di Simone Scaffidi

P1110471 copiaValle de Viñales. Giornata faticosa e appagante. Colazione di Nanà: frittata, caffè, latte, pane, succo di goyaba, banana e ananas. Poi pronti via e si parte per la Cueva del Palmerito. Oggi decidiamo di prendercela con calma. Alcuni dicono che la Cueva sia vicina, soltanto un chilometro dal centro, altri dicono che i chilometri siano tre. In entrambi i casi, ci diciamo, fattibilissimo senza troppo sforzo. Alle undici e trenta siamo in cammino, il sole è alto nel cielo, le nuvole rade ma il vento è tiepido.

Sin dai primi metri capiamo che ci stiamo addentrando nella valle: capre, cavalli, maiali, mucche, tori sono i primi nostri incontri. Poi qualche campesinos: il primo alto e magro, con il viso scavato dal sole e le mani ruvide e callose. Con un sorriso ci invita ad entrare nel suo secadero. Ci sembra diverso dalle persone che abbiamo finora incontrato, più povero e disinteressato. La crisi perpetua che a Cuba dura da sempre, dall’indipendenza dalla Spagna, alla dipendenza dagli Stati Uniti fino alla Revolución ha forgiato un popolo dalle risorse e dalla cultura infinita ma anche veri e propri affaristi pronti a venderti qualsiasi cosa. Perché tu sei dollari che camminano. Tu hai ricchezze materiali che molti cubani non hanno mai, nella loro storia, neppure immaginato. Quest’uomo ci ispira davvero fiducia, forse è la campagna dopo la città, forse sono i suoi occhi che sembrano non tradirci. Sicuramente è il suo spalancare le braccia e le porte della sua casa senza chiederci nulla e non facendoci mai dubitare del suo volto rugoso segnato dal sole. Stringiamo le sue mani ruvide e proseguiamo il cammino. Già nostalgici del nostro primo incontro sulla via della Cueva del Palmerito. Ci consoliamo al pensiero di rincontrarlo al ritorno.

Il sole picchia sempre più forte, vari gringos a cavallo ci sorpassano lungo l’arida via terrosa accompagnati da guide locali. Hanno puros in bocca, cappelli da cowboy e zainetti colorati sulle spalle. La nostra meta sembra allontanarsi sempre più e il paesaggio aprirsi per noi. Attraversiamo campi di tabacco, caffè e mandioca. Incontriamo guajiros con secchi pieni di yucca ai quali domandiamo informazioni sulla gustosa radice e riceviamo delucidazioni sui frijoles negros tipici della regione – ma che a lungo andare stancano, parola di campesino – e sui frijoles colorados – indispensabili per variare un po’ la dieta. Un guajiro che sembra avere una trentina di anni ci viene incontro a cavallo, a pochi passi c’è il suo secadero, lo visitiamo. Tre maiali, all’ombra delle migliaia di foglie di tabacco essiccate dormono e respirano piano. Un recipiente rotondo e metallico accoglie i semi di caffè appena tostati. Una campesina robusta, sigaro in bocca e sorriso facile, ci invita a ripassare al ritorno se vogliamo comprare un po’ di caffè. La ragazza ci indica il cammino per la grotta. La cueva sta proprio sotto quella montagna coperta di palme. Non a caso si chiama Cueva del Palmerito. Sembra irraggiungibile. Siamo stanchi e demoralizzati, avanziamo l’ipotesi che in realtà questa cueva che noi immaginiamo come una piscina naturale a pochi passi dal fiume, non sia nulla più che una pozza d’acqua insignificante. Tanto cammino sotto il sole cocente per una pozza d’acqua, ci ripetiamo.

P1110480L’ultima prova prima della vittoria è camminare in bilico su una trave ferrosa larga massimo trenta centimetri. Così facendo possiamo approdare all’altro lato del ruscelletto semi secco che scorre a fatica sotto di noi. I piedi l’uno di fronte all’altro e le mani su un fil di ferro e in un batter d’occhio siamo alla grotta. Un uomo seduto all’ingresso, berretto di paglia e folti baffi, ci saluta. Ha un sorriso profondo solcato da cinquanta o sessant’anni di contrazioni. Senza una guida e una torcia nella grotta non si può entrare perché è molto profonda e non ha aperture. Dopo pochi metri è completamente buia. Procediamo incerti insieme a lui, poi interrompiamo i passi. Ci rassicura, gli occhi devono abituarsi all’oscurità. Non c’è nulla da temere. Solo attenti a non inciampare. Fa una certa impressione addentrarsi nel buio totale e infatti procediamo a tastoni tenendoci per mano. Poi l’uomo dai folti baffi accende la torcia e ne porge una anche a noi. Ricominciamo il passo più sicuri. Dopo duecentocinquanta metri nel cuore della montagna arriviamo a una piscina naturale formatasi grazie alle infiltrazioni dell’acqua piovana nella montagna. Ci assicura che nella pozza non c’è nessun animale e che è totalmente sicuro immergersi e nuotare. Il passo è cauto ma la voglia di entrare nell’acqua è grande. Stiamo attenti a non scivolare. Siamo circondati da stalattiti e stalagmiti, oltre che da gocciolii costanti. L’atmosfera è surreale, rimaniamo a bocca aperta. Ci siamo infilati in un’arteria buia e spigolosa della montagna per duecentocinquanta metri per arrivare a una calmissima piscina naturale scavata dal lavorio e dalle infiltrazioni dell’acqua nella montagna.

Con una pozza d’acqua illuminata solo dalla luce di una torcia, sotto una montagna coperta di palme, circondata da stalattiti e stalagmiti bisogna prendere un po’ di confidenza. Addomesticarsi. Ci prendiamo il nostro tempo e finalmente ci immergiamo nell’acqua fresca scuotendo il silenzio che ci circonda. Il nostro traghettatore illumina lo specchio d’acqua dolce. È una sensazione incredibile. Sulle nostre teste pendono aghi e protuberanze di roccia. È un bellissimo cielo il nostro. Chi se l’aspettava una cosa del genere? I chilometri sotto il sole cocente sono stati di più del previsto, però ampiamente ripagati.

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Ma non è finita. Usciti dall’acqua la nostra guida si prepara a farci vivere un’esperienza mistica. Ci chiede di spegnere la torcia e poi spegne anche la sua, dopodiché non dice una parola e noi facciamo lo stesso. Rimaniamo in silenzio nel buio più assoluto. Non ci sono parole per descrivere il frastuono dell’amplesso tra oscurità e silenzio. Gli occhi si perdono in radicali sinestesie intervallate da flebili gocciolii. Stiamo vivendo qualcosa che non ci era mai capitato prima, straordinario ed extrasensoriale. Sul cammino del ritorno chiediamo al nostro amico con baffi e cappello se possiamo rifarlo con lo stesso tono con cui avremmo chiesto a uno sciamano messicano di ripetere il rito del peyote. Sorride e acconsente. Lo ringraziamo e ci congediamo, dicendogli di lottare affinché questo luogo non diventi facile merce turistica e perda tutta la sua aura magica. Lui è d’accordo con noi, vuole che rimanga così, come quando veniva con suo nonno da bambino a bagnarsi qui. Senza luci artificiali, senza biglietto d’ingresso, senza istituzioni.

Sulla strada del ritorno, rigenerati dalla Cueva del Palmerito, ci fermiamo al secadero della ragazza robusta col sigaro in bocca e l’uomo a cavallo senza maglietta. Compriamo caffè e sigari a un prezzo che riteniamo giusto. La ragazza sembra averci preso in simpatia e in spagnolo ci fa notare che i due gringos a pochi metri da noi – sembrano nordeuropei – sono arrivati fin lì con una guida e una buona dose d’ingenuità: per questo pagheranno cari i loro sigari. Vendono loro tre sigari alla modica cifra di 40 CUC, uno sproposito per i prezzi locali, il prezzo lievita anche in virtù del fatto che una quota del ricavato andrà alla guida. In sostanza stanno inculando i due gringos affianco a noi che però sembrano ugualmente felici. A noi mette quattordici sigari, accuratamente involti in foglia di palma per 10 CUC, offrendocene uno da gustare lungo il cammino.

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Il ritorno verso casa è devastante, partiamo sicuri e sollevati con il sigaro fra i denti. Fumiamo tra foglie ancora verdi di tabacco e mogotes ricolmi di vegetazione. È quello che desideravo, godermi le campagne di Viñales con un sigaro in bocca, incontrare guajiros lungo il cammino e farmi raccontare qualche storia. Solo che avevo sottovalutato l’effetto che il sigaro poteva avere su di me sotto questo sole potentissimo. Il risultato è un’insolazione di cui porto i segni sul collo e un mix di mal di testa e mal di pancia che mi fa barcollare e quasi mi offusca la vista. Lungo il cammino ci sediamo qualche minuto per riprenderci, poi rotoliamo verso casa e ci sdraiamo sul letto devastati. Cinque ore sotto il sole, terra rossa sotto i piedi, mogotes tutti intorno e guajiros di tutte le generazioni. Le campagne di Viñales ci stanno piacendo un bel po’, comprese le esperienze mistiche nelle grotte e quelle indotte dalle “botte” di sigaro e sole.

La cena arriva puntualissima alle sette di sera. Nanà ripete le prodezze culinarie del giorno prima arricchendole con yucca bollita e banana fritta, soddisfacendo per metà la mia eterna voglia di patacones costaricensi. Dopo cena l’aria fresca di Viñales ci trascina per il centro per una piacevole passeggiata rigenerativa. Poi torniamo alle nostre ferrose sedie a dondolo, anche questa sera ci mancano i cerini per finire il mozzicone di sigaro iniziato ieri. Domando un fiammifero ai vicini di fronte che con grande gentilezza insistono perché prenda l’intera scatolina, rifiutiamo ma poi cediamo. Sorrisi, ringraziamenti e cenni da una parte all’altra della strada terrosa. I cerini cubani sono strani, il fosforo abbraccia non un rigido pezzetto di legno ma un fascio di filamenti che sezionati e smembrati paiono di semplice carta.

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