di Diego Leandro Genna

Tutto qui è una prigione.

Il cielo è sporco, è grigio cemento e bianco calce, è un muro, è un cielo solido, chiuso.

Tutto qui è una prigione.

La lentezza delle nuvole. La nebbia che cancella. La pioggia. Il vento senza forma.

Il tempo qui è una prigione.

Le giornate sempre uguali, senza niente da fare e nessun posto dove andare.

Tempo sospeso in un‘attesa assillante. Secondi, minuti, ore. Giorni perduti a fissare il nulla e lunghe notti incolmabili, sotto frammenti di lune tristi.

Tutto qui è una prigione.

Le strade dritte, infinite, la campagna lugubre e i campi incolti, le dune monotone, smunte, che il sole macchia con i suoi tramonti.

La terra qui è una prigione.

I pascoli deserti e la muta pianura.

Le colline svuotate dai metalli e riempite con il sangue.

Le nostre terre e il nostro sangue.

Black Hills. Badlands.

Prigioni.

Questo silenzio e questo vuoto sono una prigione.

Lo spazio qui è una prigione.

Questa cosa che ci ostiniamo a chiamare “casa” è una prigione. Una scatola di legno, gesso e lamiere in cui viviamo, stretti, schiacciati l’uno sull’altro, in nove.

La neve è una prigione.

Il freddo impassibile è una prigione.

Tutto qui è prigione.

La vita stessa è una prigione e io non riesco più a subirne il peso, a sopportare la sua gravità, no, non ne posso più, è troppo, guardo fuori dalla finestra e vedo sempre lo stesso paesaggio di povertà assoluta, di degrado, abbandono e desolazione, un paesaggio raggrinzito, in cui la fine sembra scritta su ogni cosa, con caratteri indelebili.

Questa fine, questo niente che ci circonda è una prigione.

Guardo fuori la finestra ed è come osservare un quadro, una fotografia, come leggere una poesia, l’elogio del dolore.

I cumuli di neve sporca. Il reticolo di recinzioni metalliche. Il passeggino abbandonato sull’erba, senza una ruota. Il cane legato alla catena, che abbaia tutto il giorno. Il pick-up arrugginito, che cade a pezzi. Il ventre vuoto di una lavatrice e altri piccoli elettrodomestici accatastati. Il sedile sradicato da un furgone, buttato contro un muro, la gomma piuma giallo-urina che spunta dalle ferite. Cerchioni deformi, pneumatici induriti, fossili di arnesi che affiorano dalla terra. I bimbi che si prendono a calci, che scacciano i cani randagi, che girano intorno a sé stessi in biciclette troppo piccole o troppo grandi. Il campo di basket d’asfalto, con un solo canestro, crivellato da ciuffi di erba bruna, grigia e nera. Il cimitero, i fiori finti, le croci di legno fatte a mano, dipinte di bianco, scrostate dal tempo. Quella grossa bombola del gas sepolta dalle sterpaglie.

Le case intorno alla mia, tutte uguali, pallide, decrepite, alcune con porte e finestre sbarrate. Le scritte sui muri con lo spray. Bottiglie di plastica, pezzi di legno, sterpaglie e ciarpame, ovunque.

Questo è quello che vedo dal mio tugurio.

E in lontananza le sagome di alberi scheletrici tra cumuli di terra e rifiuti.

Uno scenario oppresso dal silenzio. L’aria che pesa come una lastra di ghiaccio, graffiata solo dal fruscio del vento e incrinata dai versi sfacciati di uccelli scuri. La nebbia immobile.

Per le strade sempre le stesse facce, maschere inespressive, senza sentimenti, spente, corrose dal freddo e dall’alcol.

Come si fa a vivere così?

No. Non ce la faccio.

Non posso più vedere mio nonno in quello scantinato senza finestre, seduto sul letto, il cappello da baseball in testa, tutto il giorno con la lattina di birra in mano e la sigaretta nell’altra, a rimbambirsi di serie televisive. Non posso più vedere mia madre che si trucca in quel modo, che beve anche lei dalla mattina alla sera ed è costretta a fare quei lavoretti per comprarci cibo in scatola e bevande gassate. Sono stanco di uscire la notte, con il freddo, per andare a pisciare in quella fetida latrina. Sono stanco di non fare niente. Non posso più vedere i miei fratelli e le mie sorelle crescere nella sporcizia, giocare con i rifiuti, con i rottami.

Non posso più accettare una vita così piatta, vuota, un letargo in cui si è spento ogni sogno.

Non riesco più a mandare giù questo schifo, digerire marciume e sforzarsi per cagare speranza.

Già la speranza! Il balsamo del tempo, questa cosa preconfezionata, falsa, il prodotto d’illusioni centenarie, di bugie, tradimenti, la speranza che possa cambiare qualcosa, tornare come prima, come… Quando? Dove?

La verità è che non sappiamo più chi siamo. La verità è che non sappiamo più chi essere. Che cosa scegliere e in cosa sperare.

La verità è che la speranza è essa stessa una prigione.

 

Noi che non sapevamo nemmeno cosa fosse un muro, un edificio, noi che vivevamo liberi nella Natura, che ascoltavamo il cielo e adoravamo la terra, i fiumi, le montagne… Hanno costruito questa prigione apposta per noi, per le nostre anime, una prigione nuova, diversa, la peggiore che potessero inventare: una prigione senza mura. Una prigione di oblio.

Penso ai miei antenati, che hanno lottato, hanno perso, si sono arresi. Penso al massacro, a quello che hanno subito, al genocidio. Penso all’estinzione. La nostra estinzione.

Sento le urla di battaglia, poi le grida di dolore, il lamento e infine, adesso, soltanto il silenzio. Perforante. Avvilente. Un silenzio che annulla. Vuoto e dispersivo.

La mia tribù… Già! Era scritto nel nostro nome, Lakota, Oglala, “coloro che si disperdono”.

Siamo animali morenti, agonizzanti, stiamo marcendo sul ciglio della Storia. Siamo rifiuti dell’umanità, siamo carcasse, siamo carogne in putrefazione di un mondo che per noi è morto più di un secolo fa. Siamo morti viventi.

Quando nasciamo siamo già morti, siamo ante-nati di noi stessi, figli di un ricordo, nipoti di un monumento ai caduti, le vittime, il massacro. Siamo eredi di una sconfitta, di un tradimento. Siamo i resti marci di un’atroce mietitura. E siamo qui, in questa prigione. E nei libri, in tanti libri che nessuno di noi leggerà mai. In prigione dentro la carta, in una memoria di fredde parole, imprigionati nel tempo e nello spazio.

Sì, perché ci hanno preso ogni cosa e soprattutto ci hanno preso il tempo e lo spazio.

Ci hanno preso tutto.

 

Potevo sfogare la mia rabbia, il mio rancore e la mia disperazione in altri modi, con la violenza, con l’alcool, con la droga, come fanno tutti, uccidermi lentamente, giorno per giorno, distruggere il mio copro e la mia mente, prendermela con gli altri, diventare un criminale, oppure starmene a vegetare, continuando a guardare lo spettacolo della morte che si rinnova, immobile, dietro questa finestra sul nulla. E osservare in silenzio gli ultimi rantoli della bestia, in gabbia, prima della fine totale, prima della completa estinzione.

Potevo prendermela con il mio corpo, con queste gambe che a malapena mi reggono in piedi e queste mani piene di noia, con questi occhi asciutti, secchi, senza lacrime da versare.

Potrei continuare a vivere in questa galera di dolore che è il mio corpo, e aspettarne in silenzio l’inevitabile decomposizione.

L’intima biologica prigione.

Sì, perché anche il corpo è una prigione, e per questo ho deciso di abbandonarlo. Per sempre.

Sarò un vigliacco, non sarò un guerriero, non come diceva Toro Seduto con le sue famose parole… Le ricordo a memoria: “il guerriero non è chi combatte, perché nessuno ha il diritto di prendersi la vita di un altro. Il guerriero è chi sacrifica se stesso per il bene degli altri. È suo compito occuparsi degli anziani, degli indifesi, di chi non può provvedere a se stesso e soprattutto ai bambini, il futuro dell’umanità.”.

No, non sarò niente di tutto questo. Non sarò un guerriero. Non lo sarò mai. Perché qui non c’è futuro. Si son presi anche quello, soprattutto quello!

E non c’è neanche un granello di umanità. Nemmeno per sbaglio.

L’indifferenza, ecco cosa c’è!

Il mondo che va avanti, con le sue guerre, con i poveri sempre più poveri, con la distruzione della natura. Indifferenza totale e spregiudicata.

Anche l’indifferenza è una prigione.

Ed io sarò solo un altro caso da aggiungere alla lista, un numero che irrobustirà il penoso primato di questa riserva.

La maggiore densità di casi nel mondo occidentale…

Sarò un emerito nessuno, un’unità anonima, la singola parte di una cifra nella triste statistica.

Non certo un martire, no, non combatterò, non servirebbe a nulla, non sarò un guerriero, non lotterò per evadere da questa prigione, per distruggerla, per liberare o riscattare la mia tribù, non farò la guerra a niente e non prenderò la vita di nessuno. Prenderò solo la mia.

 

Potrei fregarmene, continuare a sopravvivere, bevendo come gli altri, scegliermi una donna e magari mettere al mondo un bimbo inzuppato di alcool, malato di quella maledetta cosa, com’è che si chiama? Sindrome fetale alcolica. Come hanno fatto i mei genitori. Come fanno tutti qui.

Sì, potrei fare dei figli, dare loro un bel nome inglese o un nome cristiano. Mal nutrirli e poi mandarli a scuola in quelle città di confine, un figlio o una figlia, che in quella scuola sarebbero presi in giro per la lingua che parlano, per i loro vestiti, i capelli lunghi, il colore della loro pelle, i loro occhi. Verrebbero picchiati, sottomessi, violentati, forse uccisi. In ogni caso li vedrei crescere come me, con enormi problemi emotivi, disfunzioni fisiche e malessere cronico. Il fardello di essere nativi.

Potrei farlo?

Generare altri disadattati, emarginati, esclusi, squilibrati e disconnessi da ogni realtà.

Senza speranze. Senza futuro. Senza identità.

Potrei farlo?

No, io non farò nulla di tutto questo.

Meglio morire subito.

Adesso.

 

 

Pine Ridge Indian Reservation

South Dakota

United States of America

Ieri, oggi, e forse anche domani.