di Danilo Arona

Non molto distante da Alessandria, lungo la strada che porta a Isola d’Asti e a Mombercelli, ci s’imbatte nel bel castello di Belveglio, posto sulla cima del colle che sovrasta il paese. Come quasi tutti gli altri castelli d’Italia, Piemonte incluso, la sua storia è collegata a una serie di truci quanto tipici avvenimenti, blandamente divulgati in un dimenticato libro del ’68, Italia a mezzanotte, di Giorgio Batini: un presunto tesoro di sette tonnellate d’oro celato nelle gallerie scavate sotto il secolare edificio, un assedio sanguinoso, un duca e una duchessa che si uccidono per non cadere in mano ai loro nemici, i fantasmi di due armigeri medioevali che compaiono in sogno a un uomo chiaramente sensitivo. Ma andiamo per ordine.

Il castello d’oggi, ennesimo rifacimento, è in realtà la restaurata cornice di un antichissimo fortilizio sovrastante una collina tufacea all’interno della quale è tutto un intersecarsi di gallerie e locali, adibiti agli usi più disparati (prigioni, vie di camminamento, depositi per viveri, sale di tortura). Come spesso capita, sin dai tempi più antichi, il maniero godette di fama lugubre e leggendaria. Si racconta che i popolani evitassero con cura di passare sotto il colle di Belveglio per timore d’incontrare le migliaia di fantasmi di tutti coloro che erano stati torturati, impiccati o lasciati morire di fame nelle segrete. Questo perché, ma lo si dice di tutti i castelli, si udivano lamenti e rumori strani, nonché si captavano apparizioni sinistre accompagnate dal consueto repertorio di luci e fiammelle vaganti. La storia del castello è peraltro ricca di episodi in tema.

Al sedicesimo secolo, infatti, risale l’evento che regalò alla magione il soprannome di “Malamorte”. Un arciere della guarnigione, bel pivello ma piuttosto spiantato, s’innamorò perdutamente di Eleonora, figlia del ricco e potente proprietario e riuscì, complice il suo indubitabile fascino, a farsi ricambiare appieno dalla giovane nobildonna. Comprendendo ambedue che mai avrebbero potuto coronare la loro storia alla luce del sole, decisero allora di fuggire dal castello e architettarono un piano con l’aiuto di altri commilitoni del ragazzo. I due, in una notte senza luna, si calarono con una fune dalle mura della fortezza. Ma il solito, sordido delatore aveva preavvertito il padre della ragazza che si fece trovare ai piedi del castello, circondato da una schiera di armigeri. Così Eleonora fu allontanata ed esiliata in un’altra regione, mentre i complici della fuga subito impiccati ed esposti ai torrioni. In quanto al focoso arciere, la sua sorte fu orribile perché scaraventato in un profondo sotterraneo e lasciato senz’acqua e cibo sino alla morte.

Un altro, significativo episodio in grado di “segnare” l’aura del castello di Belveglio fa riferimento alla brutalità di un militare spagnolo, Alonzo Arana, che per un certo periodo comandò una guarnigione di soldati di ventura, quelli che il Manzoni definiva “bravi” e che di solito erano tutt’altro che bravi. Un giorno Alonzo scorse una bella ragazza dei dintorni, sposa recente, e decise di puntimbianco di farla sua. Così, senza tanti complimenti, come si usava allora attraverso l’usanza dello ius primae noctis, fece rapire la bella dai suoi bravi e la fece depositare direttamente in camera da letto, opportunamente impacchettata come un salame. Quando il legittimo marito si presentò alla porta del castello per protestare la restituzione del maltolto, Alonzo intimò ai suoi sgherri di catturarlo e, davanti a lui, si esibì in tutte le prodezze amorose che riuscì a concepire sulla poveretta che giaceva incatenata al letto. Quindi impiccò il poveraccio a una trave. Dopo l’infame violenza, la ragazza venne gettata fuori del castello, ma, ormai del tutto priva di senno, iniziò a vagare inebetita per le campagne sotto l’occhio pietoso dei suoi compaesani. Ciononostante giunse il giorno del “redde rationem”. Un pomeriggio, infatti, la povera vittima incontrò casualmente in un bosco il feroce Alonzo e, unicamente sostenuta dalla forza della disperazione, lo aggredì per strangolarlo. Lo spagnolo sguainò un lungo pugnale per difendersi dalla furia della creatura cui aveva carpito la virtù e la ragione. Ma, nella colluttazione susseguente, sia la vittima sia l’aguzzino perirono nello stesso istante. Qualche anno dopo, in seguito a una parziale distruzione, il castello fu utilizzato soltanto come prigione e altri terribili episodi andarono ad arricchire il già notevole repertorio di orrori concreti e presunti quando non soprannaturali.

A Torino, la notte del 3 novembre 1953, un certo Carlo Barberis, personaggio in odor d’essere considerato un “settimino” per aver fatto nel corso della sua vita diagnosi spontanee e operato guarigioni su parenti e amici con la sola imposizione delle mani, ebbe un sogno premonitore. Un’esperienza per lui certamente non nuova.

“Sognai due armigeri in tenuta medioevale” raccontò il Barberis al giornalista Giorgio Batini. “Uno era piuttosto piccolo e grasso, mentre il suo compagno appariva più alto e più magro. Rivestivano armature medioevali, anzi ricordo che a quello più alto l’armatura andava piuttosto stretta e corta. A un certo punto costoro iniziarono a ripetermi con voce ferma e autoritaria, ‘Cerca il castello della Malamorte nel Monferrato’”. E, per evitare che il Barberis potesse sbagliare indirizzo, data la quantità d’antichi manieri in Piemonte, gli fecero pure da guida, sempre naturalmente in sogno, nella visita al castello di Belveglio. Infatti, all’onirico seguito della strana coppia, il Barberis visitò un turrito edificio che mai aveva visto in vita sua, transitando attraverso ampi saloni e lunghi corridoi. Gli armigeri, durante la visita, si comportarono da perfetti ciceroni, pur potendosi definire fantasmi a pieno titolo. Infatti gli comunicarono che in una certa zona dei sotterranei giacevano occultati diversi barili colmi di antiche monete preziose e altri oggetti auriferi accanto alle mummie di un principe e una principessa. Come supplemento finale, una visita accurata anche sulle mura esterne. Al punto che, al risveglio, il Barberis conosceva, di sopra e di sotto, di fuori e di dentro, un castello di cui aveva sempre ignorato l’esistenza.

Chiunque si sarebbe fatto una risata senza prendere sul serio il sogno. Il Barberis, avvezzo a esperienze similari, partì subito alla volta del Monferrato, trovò abbastanza rapidamente il paese di Belveglio e il suo castello e restò di stucco quando poté costatare a pochi metri di distanza che la costruzione risultava identica a quella vista in sogno. Le ciliegine sulla torta apparirono quando gli abitanti del paese lo informarono che da sempre quello era il “castello della Malamorte”, e quando scoprì ai piedi dell’edificio un cunicolo scavato nel tufo e protetto da un rugginoso cancello. Infatti, proprio da quell’apertura, le sue guide in armi lo avevano fatto uscire dalle segrete per fargli esplorare le parti esterne.

Due ore dopo il suo arrivo in Belveglio, il signor Barberis già stava trattando l’acquisto del castello con il nobile che ne era proprietario. Anche costui sapeva delle voci a proposito di un tesoro nascosto nei sotterranei, e cioè di un forziere che, secondo la leggenda, avrebbe dovuto contenere cinquantamila gioielli già appartenuti a Giacomo del Verme. Il nobile che adesso passava di mano aveva già espletato ogni tipo d’indagine, ma senza alcuna fortuna. Firmò l’atto di vendita, un po’ per stanchezza e un po’ perché travolto dall’entusiastica decisione del Barberis.

Il nuovo proprietario, una volta insediatosi, iniziò subito le ricerche, partendo dalla collina e dal terreno circostante. Non l’ambiente vero e proprio del castello, perché l’edificio è, come abbiamo già scritto, un rifacimento postumo che conserva poco o nulla dei precedenti fortilizi. Ma le sacche e le segrete sotterranee, laddove lo avevano condotto gli armigeri del sogno.

Barberis si servì di chiunque potesse essergli d’aiuto: rabdomanti, spiritisti, medium, radioestesisti, sminatori e artificieri. Vi fu, ad esempio, un rabdomante che indicò una zona abbastanza lontana dal castello, che Barberis acquistò per scoprire in seguito che il sensitivo era stato attirato in quel posto dalle “vibrazioni” di una pozza di metano e non da quelle del suo tesoro.

Dopo diversi tentativi tutti quanti a vuoto, Barberi fu informato da qualcuno che a Milano viveva un famoso specialista di ricerche, l’ingegner Alessandro Porro, che era riuscito a perfezionare in tanti anni di studio uno speciale apparecchio d’indagine spettroscopica da lui stesso impiegato con grande successo in ricerche minerarie e archeologiche. In provincia di Crema, ad esempio, per conto della Sovrintendenza alle antichità di Milano, l’ingegner Porro era riuscito a individuare e a descrivere una tomba dell’epoca longobarda, in seguito riportata alla luce.

Lo strumento del Porro, basato su un sistema di radio-onde proiettate nel sottosuolo, fu impiegato nella ricerca del fantomatico tesoro e ottenne risultati sbalorditivi, tali che l’ingegnere fu in grado di compilare una dettagliata mappa dei sotterranei del maniero, accertando la presenza di ciò che restava di due cadaveri – un uomo e una donna – adagiati in un sepolcro e, soprattutto, confermando che in una sala sotterranea si trovavano numerosi recipienti colmi di oggetti preziosi e di monete d’oro.

Come riportò il giornalista Giorgio Batini nel libro Italia a mezzanotte, all’esistenza di tanta ricchezza venne data una spiegazione storica, che la stampa nazionale di allora non si lasciò sfuggire: “Bisogna tornare indietro di secoli e fermarsi alla metà del XVI secolo, quando era in atto, con Carlo V e il futuro Filippo II, la dominazione spagnola del Ducato di Milano. In quel tempo il duca Carlo Maria Matteo Farnese, probabile figlio bastardo di Pier Luigi Farnese, duca di Parma e di Piacenza, e quindi nipote di papa Paolo III (che in gioventù aveva avuto non poche avventure galanti, con relativa figliolanza), era fuggito da Piacenza dopo che la congiura ordita da Ferrante Gonzaga aveva spodestato suo padre Pier Luigi e aveva dato la città in mano alle truppe spagnole. Il duca fuggiasco si era arroccato nel castello di Belveglio, insieme alla moglie Zeusa Ellenica, a un forte gruppo d’armati, e una considerevole fortuna in oro e gioielli, riuscendo a resistere vittoriosamente all’assedio degli spagnoli per lungo tempo”.“Il castello – continua il Batini – era praticamente imprendibile per la sua posizione, per le sue mura possenti, per i pozzi che garantivano l’acqua, per i camminamenti segreti che consentivano sortite e rifornimenti di viveri e anche per le virtù militari del Farnese. Nelle file degli avversari combatteva però la tenacia. Gli Spagnoli non se ne andarono mai. Sembra che assediassero Belveglio per ben tre anni. Alla fine, il duca Matteo Farnese comprese che era giunta l’ora di dover capitolare. Non concependo di darsi prigioniero, di far subire oltraggi alla moglie e meno che mai di consegnare il tesoro ai nemici, il duca preferì la morte. Discese nei sotterranei con la moglie, riunì intorno a sé tutte le ricchezze della famiglia, fece crollare le gallerie di accesso, e infine si avvelenò con la bellissima Zeusa Ellenica. Si dice che anche alcuni fedeli soldati della guarnigione si avvelenassero per seguire la stessa sorte dell’eroico capitano. Gli spagnoli presero dunque il castello, ma restarono con un palmo di naso. Dell’oro, degli zecchini, dei gioielli, del favoloso patrimonio dei Farnese, non trovarono alcuna traccia”.

Torniamo allora all’inizio degli anni Sessanta e alla caccia di Barberis. La stupefacente rivelazione consisteva nel fatto che la strumentazione di Porro aveva confermato in pieno quanto il  torinese aveva appreso in sogno da due fantasmi in armatura. E nella cripta segreta di Matteo Farnese, così asserì il Porro, i due sposi suicidi giacevano imbalsamati, tenendosi per mano all’interno di un sarcofago istoriato. Lui con una spada d’oro, un elmo da parata e anelli con diamanti e smeraldi, lei uno splendido diadema con rubini, collana di zaffiri, bracciali, anelli e orecchini in quantità. Poi, accanto al sarcofago, scrigni, mobili antichi, barili forse pieni d’oro e opere d’arte. Un tesoro all’apparenza inestimabile. Messosi perciò in contatto con la Sovrintendenza alle Antichità del Piemonte, Barberis ottenne nell’aprile del 1965 i permessi necessari e diede ordine che s’iniziassero i lavori di ricerca nel sottosuolo. Inizialmente si scavò una galleria e fu anche svuotato un profondo pozzo ricolmo di terra. In seguito i sondaggi furono più volte interrotti per infiltrazioni d’acqua e infine sospesi anche a causa di una vicenda giudiziaria sui diritti di proprietà degli eventuali beni celati nelle segrete. Da allora il silenzio è caduto sulla vicenda, e il castello di Belveglio è tornato all’attualità per essere divenuto, negli ultimi anni, al pari di tanti altri castelli piemontesi, il magnifico contenitore di eventi artistici e musicali.

Però si racconta di un inquietante prolungamento spiritico… Tra i vari tentativi messi in atto per giungere a un risultato concreto va segnalata la pratica medianica. Abbiamo già sottolineato come Carlo Barberis fosse all’epoca individuo assai noto a Torino per le sue spiccate versatilità parapsicologiche, espresse con il potere di effettuare diagnosi al solo contatto delle mani e con un magnetismo curativo, che oggi definiremmo tipico della pranoterapia, allora invece considerata oggetto quanto meno misterioso. Di sicuro la preveggenza del Barberis era stata clamorosamente confermata dal sogno che gli permise di entrare in possesso del castello di Belveglio. Ma, non potendo il nostro mettere concretamente le mani sul favoloso tesoro celato sotto tonnellate di terra nei sotterranei del maniero, allora l’uomo pensò di ricorrere all’aiuto del mondo invisibile. Non era stato forse per il messaggio onirico di due spettri che la sua vita era cambiata in modo tanto radicale?

Peraltro il Barberis pescava in un alveo che ancora oggi, a quasi sessant’anni di distanza, non cessa di mandarci segnali: la maggior parte dei castelli piemontesi hanno il loro bravo fantasma – molti più di uno – e le loro cupe storie di sangue, di sesso e di tragedia. Veri e propri noir medioevali, che ben meriterebbero una riduzione cinematografica. Da Camino a Piovera, dalla Riotta a Tagliolo, da Roppolo a Masino, le segnalazioni – certo più sussurri che grida perché in Piemonte si è dell’idea che i fantasmi possano far scappare i turisti, a differenza di quanto accade invece in Inghilterra – non mancano di certo.

Comunque pare accertato che il Barberis organizzò due sedute spiritiche, convinto com’era che nelle mura si aggirassero non soltanto gli armigeri del sogno, ma la coppia dei coniugi suicidi. A entrambe partecipò un numero dispari di persone, o tre o cinque, non c’è dato di saperlo con esattezza. Di sicuro, durante la prima, come si verificò l’aggancio” con l’entità, il gatto del castello – un simpatico e pacifico soriano grigio che avrebbe sicuramente preferito continuare a dormire sul divano piuttosto che restare coinvolto nel soprannaturale – fu visto dagli astanti letteralmente proiettato per aria, a qualche metro d’altezza, quindi sbatacchiato a destra e a sinistra contro tutte le pareti della stanza. Come gli astanti staccarono le mani dal rituale tavolino a tre gambe, il gatto lanciò un miagolio disperato e se la diede a zampe levate, non facendosi più vedere dal Barberis per diversi giorni. Nel secondo tentativo di contatto con l’aldilà, avvenuto una settimana più tardi all’incirca, la seduta si protrasse molto faticosamente per circa un’ora, tra spifferi gelidi sulle mani dei partecipanti e strani quanto inopportuni rumori provenienti da direzioni indecifrabili. Il tutto cessò di colpo, quando la pregiata sedia di legno antico sulla quale stava assiso il padrone di casa si sfasciò di colpo, quasi sgretolandosi e facendo precipitare rovinosamente sul pavimento il malcapitato Barberis.

Come commentò a suo tempo il giornalista Giorgio Batini, nella storia del tesoro di Belveglio si trova la conferma di come si sia sempre un “qualcosa” che contende, tenacemente, ai vivi, l’oro dei morti: “Noi uomini moderni non ricorriamo più alle formule magiche per convincere i custodi dei tesori a mollare il forziere sepolto. Magari preferiamo impiegare un rabdomante elettronico, ma il fenomeno dell’opposizione perdura nel nostro tempi. Ostacoli, sempre ostacoli: scariche di fulmini, ombre di frati, caproni, serpenti, apparizioni demoniache, e magari pure carta bollata e permessi burocratici”.