di Franco Pezzini

Stefano Leonforte, Guardatevi dalla luna. Il cinema dei licantropi, pp. 463, € 24, LEIMA, Palermo 2019

(Questi giorni di Torino Film Festival, in cui un’ampia retrospettiva è dedicata all’horror/gotico e varie pellicole toccano proprio il tema della mutazione, sembrano una giusta cornice per segnalare il volume in esame, in effetti appena uscito. Il testo che segue è la mia Prefazione.)

È abbastanza chiaro che una percentuale importante dei miti ascrivibili alla nebulosa del gotico riguardi in qualche modo la questione dell’identità; o per meglio dire delle sue crisi, dei turbamenti e delle perversioni, dei dubbi e delle domande che il rapporto con l’io e con le sue umbratili dimensioni “sorelle” (Es, Ombra, Doppio… teniamoci larghi) spalanca nella percezione dell’uomo moderno. Suggestioni come quella – essenzialmente stokeriana, sulla base di spunti folklorici piuttosto vaghi – del vampiro che non si rifrange nello specchio, a implicare che forse non ci riconosciamo in quella nostra rifrazione vampiresca, ne rappresentano solo la punta dell’iceberg.

Il bel libro che avete tra le mani incalza appassionatamente, con ricchezza di dati, uno dei filoni di questa inquietudine. Il modo cioè in cui una delle arti che già in radice ammiccano con più forza alla dimensione dello specchio – cioè il cinema, attraverso una quantità di elementi come luci, schermi, la stessa riproduzione del movimento che mima il nostro – affronta uno di questi dedali identitari, il rapporto sofferto tra uomo e bestia: non una bestia esterna, ma quella che l’uomo stesso può essere nel suo profondo o diventare.

Però attenzione, non una bestia a caso: e gli antropologi hanno dedicato ampi studi alla “strana” scelta di attribuire la parte del villain per eccellenza proprio al lupo – e non ad animali in fondo più pericolosi, come l’orso che invece pare tanto carino e coccolabile o quel leone che in antico s’incontrava in tutta Europa, e in effetti risulta ben presente nell’immaginario ma con altre valenze simboliche. Un lupo oggetto di un mix di odio (fino a connotazioni di vero e proprio sadismo nel tipo di caccia riservatogli) e di ammirazione: e per capire qualcosa di più dobbiamo risalire a un passato davvero remoto, quando questo bellissimo ed elegante animale appariva accreditato come il predatore per antonomasia – a cui dunque guardare quale modello nell’ambito di comunità umane altrettanto predatorie –, fratello libero del fedele e sottomesso cane, associato per assonanze onomastiche alla luce (lupo/λύκος, luce/λευκ-, λυκ-, cfr. λευκός, “brillante, chiaro, bianco”) e addirittura assunto a icona totemica, divina o eroica d’eccellenza. Non stupisce che per molto tempo l’assimilazione al lupo venisse cercata, in quelle che sono le prime esperienze attestate di licantropia come fenomeno rituale (in certi arcaici culti arcadi, per esempio); anche se già in antico l’immaginario poteva prevedere casi di “mutazione” non voluta. L’ingresso in un mondo diverso, prima quello classico e postclassico – che vede sopravvivere alcune esperienze come eccezionali – e poi quello cristiano, marginalizzerà fino a rendere penose forme di “diversità” o condannabili collusioni con le tenebre le tensioni verso una mutazione in lupo (o in altri animali). Tramite suggestioni folkloriche e vaghi echi dei processi a presunti mannari tra Cinque e Seicento il tema passerà nella narrativa gotica e romantica e in ultimo al cinema.

Fin qui sembra tutto facile: un lascito di tempi remoti, qualcosa che in fondo coinvolgerebbe poco le nostre emozioni di gente che i lupi li vede solo nei documentari, o al massimo vive la dialettica “pro o contro” tra ambientalisti e cacciatori. Ma è davvero tutto qui? Non proprio. Il fatto è che per capire un po’ meglio gli aspetti duplici dell’icona lupesca dobbiamo scavare più a fondo: perché il lupo non era solo immagine, odiata o ammirata di volta in volta, del predatore di capi di bestiame, accidentalmente spinto da contesti estremi ad attaccare gli uomini. È ben più ampia e oscura la dimensione implicata: e per esempio alla sfera simbolica e alla stessa etimologia del lupo rimanda la dea Lissa (Λύσσα), nata dalla Notte e dal sangue dell’evirato Urano, patrona del furore cieco negli esseri umani e anche della rabbia canina, che farebbe diventare il cane feroce come un lupo – cioè appunto mutare in lupo.

Di più: sulla base di una lunga elaborazione fin dal neolitico, il lupo e lo stesso cane sono associati alla sfera infera, nell’ampio spettro delle sue declinazioni. Di solito pensiamo al canino Anubi (dal sembiante non di sciacallo ma di un canide selvatico nordafricano imparentato proprio con il lupo), o agli dei inferi dei Greci, Ade, e degli Etruschi, Ajta, effigiati con il capo coperto da una pelle di lupo; oppure alle mitologie norrene che proietteranno quest’ombra di morte addirittura a livello cosmico ed escatologico, quando i lupi Hati e Skǫll si ingoieranno Luna e Sole e il padre dei due, l’arcilupo Fenrir, divorerà Odino. Ma lupesco è il mostro che emerge da un puteale – forse l’Olta sconfitto da Porsenna secondo Plinio il vecchio – effigiato su urne etrusche nei musei toscani; e non manca l’ipotesi che lo stesso sfuggente demone Caco ucciso da Ercole nell’area della futura Roma possa identificarsi nella figura con corpo umano e testa di lupo dell’arte villanoviana ed etrusca. Emblematica è poi la cosiddetta Tarasque di Noves, statua di un mostro antropofago dalle fauci di lupo ritto su due teste umane, conservata nel Museo Calvet di Avignone, e che nell’aspetto può richiamare la sagoma irsuta attribuita tanti secoli dopo alla Bestia del Gévaudan. La si è attribuita ai celtoliguri Cavari, associandola alla violenza delle acque della Durance al guado del Maupas (malus passus), ma è plausibile che la sua valenza mitica rimandi una predazione assai più generale e di carattere infero.

Se la discesa agli inferi può essere – lo sappiamo bene – una dimensione esistenziale concretissima nel corso del nostro itinerario terreno, l’incontro con questo lupo nelle profondità di noi stessi si rivela qualcosa di terribilmente serio: qualcosa che offre al pathos del Larry Talbot di turno – e la maschera sofferta di Lon Chaney Jr. può in fondo testimoniarlo – un sapore assai più autentico e vicino. L’immagine del puteale che pone in comunicazione la nostra vita quotidiana con i suoi abissi continua a parlare a distanza di tanti secoli: la bestia lupesca è pronta a eruttarne, per assidersi nella terribile maestosità dell’icona al Museo Calvet e infine straziarci. Possiamo chiamarla in tanti modi, lutto, dimensione di perdita, male di vivere: qualcosa comunque che rimanda a una forza infera che lacera e divora, che muove dalle nostre profondità e si apposta al malus passus di qualche momento dell’esistenza. Non abbiamo bisogno di coprirci di peli per sentir irrompere il lupo interiore, come specchiato ritualmente dalla liturgia profana del film horror. E il mito gotico torna a gettare qualche (livida) luce su ciò che abbiamo dentro, su ciò che siamo.

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