di Vincenzo Mele

[Tredici anni fa moriva il più giovane collaboratore di Carmilla, Vincenzo Mele, siciliano. Aveva solo diciassette anni. Affetto da una patologia che non perdonava, trascorse una brevissima vita di sofferenza. Ne evadeva grazie alla sua passione per il genere horror, da cui trasse ispirazione per alcuni racconti. Furono pubblicati da Carmilla, allora in versione prevalentemente cartacea. Ne riproponiamo uno, in commosso ricordo di Vincenzo.] (V.E.)

Voglio raccontarvi una storia, anche se magari non è una di quelle allegre e gioiose che piacciono a voi. In questa storia non esiste una morale (il gusto stesso di questa parola mi sembra disgustosamente metallico, come se stessi leccando un mazzo di chiavi), e ci sono, più o meno, solo tre protagonisti: una madre, un padre e un figlio. Potrebbero esserci anche altri personaggi, ma al momento non ho ancora deciso se siano utili all’economia del racconto oppure no.

Volete sapere chi sono, giusto? Posso immaginarlo. Lo saprete, ma solo alla fine. Per adesso proprio non importa. L’unica regola che vi chiedo di rispettare è quella classica, che dovrebbe essere rispettata in tutte le storie: proseguite con ordine e non saltate le pagine.

 

La mamma di Carlo aveva dei gusti strani. Seguiva film che Carlo detestava e non sopportava i programmi che seguiva suo figlio. Non solo: Maddalena De Domenico pretendeva che suo figlio si vestisse seguendo i suoi consigli, o i suoi ordini, e non ammetteva che lui mischiasse i capi nelle orribili combinazioni che potevano piacere solo a un bambino piccolo e mezzo daltonico. Lui aveva otto anni e ad esempio trovava fantastici i cartoni coi robot giganti che distruggevano i palazzi, e andava matto per un mediocre berretto macchiato di giallo che portava stampato il marchio della Juve. Carlo e sua madre non avevano gli stessi gusti punto e basta.

Nemmeno sulla casa.

Carlo si trovava benissimo in quella vecchia, quella piccola e dalle pareti azzurre. In quella casa non ci era nato, ma praticamente aveva vissuto sempre lì, e per lui era quella la casa più bella del mondo.

Non capiva come mai, visto che nè la mamma nè il papà se ne erano mai lamentati, avevano deciso di traslocare. E non capiva neppure come potessero trovare bello  l’appartamento in cui si erano trasferiti da neanche venti giorni. Era più grande, va bene, il soffitto molto più alto e i negozi proprio sotto il portone d’ingresso, ma a Carlo non piaceva lo stesso. Prima di tutto, gli dava un senso, come dire…strano. Come se il doverci abitare fosse solo una cosa provvisoria, un breve periodo in attesa di tornare alla loro vera casa. Era la stessa sensazione che aveva provato quando lui e i suoi genitori erano andati in vacanza a Riccione e avevano dormito per un mese in una casetta bianca senza mobili, a parte un tavolo e tre cose metalliche che gli avevano spacciato per letti.

Ci era stato un mese, si era anche divertito, ma poi era tornato a casa.

Quello che più gli dava fastidio era proprio questo: sapere che a casa non ci sarebbe più tornato, perchè adesso ne aveva una tutta nuova da cui non c’era proprio motivo di andarsene.

 

Il nuovo appartamento di via Cremona era formato da due camere da letto, due bagni, due camere per i bambini (“Perchè forse un giorno avrai un fratellino” gli aveva detto la mamma), un grosso salone, una cucina e, naturalmente, un magazzino.

Il magazzino nero.

In realtà il magazzino, che si trovava poco più in fondo alla cameretta di Carlo, non era nero. La sua porta, in massiccio legno d’abete, era dipinta di un marroncino molto chiaro, quasi sul nocciola. Il pomello era rosso come un grosso rubino fasullo, di un materiale che Carlo non conosceva. In verità, non aveva mai sentito nominare nemmeno i materiali di cui erano fatte le altre parti della casa, ma i suoi glieli avevano elencati con orgoglio, incuranti del fatto che a un bambino non poteva fregare di meno che una porta fosse d’acero o di ciliegio.  I muri erano dipinti di un giallino molto chiaro, e da quello che Carlo sapeva doveva esserlo anche l’interno del magazzino. Ma lui non ci era ancora entrato, e i suoi non gli avevano mai chiesto di andarci per prendere qualcosa. Carlo, dunque, non poteva sapere quale fosse il colore che copriva l’interno di quella stanza. Eppure, fin dalla notte successiva al trasloco, per Carlo quello era stato il magazzino nero.

Perchè il nero c’era, e veniva da sotto.

Carlo aveva sempre notato la fascia di luce che filtrava sul pavimento della sua vecchia stanza. Suo papà lasciava sempre una lampadina a basso voltaggio accessa in corridoio, e Carlo molte volte si era addormentato fissando ipnoticamente quella porzione gialla che si allungava da sotto la porta, alla quale era appeso il poster di Alex Del Piero.

Aveva fatto caso anche alle altre stanze del vecchio appartamento, e nessuna sfuggiva a questa regola: la luce passa da sotto la porta ed è sempre di colore giallo. Ma il magazzino della nuova casa era diverso. Se n’era accorto la prima notte, quando si era alzato per andare in bagno. Intontito dal sonno, aveva camminato sul parquet lungo il corridoio illuminato dal faretto che suo padre aveva lasciato acceso, strascicando i piedi nelle ciabattine dei Simpson.

E, all’improvviso, si era bloccato.

Da sotto la porta del magazzino si protraeva un lungo rettangolo di luce nera. A Carlo era sembrata così scura da essere addirittura profonda, come se dentro quella roba ci fosse il vuoto. Il bagno era in fondo, e Carlo non voleva proprio mettere il piede in quella schifezza. E poi la luce non si allunga così tanto, aveva pensato Carlo. Ma quella non era certo una luce normale, e questo l’aveva capito subito. Questa specie di luce nera arrivava quasi a lambire il battiscopa della parete opposta, e lasciava solo pochi centimetri di parquet libero. Carlo, allora, incapace di trattenere oltre la vescica, si era costretto a camminare in quello spazio esiguo. Mentre metteva un piede davanti all’altro, strisciando la spalla destra sul muro, gli era sembrato che la luce si muovesse.

Verso la stoffa pelosa delle sue ciabatte.

Era stato un movimento velocissimo, solo un leggero sfarfallìo in avanti. Ma, insomma, quella cosa si era comunque mossa. Al ritorno dal gabinetto (in cui aveva faticato a far pipì, nonostante gli scappasse di brutto), aveva deciso che non voleva più correre rischi. Il rettangolo nero non era molto largo. Così aveva gettato le ciabatte dall’altra parte e poi aveva preso una breve rincorsa. Non era rimasto lì a pensarci, l’aveva fatto e basta. Col cuore che batteva forte, aveva saltato la luce che veniva da sotto la porta del magazzino. Per non rischiare, aveva messo nelle gambe una forza maggiore di quanta ne richiedesse la distanza di pochi centimetri. Aveva superato l’ostacolo di molto, ma nell’atterrare aveva perso l’equilibrio ed era caduto su un ginocchio. Aveva fatto un bel po’ di rumore, ma per fortuna i suoi genitori non si erano svegliati. Più tranquillo, era tornato in camera massaggiandosi lievemente la rotula, pensando, prima di dormire, che era stato uno stupido ad aver avuto paura di un semplice effetto luminoso.

 

Passò un po’ di tempo.

 

Quel giorno, una domenica mattina a circa un mese dal trasloco, era nato male, proseguendo la tendenza cominciata la notte precedente. La mamma si era accorta subito che mancava una ciabatta. Proprio immediatamente, dopo una sola occhiata fugace. Carlo, a volte, aveva sospettato che la mamma avesse un qualche congegno strano nella testa che le permetteva di capire quando lui perdeva qualcosa o semplicemente quando diceva bugie. Era entrata nella stanza e dopo circa 2 secondi aveva capito che una delle sue ciabatte (un prezioso regalo dei nonni materni) non c’era più. Gli aveva dato il tempo di lavarsi e di vestirsi, ma prima che potesse andare in cucina a fare colazione lo aveva fatto sedere sul divanetto del soggiorno. Adesso Carlo attendeva che la mamma cominciasse a parlare.

Non dovette aspettare molto. Giusto il tempo di una breve pausa che facesse salire la tensione. Era una sua tecnica già ampiamente sperimentata.

“Dov’è l’altra ciabatta” gli chiese lei, guardandolo in faccia col solito Sguardo da Sgridata.

Carlo, per un nanosecondo,  pensò di raccontarle quello che era successo la sera prima. Ma anche se aveva solamente 8 anni ed era frustrato, riuscì a capire che quello era un pensiero troppo stupido persino per un bambino. “Non lo so” rispose infine.

“Non lo sai?”

Carlo guardò in basso, incapace di sostenere lo sguardo della madre. “L’ho persa” disse, ed era la cosa più giusta da dire. La mamma tirò sù un rumoroso sospiro col naso, e lo rilasciò dalle labbra socchiuse in una specie di sbuffo. “Era un regalo dei nonni, Carlo.”

Questo serviva a farlo sentire in colpa, Carlo lo sapeva. Ma aveva anche la consapevolezza di non essere affatto responsabile della perdita della ciabatta, nè, a dire il vero, di altre cose capitategli nell’arco dell’ultimo mese. “Lo so” annuì lentamente. “Non l’ho fatto apposta. Non la trovo più.”

“Oggi resti a casa e non esci proprio” gli disse sua madre. Era sabato, la scuola restava chiusa, la giornata era bellissima, ma lui sarebbe rimasto a casa a guardare la tv mentre i suoi amici andavano al cinema e poi chissà dove. Aveva pronosticato che sarebbe andata a finire così già la sera prima, quando era successo quel che era successo, ma ci rimase male lo stesso. La mamma e il papà uscirono dopo un’ora, e il rumore del portone d’ingresso, che si chiudeva dietro di loro, contribuì a peggiorare il suo stato d’animo.

 

“Si deve solo abituare al nuovo ambiente” affermò Pietro De Domenico, con la solita sicurezza che impregnava ogni sua frase. “Tutti questi cambiamenti sono un casino per gli adulti, figurati per un bambino.”

“Sì, però potrebbe capire che l’abbiamo fatto per lui” rispose Maddalena, ancora nervosa per quelle ciabatte. I suoi genitori ci sarebbero rimasti male e avrebbero fatto come sempre: l’avrebbero giudicata. Lei era troppo permissiva, troppo severa, era incapace di educare un figlio sul valore delle cose, ecceteraecceteraeccetera.

“Ma che deve capire, a otto anni!” disse Pietro con un tono vagamente canzonatorio. “Si abituerà.”

“Speriamo, perchè praticamente non dorme più.”

“Come, non dorme più?” chiese Pietro continuando a guidare piano e bene come sempre. Stavolta c’era una nota di preoccupazione nella voce, ma era più un riflesso involontario del cervello. Perchè se ci fosse stato davvero un problema in suo figlio, un problema serio, lui se ne sarebbe accorto o sua moglie glielo avrebbe detto come gli diceva sempre tutto.

Poco ma sicuro.

“Non di notte, almeno” rispose Maddalena. “A scuola, una volta, si è addormentato. E a casa certe volte crolla prima ancora di fare i compiti. E poi l’altra sera ha fatto la pipì a letto.”

Tutto a posto, infatti. Tutto tranquillo e senza problemi. Pietro De Domenico appoggiò una mano sulla spalla della moglie, allungandola di poco per accarezzarle il collo. “Ma dai, può capitare. E’ il nervosismo, te l’ho detto. Tra una settimana sono sicuro che si sarà abituato a tutto.”

Maddalena spinse la nuca contro le dita di suo marito. “Speriamo” disse.

“Stai tranquilla. Non c’è niente che non va.”

 

Ma qualcosa che non andava c’era, eccome. Carlo faceva zapping sul televisore in soggiorno, cercando di rimanere sveglio. Erano passate da poco le 10.00, e il sole che filtrava dalle tende leggermente aperte gli stimolava il sonno. Era come se la voglia di dormire fosse stata scoperta nel rifugio in cui si nascondeva di notte. Ma Carlo non voleva dormire di giorno, perchè la gente normale dorme di notte, col buio. E poi, se si fosse addormentato, avrebbe potuto sognare quello che era successo la notte prima.

Quello che, a pensarci bene, succedeva ormai tutte le notti.

Questi pensieri si ersero come un muro di mattoni intorno al suo torpore. Ma i muri crollano, e il suo crollò quasi subito. Carlo si addormentò col telecomando in mano.

 

La notte prima proprio non aveva resistito.

Aveva pensato di cambiare posizione, così magari poteva sperare di riaddormentarsi. Il peso contro la vescica era abbastanza fastidioso, ma Carlo si era detto che se non ci pensava…ma non poteva non pensarci, doveva farla per forza.

Scese dal letto strofinandosi gli occhi. Accese la luce in corridoio, ma non perchè c’era troppo buio, bensì perchè non c’era abbastanza luce. La fievole lampadina giallognola illuminò il corridoio. L’uniformità del colore, simile a quello di un guscio d’uovo, era interrotta dal legno marrone della porta del magazzino. Mentre passava, Carlo cercò di non farci caso, ma qualcosa in quella porta sembrava funzionare come una calamita per i suoi occhi. E poi era proprio in mezzo, come poteva evitarlo? Carlo guardò la porta, e gli sembrò normale. Legno solido, il pomello rosso come sempre, ma fermo, immobile, senza chissà quale strano tremito.

Non c’era nessun movimento, dentro non c’era nessuno.

Carlo si diede del coglione, anzi, del coglionazzo come diceva lui. Certo, che dentro non c’era nessuno, come poteva pensarlo? Allora abbassò lo sguardo, col cuore che pompava un po’ più in fretta, verso il pavimento. Quando vide che da sotto la porta non proveniva nessuno tipo di luce, emise un immaginario sospiro di sollievo.

Allungò i piedi, calzati dalle ciabatte nuove che gli avevano regalato i nonni. Le mani premute contro la zona inguinale, affrettò il passo verso il gabinetto. Fu a quel punto, nell’esatto momento in cui si era trovato in linea col magazzino, che una bava lucida e nera scivolò da sotto la porta. In realtà non era un liquido salivale, ma più una cosa simile a un fascio emanato da una torcia infernale. Eppure, all’interno di essa, c’era qualcosa che a Carlo ricordò la bava.

Qualcosa di schiumoso.

In meno di un secondo, la luce nera lambì la ciabatta sinistra di Carlo. I suoi riflessi di bambino di 8 anni lo fecero scattare all’indietro, ma la ciabatta rimase inzuppata in quella pozzanghera.

Carlo cadde a sedere, ammortizzando sì il colpo con le natiche, ma procurandosi un dolore piuttosto acuto.

Nemmeno se ne accorse.

Quando vide quello che stava capitando alla sua ciabatta si ricordò immediatamente di un documentario che aveva visto con suo padre qualche mese prima. Si vedeva un piccolo animale affondare nelle sabbie mobili, e suo padre gli aveva detto: “Quando ci si muove là dentro, si peggiora solo la situazione.”

La ciabatta De Fonseca non si muoveva, ma stava di sicuro in una situazione difficilmente peggiorabile. Era proprio come in quel documentario: sprofondava. Solo che non lo stava facendo all’interno di una distesa di sabbie mobili in qualche deserto famoso, ma dentro il parquet del corridoio della loro casa nuova. La luce risucchiò completamente la ciabatta, poi emise un bagliore violaceo che forse era la sua versione di un rutto.

Carlo trovò da qualche parte la forza di rimettersi in piedi e scappò in camera sua, dimenticandosi della vescica ormai tesa allo spasimo.

Quella notte non dormì.

 

Mentre stava sospeso su quell’incubo a recuperare il sonno perso, spalancò gli occhi. La fronte madida di sudore, battè una mano sul divano. Sapeva che avrebbe sognato quella maledetta luce, ma non aveva potuto farci niente. Il televisore era acceso su un canale vuoto che trasmetteva solo effetto nebbia, il sudore gli incollava ciocche di capelli alle tempie, la gamba destra era mezza addormentata sotto il suo stesso peso.

Non poteva continuare così.

Considerò, allora, l’ipotesi di raccontare tutto ai genitori (magari solo al padre; la mamma era in un periodo di nervosismo molto intenso). Ma scartò subito la possibilità. I suoi genitori non gli avrebbero mai creduto, come del resto nessun altro in tutto il mondo. In parte, la parte maggiore, perchè era solo un bambino di otto anni, ma anche perchè la cosa che si nascondeva in quella stanza della nuova casa sfuggiva a tutto quello che le persone normali siano disposte ad accettare o anche solo a prendere in considerazione. Carlo capiva tutto questo alla perfezione, senza nemmeno dovercisi soffermare sopra.

Rimase, ancora per qualche minuto, a fissare la ruota del carrello che sosteneva la tv, poi si alzò e andò in bagno a darsi una sistemata.

Ovviamente scelse il bagno al piano di sotto.

 

Tutto sommato, in questa vicenda, esiste anche un altro interprete. Uno che non parla mai, che non esprime mai giudizi e che non si muove, a meno che non siano gli altri a spostarlo. Sto parlando di un libro che,  mentre Carlo si trovava al bagno, era impilato insieme ad altri volumi in edizione rilegata. Questo libro era il secondo della pila e si trovava sotto un altro libriccino di poco più di un centinaio di pagine. In quel momento, Carlo si stava lavando la faccia qualche stanza più in là, dove comunque non poteva sentire, quando al piano di sopra la porta del magazzino fece allungare la sua larga lingua di luce scura. Il contrasto con l’ambiente luminoso non creava nessun problema e la luce era perfettamente visibile. O lo sarebbe stata, se ci fosse stato qualcuno ad assistere. Il libro, che apparteneva a Maddalena De Domenico, cominciò a spostarsi. Prima fu solo una piccola vibrazione, poi cominciò proprio a scivolare da sotto l’altro volume che ricadde con un leggerissimo tonfo su quello sottostante. Il libro rosso cadde prima sul tavolo, poi quasi rimbalzò sul pavimento. Da lì cominciò a strisciare, fuori dalla stanza e poi verso le scale, dove si fermò per qualche secondo. Quando Carlo stava ormai asciugandosi, il libro si sollevò e cominciò una rapida scalata ai gradini della rampa che portava al pianò di sopra. Nella casa, vuota a eccezzione di Carlo, riecheggiò il rumore della porta del bagno che si chiudeva e poi i passi attutiti del bambino. Il libro rosso raggiunse il piano di sopra. Carlo salì le scale con calma, immerso nei suoi pensieri tristi. Il libro raggiunse l’area davanti al magazzino, che era inondata di luce nera. Il pomello rosso vibrò, poi ruotò su sè stesso e la porta si aprì. La luce nera si ritirò, trasportando il libro all’interno del magazzino come farebbe un tapis roulant da aereoporto con le valigie dei passeggeri. La porta si richiuse immediatamente, senza fare il minimo rumore. In quel momento apparve Carlo, e il non aver potuto sbirciare dentro la porta fu solo un bene.

 

Quel giorno passò normalmente, come anche la notte, senza nessuna novità. Carlo non parlò con i suoi genitori, e loro pensarono che si sentisse offeso per la punizione. Carlo, invece, aveva già dimenticato il divieto di uscire ricevuto quella mattina, e la sola cosa che lo preoccupava era anche la sola cosa di cui non poteva parlare. Il giorno dopo, domenica, cercò di distrarsi e dato che i suoi genitori avevano lasciato cadere il coprifuoco, era uscito in bicicletta e si era visto con gli amici. Aveva giocato a pallone con loro, si era divertito, e il magazzino con la sua luce nera e affamata era stato lontano per un po’.

Fino a lunedì.

A volte le storie che sembrano senza sbocco, trovano una soluzione nel modo più inaspettato e forse meno plateale di tutti. E la nostra vicenda, cominciò il suo arco discendente dopo un pranzo come tanti altri. Carlo era tornato da scuola dove si era svolto un giorno assolutamente normale, aveva pranzato coi suoi genitori mangiando piatti normali mentre seguivano un telegiornale normale, pieno delle solite notizie normali. Ma se la cornice era normale, l’interno del quadro non lo era per niente.

Dopo pranzo la mamma si sistemò sul divano, e suo padre, accanto a lei, cominciò a leggere alcuni documenti per la banca dove lavorava. Prima che Carlo potesse uscire dal salotto, per andare a fare i compiti, in camera sua, la mamma lo richiamò.

“Carlo, fammi il piacere, prendimi il libro che sto leggendo. E’ in camera mia.”

“Quale?” chiese Carlo. La mamma gli disse il titolo. Carlo uscì dalla stanza e i due genitori udirono vagamente  i rumori del figlio che cercava qualcosa in camera da letto. Carlo apparve sulla soglia dopo un minuto, con un piede pronto a scattare verso la sua stanza. “Non c’è, ma’ ” disse.

“Come, non c’è?”

“Ci sono altri libri, ma non quello.”

La mamma restò un paio di secondi con lo sguardò che cercava di leggere qualcosa di invisibile nell’aria, infine alzò le spalle. “Mah, si vede che è rimasto ancora dentro qualche scatola. Sono nel magazzino, le ho già aperte tutte. Me lo vai a cercare, per favore?”

E Carlo, come sicuramente vi immaginate, rimase immobile. “Non so dov’è” fu tutto quello che riuscì a dire dopo troppi secondi, nei quali aveva faticato anche a deglutire la saliva, che adesso gli sembrava incredibilmente densa.

“E’ nel magazzino” rispose sua madre marcando il tono. “Sono rimasti solo due o tre pacchi, dev’essere per forza lì.”

Quella poteva essere, per Carlo,  l’occasione migliore per inventare una scusa (non ho la chiave! gli venne anche in testa) ma in quel momento la sua età non mentì. Prima una lacrima gli rigò una guancia, poi un torrente di esse gli bagnò il viso con una velocità impressionante. Carlo scoppiò a piangere, e tutto ciò che riuscì a dire fu: “Ho paura.”

Sia la mamma che il papà si alzarono e andarono verso di lui. Qualcuno di voi che legge, magari si starà aspettando una dolce scenetta familiare nella quale i genitori si inginocchiano all’altezza del figlio per circondarlo con un tiepido abbraccio consolatorio. Ma, probabilmente, avreste già dovuto capire che non sono  un tipo buonista e raccontare certe cose mi dà noia e non mi interessa. Il papà di Carlo si mise in piedi davanti al figlio in lacrime, e lì rimase a braccia conserte senza dire una parola. La mamma, invece, gli strattonò la spalla. Non gli fece male, ma non fu comunque un bel gesto.

“Cosa c’è, perchè piangi?” chiese, cercando prima di mantenere un tono calmo, poi quasi gridando.

“Carlo, adesso basta” intervenne il padre. “Non fare il bambino piccolo.”

Quei gesti e quelle frasi peggiorarono la situazione e servirono solo a fare uscire dalla bocca di Carlo una tempesta di parole. I genitori ne afferrarono la metà. “Hai paura del magazzino?” chiese la madre, come se stesse parlando con un figlio ritardato. Carlo, scosso dal pianto, annuì e la madre emise una specie di sbuffo, simile, però, anche a un ringhio feroce. Lo prese per un braccio e lo trascinò davanti alla porta del magazzino. “Entra lì dentro.”

Carlo guardò la madre e vide che i suoi occhi erano duri e quasi privi di affetto. Poi cercò lo sguardo del padre, e notò che erano più espressivi gli occhiali che portava.

“No, non voglio” rispose Carlo tra un singhiozzo e l’altro. “Dentro c’è…”

“Cosa c’è?” chiese la mamma.

Carlo rimase zitto.

“Lì dentro ci sono solo qualche scatola e qualche scopa, Carlo” disse il padre. “Ma che cosa ti succede?”

Carlo non disse niente. Sua madre gli si avvicinò di un passo. Suo padre pure. “Entra.”

Carlo si avvicinò alla porta del magazzino e questa cominciò a vibrare. Da sotto la porta brillò la luce nera. Carlo fece un passo indietro e si girò verso i suoi genitori. Non sembrarono accorgersi di niente e stavolta bastò solo il loro sguardo a costringerlo. Carlo aprì la porta del magazzino, girando il pomello rosso. Chiuse gli occhi, poi li riaprì.

E si perse per sempre dentro il buio.

 

E qui si conclude la storia. Non c’è molto altro da dire, niente di interessante. Volete sapere che fine ha fatto Carlo? E magari come hanno reagito i suoi genitori? Non ve lo dirò. L’ignoranza fa un effetto migliore, in questo tipo di storie. Vorrete anche sapere chi sono, e questa è una curiosità più forte, che non posso ignorare. Tuttavia non posso accontentarvi in modo completo. Il mio nome non ha poi tutta questa importanza, come si sente dire in decine di film. Ma posso darvi una piccola informazione sul mio domicilio, posso dirvi dove vivo e dove opero.

Vivo dentro il magazzino nero, immerso nella sua luce oscura.

E, finalmente, sono in compagnia.