di Gioacchino Toni

Alfredo Sprovieri, Joca, Il “Che” dimenticato. La vera storia del ribelle italiano che sfidò il regime dei Gorillas, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp. 146, € 12,00

Nella vita bisogna fare una scelta. Lo so che questo non è il mio paese, ma c’è la libertà da difendere e se nessuno ci prova le cose non cambieranno mai. (Joca)

Il libro di Alfredo Sprovieri, autore che si occupa di giornalismo d’inchiesta e reportage, ricostruisce la storia di Libero Giancarlo Castiglia, calabrese di San Lucido, emigrato in Brasile alla metà degli anni Cinquanta che, durante la dittatura militare, da operaio a Rio De Janeiro inizia a collaborare con il giornale comunista «A Classe Operaria» per poi decidere di unirsi alla guerriglia. Quando i militari prendono il potere in Brasile vengono messe fuori legge le formazioni politiche d’opposizione e vietati gli scioperi. Per molti militanti il passaggio alla clandestinità diviene necessario. Dopo un perdio di addestramento in Cina, rientrato in Brasile, l’emigrante italiano, con il nome di battaglia di “Joca”, si mette alla guida di un distaccamento della guerriglia rurale in Amazzonia composto da una settantina di uomini e donne. Il gruppo viene annientato dall’esercito brasiliano tra il 1973 ed il 1974. Sparito nel nulla, insieme a diversi suoi compagni e compagne, i resti di Joca ricompaiono all’inizio del nuovo millennio quando in una fossa comune vicina al fiume Araguaia viene ritrovato uno scheletro con le mani mozzate ritenuto dal governo brasiliano quello dell’italiano.

Sprovieri ricostruisce la storia di Libero Giancarlo Castiglia raccontando le vicende ambientate nelle città e nelle foreste brasiliane che lo vedono combattere in prima linea contro i complici locali di quello che sarebbe poi stato formalizzato dal famigerato e criminale “Plan Condor” ordito a metà degli anni Settanta dalla Cia e dall’allora Segretario di Stato statunitense Henry Kissinger in collaborazione con le forze militari di Cile, Argentina, Uruguay, Bolivia, Brasile, Paraguay ed Ecuador, volto ad estirpare ogni forma di dissenso.

«Quando la giustizia non sa più dare alcuna memoria, la memoria può dare un po’ di giustizia: l’incredibile caso Castiglia comincia 20 anni dopo la guerriglia in Araguaia ed è ancora lontano dall’essere chiuso. Un mistero lungo 42 anni e largo 9 mila chilometri. Il tempo è quello passato dalla sua scomparsa, la distanza quella che un alto rappresentante del governo brasiliano ha deciso di ricomporre fino al Sud dell’Italia. Lì, a San Lucido, bussano alla porta di Elena Gibertini nel luglio del 1997 con la tremenda notizia che ha temuto di ricevere ogni giorno per 24 anni: un certificato di morte rilasciato dalla quinta circoscrizione giudiziaria di Rio de Janeiro riporta che suo figlio è rimasto ucciso il 25 dicembre del 1973. Tutto qui, senza spiegare dove si trovasse il corpo, senza specificare perché o come fosse avvenuta la scomparsa» (p. 119).

Sul caso scende nuovamente il silenzio per altri dieci anni, fino a quando alla famiglia giunge una nuova comunicazione da parte dell’Ufficio di Presidenza della Camera dei deputati italiana che annuncia l’arrivo in Calabria del segretario speciale per i diritti umani del governo brasiliano per raccogliere campioni di materiale genetico al fine di procedere all’identificazione del corpo ritrovato. Servono altri sette interminabili anni per ottenere nuove informazioni. Durante il secondo governo Dilma Rousseff viene reso pubblico un dossier di più di tremila pagine che, oltre a riportare i nomi di oltre trecento responsabili di torture, omicidi e sequestri, elenca 434 vittime accertate. Tra i nomi c’è anche quello di Libero Giancarlo Castiglia. In questi ed altri documenti sono presenti però numerose discrepanze che complicano la ricerca della verità.

Myrian Luiz Alves è la prima giornalista e ricercatrice ad indagare la sparizione di Joca: «Ci sono molte cose strane che accadono sulla vicenda “desaparecidos” qui in Brasile […] Per ora, il governo ha ancora voglia di fornire una sua “lettura” del passato, a mio avviso, per cercare di distogliere l’attenzione dalle accuse politiche attuali. Tornando a Joca, per quanto ne so i militari conoscono il suo nome solo dopo l’uccisione, approssimativamente intorno a marzo del 1974. Le coincidenza della storia di Libero Giancarlo con le cose politiche che accadono oggi in Brasile sono enormi, compresi i nomi coinvolti nel piano denominato Mensalao» (p. 121). Con “Mensalao” (il salario mensile) la stampa è solita indicare una sorta di Tangentopoli brasiliana. I silenzi, le omissioni, le riscritture risentono delle intricate vicende del Brasile di epoca recente e finiscono col coinvolgere anche il mondo politico italiano che, nonostante i tentativi di ottenere verità dal Brasile da parte di alcuni suoi esponenti, nei suoi uomini di governo si palesa quantomeno uno scarso interesse per le vicende degli anni della dittatura a cui si aggiunge il raffreddamento dei rapporti diplomatici tra i due paesi a causa della mancata estradizione di Cesare Battisti ai tempi di Lula.

A quella che in Brasile definiscono “a conspiracao do silencio” ha continuato ad opporsi con coraggio e determinazione Elena Gibertini, la madre di Joca, al fine di poter finalmente recuperare i resti del figlio per darne una degna sepoltura; «il suo ultimo desiderio era un funerale per il suo bambino, ma quando bussano di nuovo alla sua porta è ancora e solo la morte» (p. 124).