta.
Scrive ancora Benedetto Vecchi, nell’articolo citato: “Primo continuerà a fare rete anche durante il lungo inverno della sconfitta dei movimenti sociali. E diventerà un punto di riferimento per i primi centri sociali. Il Leoncavallo, ovviamente, ma anche e soprattutto per le esperienze di occupazione dei gruppi punk politicizzati e controculturali milanesi. La Calusca e il centro sociale Conchetta diventeranno tappe obbligate per chi era interessato al cyberpunk e ai primi gruppi hacker europei e italiani. Anche qui, il suo era un invito a non demonizzare le tecnologie e ad usarle senza tuttavia abbandonare la critica alla non neutralità della scienza e a svelare i rinnovati usi capitalistici delle macchine ormai informatiche e digitali. Le tecnologie digitali, come anche la critica alle distopie cyberpunk, erano cioè i terreni dal quali ripartire. Quello che proponeva era un «riformismo radicale» che acconsentisse il consolidamento delle nuove forme di aggregazione sociale in attesa che diventassero contropoteri. Per questo il fare rete poteva rinviare a un secondo momento la ricognizione delle nuove cartografie delle classi sociali e delle forme di sfruttamento. Fare rete doveva cioè servire a guadagnare tempo, ad organizzare l’inorganizzato. Questo il punto di forza e al tempo stesso il limite del suo fare”, in quel frangente, aggiungiamo noi.

Nel dibattito, organizzato nell’ambito del festival del settimanale Internazionale, per la presentazione di Geografie della rivolta, John Foot e Maysa Moroni hanno sostenuto che la cartografia dello spazio urbano è un’attività su cui Primo Moroni si è sempre concentrato. “Primo è stato storico e geografo di se stesso e dei luoghi dove abitava” e il suo metodo di ricerca e di lavoro teneva dentro il territorio, i soggetti sociali che lo attraversavano e i processi produttivi, cercando di coglierne i cambiamenti. “Per Primo, le mappe urbane delle trasformazioni potevano essere ricostruite ponendo al centro dell’attenzione i luoghi del conflitto sociale e di classe. La tendenza, per usare un lessico politico da lui molto amato, potevi capirla solo se sceglievi come punto di osservazione i luoghi del conflitto, anche quando questo manifestava caratteristiche aliene e distanti da quelle dei gruppi e organizzazioni politiche ‘ufficiali’ o anche eterodosse”, aggiunge Vecchi su questo argomento.

Geografie della rivolta è un testo che dovrebbe essere letto da ogni attivista sociale di movimento. Forse i saggi più attuali sono quelli dedicati al declino della fabbrica fordista e all’emergere delle rivendicazioni “territorialiste” e al risveglio neoetnico. Primo capisce che la fine della classe operaia apre un vuoto che viene occupato proprio dalla Lega. Emerge il legame tra il post-fordismo e la una nuova “destra sociale”. Primo coglie come la svolta reazionaria si stesse determinando nel cambio di paradigma produttivo. In queste analisi tiene assieme il pensiero che Eric Hobsbawm mette a fuoco (assieme a Terence Ranger) in L’invenzione della tradizione e quello di Sergio Bologna e altri teorici che evolvevano le teorie operaiste. E coglie nel segno, tanto che questo approccio è ancora utile per leggere quello che oggi è il paradigma sovranista/identitario. In tutti i saggi pubblicati traspare il confronto collettivo con le realtà di movimento e con alcuni compagni di viaggio come Danilo Montaldi, Cesare Bermani, Sergio Bologna e Nanni Balestrini.

Se è vero – come sostiene Virno in Do you remember counterrevolution? – che la controrivoluzione è soprattutto innovativa e quasi mai conservativa, sussume le tendenze segnalate dagli antagonisti, dando altre risposte alle stesse domande, significa che il nostro compito sarà non ripetere le idee di Primo, ma funzionare con lo stesso metodo rizomatico, con lo stesso metabolismo creativo, immaginativo, connettivo, esistenziale, situato nella contemporaneità.