di Giovanni Iozzoli

Se qualcuno ci chiedesse, così, per gioco: quali sono i versi più importanti della letteratura italiana moderna? – andremmo seriamente in imbarazzo. Il richiamo naturale ci porterebbe dritti verso i padri della lingua, i poeti imperituri, i maestri del romanzo italiano otto e novecentesco – i nomi classici da esame di maturità, insomma. Ovviamente, le nostre scelte sarebbero condizionate, più che dalle inclinazioni personali, dal prestigio e dalle gerarchie del grande pantheon letterario nazionale. Però non siamo in sede di esame di maturità, non dobbiamo rispettare i criteri del letterariamente corretto: una chiacchiera estiva, abbiamo detto, in cui si lasciano fluire gusti, emozioni, immaginario, al di là del canone.

Se la domanda toccasse a me, risponderei senza tentennamenti: i versi più memorabili della patria letteratura moderna stanno esattamente a metà della terza strofa di una canzone napoletana del 1925, firmata da Libero Bovio.

Uno scherzo? Un paradosso? Quale tesoro espressivo si celerebbe dentro una canzonetta popolare? In dialetto, per di più? No. Non scherzo. Confermo.
La canzone Lacreme napulitane contiene un tesoro. E Libero Bovio è un figlio misconosciuto (persino a Napoli) della nostra grande letteratura. Al centro della terza strofa: una scheggia di diamante incastonato dentro una principesca corona canzonettistica.
Li riporto pari pari, i versetti angelici:

che v’aggia dì, se i figli vonno a’ mamma, facitela turnà a chella signora…

La traduzione sarebbe tanto superflua quanto snaturante. Perché parlo di grandezza di queste tre righe? Perché contengono in sé una straordinaria e miracolosa potenza narrativa. Nel senso che, usando una quindicina di parole (più o meno) l’autore riassume ed evoca un universo simbolico imponente: il pathos emotivo del protagonista, l’ethos del suo ambiente, quello del suo tempo, la tragedia individuale e quella esistenziale. Un concentrato di potere narrativo, pronto a dispiegarsi nell’immaginazione dell’ascoltatore.

E se il verso laconico e fulminante è naturellement l’arma del poeta, anche i grandi romanzieri spesso esibiscono questa meravigliosa, misteriosa capacità di contenere tutto – tutto! – in uno sprazzo di luce. Però, queste perle non sono sempre disponibili all’autore, non si può attingerne a piacimento, non è qualcosa che si può programmare: viene fuori quando meno te lo aspetti. E non basta la grandezza. Anche il povero Manzoni, per farci entrare nell’inferno della peste milanese, ha bisogno di tempo, spazio, descrizioni, caratteri, rimandi e metafore: il risultato è meraviglioso e dopo averlo letto non lo dimenticherai più per tutta la vita. Però che fatica, quanta strada, quanto sforzo ha dovuto realizzare l’autore per condurti ai cancelli terribili del lazzaretto, per farti respirare i miasmi fetidi della malattia e della decimazione.
Invece in Bovio, questo che v’aggia di… fiorisce con disarmante naturalezza, come il racconto sommesso e malinconico di un popolano, che rievoca le sue disgrazie, quasi parlando a se stesso.

1925. Libero Bovio vuole scrivere di una tragedia nazionale, l’esodo di massa dei figli negletti dell’Unità d’Italia verso le Americhe. Deve farlo in modo popolare – cioè usando una lingua e delle atmosfere quanto più largamente condivise. E può riuscirci solo costruendo una piccola storia di sentimenti traditi – questo ti consente una canzonetta melodica: una piccola storia di povera gente, che parli a un pubblico abbastanza simile da immedesimarsi – e che sia così impattante, sul piano emotivo, da trascendere la modesta vicenda privata di un emigrante, per diventare un’epica solenne e monumentale.

Libero Bovio è impietoso: quella che racconta è la storia del fallimento di un uomo ma anche di una comunità, di una generazione. La caccia americana a pochi dollari infelici, assume conseguenze distruttive sui legami familiari, le identità, le vite. Più catarsi, che “american dream” (la narrazione ottimistica del sogno americano arriverà più tardi, dopo Frank Capra e Roosvelt).
La morale di Lacreme napulitane è che il destino del migrante è sempre fallimento, è sempre nemesi, è sempre tradimento, anche quando produce un pò di riscatto economico.

Napoli 1925, significa povertà, degrado, fame, malattie: mezza città è un dedalo di antri insalubri e cavernosi. Di questa miseria barocca, la commedia napoletana ci lascia testimonianza edulcorata e pure evocativa: è la Napoli delle grandi commedie di Eduardo Scarpetta e di Eduardo De Filippo. Ma è anche la Napoli di Matilde Serao: il Ventre di Napoli esce nel 1906 e il Risanamento – l’opera di sventramento e ricostruzione del centro antico – ha ridisegnato l’assetto dell’asse centrale della città, tra via Marina e Corso Umberto I, ma non ha inciso in modo definitivo sulla struttura urbanistica e il retrostante tessuto sociale.

Il flusso dell’emigrazione italiana è un dissanguamento inarrestabile: la metropoli e il suo contado campagnolo, contribuiscono copiosamente a questa emorragia di umanità.
Gli Usa, attraverso l’Emergency Quota Act e una serie di provvedimenti successivi, cercano di ridurre gli ingressi e, comunque, di orientare le loro politiche in senso antitaliano e antimediterraneo, favorendo gli arrivi dal Nord Europa.

Persino Mussolini se ne lamenta, rivendicando il diritto degli italiani ad emigrare perchè «bene o male che sia l’emigrazione è una necessità fisiologica del popolo italiano. Siamo quaranta milioni serrati in questa nostra angusta e adorabile penisola che non può nutrire tutti quanti» e i vari Quota Acts americani sono «un vero e proprio insulto agli italiani» perché – dirà il Presidente del Consiglio alla Camera nel 1924 – «Se ci si dessero la possibilità di mandare in America un centomila dei nostri sobri ed operosi emigranti, io credo che ne trarrebbe vantaggio tanto gli Stati Uniti quanto l’Italia».

Capita anche che qualche bastimento italiano, con le stive stracariche di migranti, resti lungamente in rada davanti ai porti di Boston e New York, perchè quei “lotti umani” rappresentano uno sforamento dai numeri previsti dal sistema delle quote. Porti chiusi.
In quei casi è necessario l’intervento umanitario del governo federale, per risolvere l’emergenza in deroga alla legge. (Qualche anno dopo il Regime fascista rovescerà la sua impostazione: la pressione demografica interna può diventare il vettore per il riarmo del paese, il suo orientamento bellicista e un nuovo ciclo coloniale in Africa).

Ma torniamo al nostro emigrante. Anche se il nome non lo conosciamo, è impossibile non immaginarlo come un “Gennaro”. E per quanto scontato sia, è altrettanto inevitabile che su quel nome si appiccichi il faccione amaro, perplesso e sdegnato di Mario Merola, protagonista al cinema di una sguaiatissima trasposizione cinematografica anni ’80.
La struttura del testo ha la forma di una lettera di Natale che il tragico eroe proletario sta scrivendo alla cara mamma, per le feste. Le prime due strofe sono il lamento del migrante lontano, la rievocazione – lacrimosa, appunto – dei riti natalizi domestici, della terra abbandonata, della Famiglia. E fin qui niente di inedito; Bovio è abile nel non scoprire tutte le sue carte.
È nella terza dirompente strofa, infatti, che la storia si squaderna nella sua crudezza.
In quel frammento di canzone, il nostro Gennarino rivela il vero dramma della sua condizione: le corna. E non faccio ironie.

Le corna sono una cosa seria, specie nella Napoli del 1925. Teniamo presente che le attenuanti per il cosiddetto delitto d’onore, saranno abolite in Italia solo 55 anni dopo. Questo tema, quindi, toccava nervi scoperti e incubi inconfessati che dovevano opprimere il soggiorno di ogni migrante. Sul piano emotivo, la canzone assume un andamento drammaticamente crescente: Gennarino prima piange il tradimento infertogli dalla Patria, che lo ha costretto ad attraversare l’oceano alla ricerca di più dignitose condizioni di vita (e già qui, l’emozione dell’ascoltatore/lettore è al culmine). Ma poi, nel finale, rivela che il fardello è insopportabilmente appesantito da un ulteriore tradimento, quello della moglie. E le due infedeltà sono le facce di una stessa medaglia.
Il protagonista, mette in campo un triangolo di riferimenti tutti femminili, entro cui inscenare il suo dramma: la Madre, la Patria, la Malafemmena. Lui è emotivamente sballottato da un vertice all’altro di questo triangolo.

Cerchiamo di trascendere le consapevolezze dell’età contemporanea, soprattutto sul terreno del rapporto uomo donna (lo faremmo nel giudizio di qualsiasi opera letteraria). Nel periodo in cui il testo è scritto, il femminismo è appannaggio solo di poche avanguardie eroiche e colte. La società italiana, prevalentemente rurale e arretrata, è solidamente patriarcale. Però la modernità viaggia veloce, sotto traccia, anche per il violento sconvolgimento indotto dalla guerra e dalle emigrazioni stesse. Del resto, questa storia rompe un pò gli stilemi della sceneggiata e del racconto popolare tipico del sud; la moglie-madre (di cui non sappiamo nulla) ha un ruolo incongruo e inconsueto, per l’immaginario dell’epoca: oltre a tradire il marito, abbandona i figli (doveva essere l’abominio più imperdonabile). Non è l’immagine tradizionale della donna di famiglia – traviata, violentata, sedotta vilmente o vittima di maldicenze che conducono alla tragedia. Questa ha preso su le sue cose e ha mollato baracca e burattini. Tempi moderni. Ma cosa ci può essere di più tremendo, nel destino, nell’autostima, nel senso profondo di un proletario napoletano del 1925?

Fin qui, non ci sarebbe nulla di eccezionale: l’evocazione dei sentimenti forti – il tradimento in primis – è materia comune di poeti, scrittori e compositori.

Ma lo scarto narrativo, il frammento-capolavoro sta proprio in quella famosa terza strofa di cui sopra: che v’aggia dì… diventa una riflessione non banale sull’umano destino e la forza delle cose, filtrata alla luce del malinconico fatalismo napoletano – che è patrimonio sapienziale dei poveri, delle masse, non dei filosofi o degli iniziati (o meglio: di chi è stato iniziato dalla vita, alle sue dolorose verità segrete).

Che vaggia dì… non è rinuncia, passività o quietismo: Gennarino è uno sconfitto consapevole, non coltiva illusioni di riscatto, circa la sua condizione. Certo, ora vede con chiarezza la patetica follia della migrazione transoceanica ( “mo tengo quacche dollaro e me pare, che nun so’ stato mai accussì pezzente”), tocca con mano l’aspetto non materiale o monetario del concetto di miseria.

Che v’aggia di…, non significa che non ha niente da dire: significa che la parola – invettiva, recriminazione, bestemmia o preghiera – è diventata superflua. La realtà è ciò che è. Il destino pure.

Questi brevi versi possiedono una capacità di descrizione del personaggio tanto sintetica quanto profonda: l’autore non lo disegna come mera vittima, né gli attribuisce le velleità vendicatrici proprie dei canoni stilistici consueti – l’ira dei giusti, tipica del melodramma. Non c’è neanche un Malamente di passaggio, da tirargli due fendenti, così, tanto per sfogarsi. No, il nostro portuale (anche qua, la canzone non specifica il mestiere, ma nella nostra testa Merola irrompe vestito da scaricatore e ce lo immaginiamo così), con il suo giaccone blu troppo stretto che dovrebbe difenderlo dall’inverno newyorkese, è solo: tragicamente solo con il suo dolore. Facilmente ce lo figuriamo dentro la sua stanzetta disadorna da scapolo, a Brooklyn, in Mulberry o in Spring Street, appena uscito dal lavoro, alle prese con gli strumenti dolorosi – carta, penna e calamaio – con cui confidare, alla mamma e a noi tutti, la sua sconfitta di uomo. E attenzione: questa centralità dei sentimenti di solitudine, perdita e sconfitta, rappresentano il terreno tematico forte di ogni letteratura contemporanea.

Nel racconto (si fa per dire: tre strofe e un ritornello sempre uguale) si capisce che in una precedente lettera, la vecchia mamma ha comunicato al nostro Gennaro una ambigua novità: la fedifraga ha avuto un ripensamento, chiede di tornare in casa, dai suoi figli. La vecchia madre gli sta evidentemente chiedendo di perdonarla, di permettere che in qualche modo si ripristini l’ordine domestico. Del resto i bambini non hanno mai smesso di reclamare il suo ritorno – se i figli vonno a’ mamma…

E il nostro portuale, davanti a quella richiesta di magnanimità, davanti a quella finzione di restaurazione dell’ordine familiare, consapevole che tutta l’esistenza, in particolare la sua, è propriamente finzione, se ne esce con quella perla: che v’aggia dì, si e’ figli vonn’a mamma, facitela turnà a chella signora. Lapidario. Né una parola di troppo né una di meno.

Chella signora è un appellativo simbolicamente impagabile, meraviglioso: sdegno senza odio; l’odio non servirebbe a crescere i figli, né ricostituirebbe una famiglia ormai compromessa. Però la distanza è definitiva: la moglie non è più Anna o Maria o Filumena – è diventata chella signora. Cioè, pur ritornando nella legittima postazione di mamma r’è criature, non potrà comunque mai più riconquistare il suo bene. E siccome la sua fuga domestica prefigura un gesto di modernità borghese, è anche diventata na signora. Un’alterità genetica.

Questo mondo complesso di relazioni e suggestioni – che a spiegarle, come stiamo facendo, si rischia di impoverire – sta dentro tre righe di una canzonetta popolare. Poesia, romanzo esistenziale, sociologia, antropologia, tutto. Tre righe. Di un testo apparentemente ingenuo, che tutti gli amanti del genere classico conoscono o sono in grado di canticchiare.

Per la cronaca, la canzone prosegue fino alle estreme conseguenze di una appropriata etica del sacrificio:

io no, nu’ torno e me ne resto fore e rest’ a fatecà pè tutti quanti, io c’aggio perz’ casa, patria e onore, io sò carne ‘e maciell’ io sò emigrante.

L’eroe è tale non perché ristabilisce i sacri confini dell’onore, ma perché li sublima in un sacrificio consapevole, fino all’evocazione, addirittura, del martirio – anche qui come fatto sociale, generazionale, collettivo: “carne da macello” come “carne da cannone”, le prime generazioni migranti compongono un esercito di fanti straccioni, che si lanciano a mani nude, lungo le infinite strade d’America, quasi vittime predestinate.

Libero Bovio è un perfetto esemplare di artista cresciuto a cavallo dei due secoli: con qualche retaggio della Napoli capitale classicheggiante e barocca, e la piena internità alla modernità d’acciaio, che ha visto la guerra e l’irruzione del fascismo dominare il primo quarto del secolo. In mezzo, la Belle Epoque, una specie di memorabile istmo tra i due mondi.

Sul piano artistico, Napoli è gravida di novità. Anche grazie all’ingegno di Bovio e altri pionieri, in quegli anni, nasce e si perfeziona la sceneggiata, genere indubbiamente oggi distorto dai luoghi comuni del macchiettismo o del sociologismo, ma che allora incarnava istanze innovatrici: cominciando ad alludere ad un superamento dello steccato tra platea e artista, tra rappresentazione e vita – tema anch’esso quanto mai moderno.

Bovio, nei ritratti fotografici disponibili, ha uno strano aspetto: più da salumaio della Pignasecca, che da vate. Ma è l’uomo che ha scritto capolavori la cui essenza poetica, pur distillata dalle incrostazioni folcloristiche, resta intensa e intatta un secolo dopo: Guapparia, Zappatore, Tu che nu’ chiagne (che ha addirittura un respiro da solennità operistica).

E, naturalmente, Reginella:

…ma e ‘vvote tu, distrattamente pienz’ a me

Altro frammento capolavoro, che meriterebbe ben più di una citazione.