di Giacomo Marchetti

Tonya è un film girato secondo lo stile del “finto documentario” (mockumentary in inglese). È una scelta stilistica appropriata per cui la vicenda narrata è solo un espediente narrativo per raccontarci tutt’altro. L’ascesa e l’epilogo della carriera sportiva di Tonya Harding e la notorietà delle vicende che ne hanno decretato la sua fine: l’organizzazione del ferimento di una sua diretta concorrente diretta Nancy Kerrigan per la squadra olimpica di pattinaggio artistico nel 1994, sono di fatto un fatto accessorio.

Il presunto accertamento dei fatti, la ricerca della verità con stile “poliziesco” risulta infatti molto meno importante dello sfondo che li ha partoriti, conferendo un voluto effetto distopico ed un profilo parossistico a questa tecnica tipica della crime story: l’accertamento delle reali responsabilità nell’agguato alla propria rivale non toglie niente e non aggiunge nulla al fatto che la vita della protagonista sia stata distrutta.

False interviste domestiche ex post ai protagonisti invecchiati si alternano ad una ricostruzione cronologica degli eventi e degli intrecci vitali tra le figure rilevanti della storia, in un escamotage narrativo che sfrutta un esempio illustre di gioco sporco del mondo sportivo, in cui – al pari di qualsiasi pratica concorrenziale dell’ imperialismo “a stelle e a strisce” – un avversario viene “fatto fuori”. Questa eliminazione del problema avviene in maniera piuttosto approssimativa, con una scarsa propensione a soppesare i mezzi con cui questo avviene e privilegiando l’importanza del risultato in sé, passando da possibili “innocue” minacce di morte per intimorire l’avversario ad una atto da gangster.

Alla fine l’ azzoppamento di una atleta concorrente, probabilmente nemmeno voluto direttamente da colei che sembra esserne in un primo tempo avvantaggiata, è un crimine in sedicesimi rispetto alla pratica quotidiana del sistema criminale “in doppio petto” che caratterizza la concorrenza a tutti i livelli nella società nord-americana.
È un gesto che viene ancora più relativizzato, nell’economia complessiva delle vicende filmiche, sia dalla evidente mix di incapacità e mitomania di chi è la mente e l’esecutore dell’azione, sia dal cumulo di violenza subita a tutti i livelli dalla protagonista. Anzi, si ha l’impressione che ciò che sia accaduto sia un valido pretesto per estromettere una volta per tutte una atleta scomoda come Tonya Harding dal gareggiare.

Sullo sfondo di una America profonda – siamo a Portland nell’Oregon – si consuma il requiem per un sogno di una eroina popolare e viene disvelata la vera natura “a perdere” della competizione sportiva, quintessenza dell’apparato di dominio e della sua riproduzione ideologica: questa in fondo è la cifra della “pellicola” che si nutre di una cast di attori protagonisti assolutamente all’altezza, di una colonna sonora fedele alla scansione temporale e di una sprezzante ironia non moralista sull’american way of life.

Il film è una black comedy che fa ridere in fondo, anche dei personaggi moralmente più discutibili, dalla madre anaffettiva e crudele – attualissimo archetipo di un genitore che smania nel vedere far fare il salto di qualità al proprio figlio a livello sportivo a costo di privarlo da subito della dimensione ludica e relazionale dello sport, al marito violento, bugiardo e opportunista, al suo aiutante che si crede, nella sua allucinazione, una specie di esperto di intelligence e di trame occulte, probabilmente un scompenso metabolico dovuto alla dieta a base di junk food.

Il film del registra australiano Craig Gillespie demolisce la narrazione che una società fornisce su di sé attraverso il racconto di una esponente femminile della “spazzatura bianca” che si scontra con l’apparato di di selezione dei profili chiamati a rappresentarla nell’immaginario collettivo del sogno americano.
Il corpo della protagonista è una “macchina desiderante”, e il film ci racconta della sua collisione contro un sistema pensato per scartarla a priori, nonostante lei abbia tutti i prerequisiti – dal punto di vista delle sue qualità sportive – per farcela.
Tonya, può librarsi nell’aria con un “triplo Axle” grazie alla sua forza, che è il connubio tra potenza fisica, volontà d’animo e istinto di classe, ma sono i rapporti sociali che la inchiodano a terra e annichiliscono il suo desiderio di riscatto.
Lei ne ha piena coscienza, ma non molla.

Tonya è una working class heroine nord-americana.
Appartiene a quella fascia di proletariato statunitense che non ha mai potuto godere di un relativo benessere, nonostante “il privilegio” di avere la pelle bianca.
Sembra uscita da una canzone di Springsteen: in questo caso non è “nata per correre”, ma per “combattere” che sia nel rapporto con la madre, sulla pista del ghiaccio, col proprio “uomo”, nel sistema dello sport professionistico, in un aula di tribunale.

La sua vita, come quella delle altre donne della sua condizione è fatta di sangue, sudore e imprecazioni. Deve sopravvivere, tutto qui, ed è costretta a combattere una guerra asimmetrica contro il tempo (intanto che è giovane) per sfuggire il suo destino ereditario di cameriera non scolarizzata, fumatrice incallita e destinata a sposare un demente.
“You fuck dumb, you don’t marry dumb!”, le consiglia la madre – una strepitosa Allison Janney vincitrice dell’Oscar come migliore attrice non protagonista – il giorno del suo matrimonio, rimproverandola per essersi sposata il primo che l’ha trovata carina.

Deve sempre rialzarsi Tonya – interpretata da Margot Robbie – anche quando sul finale un uppercut sembra mandarla KO, e uno schizzo di sangue le esce dalla bocca insieme al para-denti, ma quello sul ring non è che uno dei tanti match che deve affrontare, forse neanche il più duro.
Nell’ intervista fake nel film, riflettendo su quelle vicende, si stupisce di come il ginocchio rotto della sua competitor desti tanto scalpore, quando dei maltrattamenti subiti da lei nessuno se ne è mai interessato, nemmeno la polizia, nonostante le sue numerose denunce.

Adattarsi e reagire ad una condizione economica, alle relazioni familiari ed affettive che si possono sviluppare in quel contesto, molto distanti da quelle veicolate attraverso gli stereotipi della classe media, di cui lei non può essere una icona, nonostante tutti i suoi sforzi, è una questione di sopravvivenza.
La sua educazione sentimentale è la violenza, cioè un rapporto sociale crudele ed ineludibile, in cui o reagisci o perisci, secondo una visione di vita individualista dove non c’è spazio per l’etica sin dai banchi di scuola. Così in questo particolare biopic, Tonya le prende, ma le da anche, compresa una bella fucilata al marito…

Il suo “corpo” reagisce alla vita di una ragazza che deve crescere in fretta, non rinuncia al piacere e mal si adatta ai codici comportamentali di una atleta in erba: beve, fuma e scopa, anche prima di competizioni importanti, ma le sue performance sul ghiaccio lasciano senza fiato.
Tonya ha un grande talento, e quindi deve reagire all’apparato che vorrebbe negarlo sistematicamente e a cui lei non si piega; suo marito lo chiama il suo “superpotere” ma questo forse ha costituito più la sua dannazione che la sua reale possibilità di redenzione.

È l’ideologia dell’affermazione del sé che cozza con una realtà materiale per cui lei non può rappresentare il proprio Paese, come le viene detto esplicitamente da un giudice che lei inchioda in un parcheggio sotterraneo dopo l’ennesima gara dal punteggio “truccato”.
È questa la tensione narrativa della vicenda: da un lato lei è la migliore, in grado di essere la prima e l’unica a compiere un gesto atletico che mai una pattinatrice americana aveva compiuto, può cercare di eguagliare in malo modo con i propri mezzi gli standard richiesti secondo una arte d’arrangiarsi imparata dalla vita e successivamente in maniera più scientifica secondo i parametri dettati dalla sua allenatrice in stile Barbie, dall’altro è il sistema che non può accettarla come ambasciatrice sportiva degli Usa nel mondo.

Può fabbricare una pelliccia da indossare scuoiando gli animali cacciati suscitando lo stupore delle sue più altolocate e ignare giovani coetanee che si domandano di che animale si tratti; può cucirsi da sola l’abito da indossare, e successivamente può anche decidere di codificarsi agli standard che le vengono imposti prendendo lezioni di danza classica per essere più aggraziata, curando maggiormente il suo look e sostituendo i brani musicali con cui accompagna le sue prestazioni (l’allenatrice le impone di non scegliere più brani heavy metal), ma questo non le farà perdere le stigmate della povertà che se le fanno guadagnare l’entusiasmo popolare non la faranno accedere al gradino più alto e anzi stroncheranno ogni suo tentativo.
Il messaggio è chiaro: la discriminante di classe è l’elemento che determina il successo delle persone nonostante l’ideologia meritocratica attraverso la quale si vorrebbe rappresentare la società di cui fa parte.

Ci si potrebbe aspettare uno spirito maggiormente rassegnato della protagonista rispetto ad una sentenza che la bandisce dal pattinaggio, una scelta di vita che l’ha portata a dedicarsi anima e corpo a quella passione, ma non avviene nullo di tutto ciò perché l’ironia è in fondo quello che ti permette di metterlo “in quel posto” alla Storia e la passione ciò che ci permette di “stracciare” avversari più accreditati di noi.
Come dice la protagonista guardando la telecamera, prima di sparare al marito, caricando un fucile a pompa: a tutti quelli che vogliono farmi fallire sapete cosa dico? Io non mi arrendo mai!