di Franco Pezzini

[Nel 2010, organizzato dall’Associazione culturale Autunnonero, si teneva a Genova il Convegno di studi sul folklore e il fantastico Metamorphosis. Miti – Ibridi – Mostri, dove chi scrive aveva modo di presentare un intervento su Medusa e Salomè. ‘La donna dal collier di velluto’ e la “nuova” teratologia. Negli anni seguenti sul tema, che a partire dal romanzo di Dumas apre a un intero ventaglio di riflessioni sul Fantastico, sono usciti vari testi e articoli importanti che hanno permesso di arricchire notevolmente il quadro, e che citerò in prosieguo via via. A ideale sviluppo dei pezzi pubblicati nelle settimane scorse qui e qui, come una sorta di successivo capitolo, mi sembra dunque non inutile riaggiornare la riflessione che appare nel bel volume degli atti ‘Metamorphosis. Miti – ibridi – mostri’, a cura di Sonia Maura Barillari e Andrea Scibilia, Aracne, Ariccia 2015. Alla cui ricchezza corale – oltre ai citati, Chiara Camerani, Rita Caprini, Giorgio Cremonini, Martina Di Febo, Carlo Donà, Anna Ferrari, Cesare Poppi, Massimo Soumaré – naturalmente rimando.]

 

La luce di un candelabro nella penombra del letto, un bel corpo femminile reclino, lo scorrere delle dita sul fermaglio del collier – e il rotolare della testa, non più trattenuta, sul pavimento della camera d’albergo: questa la sequenza più nota di un capolavoro di Alexandre Dumas, La femme au collier de velours, 1849 (La donna dal collier di velluto, Milano 2005), un gioiello letterario la cui forza fantastica guarda tuttavia ben oltre quel culmine orrifico. Perché parlarne nel contesto di un convegno sui mostri? In fondo nel romanzo, in senso proprio, di mostri non ne compaiono affatto: è una storia di fantasmi – elegantissima, costruita con un meccanismo narrativo di estremo coinvolgimento per il lettore – ambientata nel periodo della Rivoluzione Francese. Eppure, come vedremo, i mostri ci sono eccome; e mostri (per così dire) DOC, a connettere età lontanissime dell’immaginario. Ma prima di smascherarli, nascosti come sono sottotesto, può essere interessante una digressione: e per questo avvio dalla letteratura passiamo brevemente al cinema.

 

Appunti per una “nuova” teratologia

In un’intervista del luglio 1964 Terence Fisher, il regista-artigiano che aveva condotto a una nuova primavera i vecchi mostri gotici sotto i labari della Hammer, esprime un concetto di notevole interesse. Dice Fisher:

I critici cinematografici continentali riconoscono gli inglesi come gli esperti mondiali dell’orrore. È perché siamo timidi. La timidezza nutre le ombre, e le ombre nutrono i vampiri. Gli americani sono diversi, sono sfacciati; e il loro pubblico non ama i fantasmi, ama i mostri [T. Fisher, L’orrore è il mio mestiere (Horror Is My Business, da un’intervista registrata da R. Durgnat e J. Cutts, Films and Filming, n. 10, luglio 1964), in E. Martini (a cura di), Hammer & dintorni, Bergamo Film Meeting 90, S. Paolo d’Argon 1990, p. 69].

Per capire cosa Fisher intenda occorre contestualizzare le affermazioni. All’epoca dell’intervista, il regista ha già riportato in scena, per conto Hammer, vari mostri classici: la Creatura di Frankenstein nel ’57, Dracula nel ’58, la Mummia reviviscente nel ’59 e altri, compresa una curiosa Gorgone in trasferta nella Mitteleuropa del film The Gorgon (Lo sguardo che uccide) che appunto esce nel ’64. Con la Guerra Fredda gli Stati Uniti, che in particolare con la grande stagione Universal degli anni Trenta e Quaranta avevano lanciato nell’immaginario collettivo una fioritura di mostri gotici, li abbandonano per ripiegarsi su quelli più o meno fantascientifici, in particolare i mostruosi alieni del Pianeta Rosso Comunista: negli anni Cinquanta l’horror diviene dunque negli USA un genere desueto. Ma è appunto in questo clima che nel ’57 la Hammer rifonda l’horror dall’altro lato dell’oceano. Agli immensi studios Universal con legioni di figuranti si contrappone un angolo sperduto di campagna inglese con una villa continuamente riadattata quasi fosse un palcoscenico teatrale, e una piccola squadra che comprende regista, sceneggiatore, attori e un po’ di lavoranti, compresa la signora che fa i panini. Alla vaghezza atemporale degli horror Universal, dove la dimensione storica non interessava, si oppone qui in Inghilterra una riscoperta/riappropriazione del gotico in costume, con la ricostruzione d’ambiente di un Ottocento (mitteleuropeo o britannico non importa) profondamente vittoriano – come profondamente vittoriano è Fisher. Ma soprattutto (ai fini del tema di questo weekend) l’horror americano degli anni Trenta e Quaranta riprendeva in chiave popolare una fascinazione già dell’espressionismo tedesco per il baraccone dei mostri, un teatro delle meraviglie e dei gangster dell’anima nutrito di familiarità protestante con la Bibbia e di freudismi precotti – e questo carattere di wunderkammer emerge in particolare in quelle ultime prove (House of Frankenstein, House of Dracula) che spesso si definiscono macedonie all monsters perché assemblano Dracula, creatura di Frankenstein, Uomo Lupo eccetera in allegra combriccola tutti insieme, e già prefigurano le riletture comiche con Gianni e Pinotto. Se lì il monstrum era il meraviglioso che irrompeva, inquietava ma anche divertiva, ammantato di una peculiare poesia e destinato alla distruzione alla fine dello spettacolo mentre la coppietta di turno si salvava, lo stile britannico è tutto diverso. E dunque ai mostri delle House of… americane Fisher contrappone i suoi, che però definisce implicitamente fantasmi perché svelano caratteristiche molto più sfuggenti e perturbanti. Nella sua rilettura di Frankenstein il vero mostro è lo scienziato, coi propri demoni interiori; nel Dracula, fatta piazza pulita di lupi e pipistrelli (peraltro troppo costosi per il budget), il vampiro è lo spettro erotico che aggredisce dall’interno la società vittoriana nella sua dimensione più profonda, il sesso; nella saga della Mummia c’è il fantasma di una necrosi generazionale e culturale che rende l’archeologo interiormente bloccato quanto la Mummia lo è esteriormente… e potremmo continuare. Fino appunto alla Gorgone, il fantasma che si insedia a ogni anello di una catena umana di amanti condannati, in un apologo amarissimo, più poetico che orrifico, sulle conseguenze devastanti del sentimento. I mostri di Fisher non sono quelli del baraccone, ma fantasmi della crisi di un mondo, mostri della psiche e della cultura, dell’educazione e dei sentimenti.

È ovvio che stiamo ragionando in termini di modelli, con le forzature del caso: tra le esperienze Universal e Hammer esistono sicuramente punti in comune, e per contro le due avventure culturali non sono monolitiche come potrebbe sembrare da queste mie semplificazioni, ma molto variegate da regista a regista. Diciamo però che il forzare sulla contrapposizione può essere utile a chiarire l’affermazione di Fisher a proposito della presenza, nel cinema, di due modelli virtualmente “polari” di mostro, poi indefinitamente ibridati nei singoli casi. Da un lato quello che per comodità chiamerò il mostro-mostro, quello del baraccone delle meraviglie, esterno a noi e capace di emozionarci con la sua improvvisa irruzione al nostro orizzonte. Un monstrum, appunto, che presuppone una manifestazione eclatante: ovvio che il cinema popolare ci vada a nozze – con effetti speciali e quant’altro – anche se, attenzione, l’emozione suscitata non è necessariamente superficiale. Ma al mostro-mostro si oppone idealmente un altro modello, che in onore a Fisher potremmo chiamare mostro-fantasma: l’epifania mitica di un mostruoso che vive nelle nostre ombre, inabita il nostro mondo interiore e la nostra società a partire dalle sue stesse censure, e ci rigira come guanti a mostrare i nostri demoni. Un mostro insomma più interiore che esteriore: un mostro talora sottotraccia, e che identifichiamo anche grazie ai suoi connotati mitici. Sul tema dovremo tornare.

La galleria dei mostri dell’uomo della strada è oggi ancora più o meno ancorata a quelli che Fabio Giovannini (Mostri. Protagonisti dell’immaginario del Novecento da Frankenstein a Godzilla, da Dracula ai cyborg, Castelvecchi, Roma 1999, p. 84) definiva “gli orribili quattro”: Dracula, la Creatura di Frankenstein, l’Uomo Lupo e la Mummia – in particolare nella versione popolare veicolata dal cinema, e indefinitamente richiamata e parodiata. Ma in realtà si tratta di un panorama assai più fitto. Come scriveva Seneca in Fedra, «Perché arrestare la generazione dei mostri?»: la produzione non è mai cessata dall’alba dell’umanità, e ogni epoca arricchisce e rinnova il parco-mostri. Un esempio interessante può essere per esempio Jack the Ripper, personaggio indubbiamente storico ma oggetto di mito mediatico fin dai giorni di sangue del 1888, e acquisito come mostro paradigmatico (coi relativi aspetti di fluidità e libertà di rappresentazione) fin dall’espressionismo tedesco. L’impatto dei crimini seriali nell’immaginario degli ultimi anni e l’acquisizione alla galleria dei mostri di spettri slasher come Freddy, Jason & compagnia, non può che rafforzare a questo Gianni con il coltello in mano (a parafrasare Marcel Detienne) una livida aura simbolica e totemica.

Possiamo immaginare che nella teratologia del futuro il cinema giocherà ancora una parte fondamentale; ma nello sviluppo entrerà anche internet, veicolo di nuovi vampirismi e possessioni. Certo, la novità di una teratologia va rettamente intesa, ed è probabile che in gran parte i mostri di domani sorgeranno da strutture o figure che già conosciamo, sviluppandone innovativamente singole caratteristiche, personali o ambientali. Potranno per esempio flirtare con l’inorganico, coi virus informatici o con quella cifra Legione che già connota alcuni personaggi dell’horror contemporaneo: quando l’amico Danilo Arona parla dello spettro Melissa sorto da una risacca di sogni web, leggende metropolitane e magari grumi psichici (come racconta con buoni motivi nei suoi romanzi-saggi) offre una chiave straordinariamente interessante per questi nuovi orizzonti della teratologia.

Un altro filone dell’odierna galleria dei mostri destinato a perpetuarsi perché connesso al concetto di estremo (qualcosa che col mostro ha molto a che vedere) si articola poi attorno al tema della perversione sessuale. Sia pure in versione liberissimamente riveduta e corretta, il marchese de Sade ha del resto conseguito già da parecchio tempo la promozione a mostro in ambito di fiction (particolarmente indicativo è un film in sé banalotto come Waxwork di Anthony Hickox, 1988, dove un Sade totalmente apocrifo compare insieme a Dracula, l’Uomo Lupo e vari altri mostri “classici”); e l’età di Saw, Hostel, eccetera, vede i suoi eredi in azione non solo al cinema ma in un più vasto pelago fantastico.

Un ulteriore fronte di arricchimento al discorso però s’impone. Gli esempi citati attengono in generale al linguaggio dell’horror, per quanto nutrito per vie diverse da letteratura, folklore, cronaca nera, eccetera. Ma in realtà una teratologia corre per generi anche piuttosto distanti dall’horror etichettato come tale, con vari livelli di contaminazione. Parlo di poliziesco, feuilleton, romanzo in costume, persino agiografie, e parallelamente di tutte le relazioni dei rispettivi soggetti con le arti figurative – un rapporto che interesserà direttamente il cinema attraverso l’ispirazione di modelli iconografici. Si pensi a mostri come l’orango della Rue Morgue o il cane dei Baskerville, che innovano il catalogo dei mostri mitici con cui l’eroe di turno deve fare i conti e lo stesso concetto di teratomachia, la ‘lotta col mostro’ di rilevanza insieme mitica e iniziatica. Ma pensiamo anche a tutto il lussureggiante serraglio dei mostri-femmina che dilagano tra Otto e Novecento, figure in sé umane – con tutta la piacevolezza erotica implicita nel concetto – ma minacciosamente estreme nella loro potenza predatoria. Se in sostanza ogni epoca rinnova le maschere del mostruoso, questi mostri anomali, metaforici o sottotesto – ma non meno insidiosi, almeno dal punto di vista di chi li evoca – possono rappresentare l’immagine più emblematica di una “nuova” teratologia che parla attraverso simboli e allusioni, influenza percezioni diffuse, sostanzia categorie condivise.

E si può chiudere la digressione con una constatazione che pare d’interesse. In molte di queste declinazioni moderne del mostruoso, dal mostro del feuilleton a quello dilagante come virus informatico, una caratteristica spicca: alla fisionomia del mostro-mostro (secondo la terminologia alla buona che abbiamo utilizzato) sembra sempre più spesso sovrapporsi quella del mostro-fantasma, sorto dalla schiera dei demoni interiori del singolo e della società.

E passiamo al romanzo di Dumas.

[1-Continua]