di Mauro Baldrati

RielliDaniele Rielli, Lascia stare la Gallina, Bompiani, Milano 2015, pp 641 € 20

Forse è uno dei testi più politicamente – felicemente – scorretti pubblicati negli ultimi anni. Sarà che si cala, con una sorta di voracità chimica, nella mentalità volgare e aggressiva dei suoi personaggi, con un linguaggio adeguato, sprezzante, razzista, tanto che all’inizio persino il lettore normodotato – quello che si “cucca” storie nere di terroristi sterminatori, serial killer, zombies cannibali che minacciano la specie – prova l’impulso di abbandonare la lettura. Per alcuni può essere difficile reggere quella supponenza, priva di ogni traccia di riscatto, per quanto impossibile o fallimentare.

Per dire, in quest’epoca così attenta ai diritti civili, sensibile al rispetto dei diversi e delle minoranze, trovare che Nicki Vendola (all’epoca della vicenda – agosto 2011 – presidente della Regione Puglia) è “la checca comunista” crea alcune difficoltà. Oppure, tanto per non farsi mancar nulla, nell’era della difesa della donna e della sua immagine, scoprire che i personaggi femminili si dividono in due sole categorie: scopabili e non scopabili (anche se, soggiunge il protagonista in uno slancio di generosità, alcune di quelle non scopabili “sono scopabili lo stesso”), fa trasecolare. O sorridere, quando fa capolino la bestiaccia che, dormiente nel coma farmacologico dei sentimenti positivi, si agita dentro di noi.

“Ma vaffa’…” sbotta il lettore normodotato, “sta’ al tuo posto, mi hai rotto!”
Infatti è singolare il fenomeno – uno dei tanti inspiegabili della scrittura letteraria – di questa identificazione repellente, per cui il narratore non sembra nascondersi dietro il personaggio, con quella dose impalpabile di mimetismo che, senza che ce rendiamo conto, lo stacca da noi, lo rende “altro”, salvando così la nostra identità di buoni; no, qui siamo dentro, siamo lui, il narratore-narratore diventato personaggio, e ci ribelliamo di fronte a questa tracotanza, questo cinismo che ci offende, e subdolamente ci seduce.

Per cui consigliamo di tenere duro e di andare avanti, che tutto si chiarirà per i motivi che cercheremo di spiegare tra poco.
Prima parliamo un po’ dei personaggi principali.
Il n.1 è Salvatore “Totò” Petrachi, ex commissario di polizia corrotto, assassino, magnaccia, trafficante di droga e aspirante massone. Prospera con mille traffici, socio in un ristorante in Salento con l’amico d’infanzia Adamo Greco, copertura di ogni illegalità e di una organizzazione di escort. E’ indifferente alla politica, tanto per lui sono tutti ladri, idioti, pagliacci da fiera, ma aspira sopra ogni altra cosa a entrare nel giro che conta, che ruota intorno al partito del “presidente del consiglio” (chi era il presidente del consiglio nell’agosto 2011?), il ricettacolo di tutti gli affari loschi.

Petrachi, che dopo essere stato radiato dalla polizia (per una guerra perduta tra poliziotti delinquenti) gestisce un’agenzia di “gorilla”, cioè guardie del corpo e buttafuori, riceve l’incarico di indagare sull’omicidio di una ragazza da un avvocato mafioso. Non certo per una questione di giustizia, concetto sconosciuto nel mondo di Petrachi, ma perché è accusato il figlio di un notabile “te lu nord” (interessanti gli inserimenti del dialetto salentino, spesso con traduzione). Inizia così un viaggio, che possiamo definire allucinante, nel sottobosco del piccolo crimine del Salento, che strappa risate, incredulità, indignazione. E un senso diffuso di afasia, visto che non si respira mai un soffio di aria fresca, ma tutto è velenoso, fetente, come in certi romanzi di Ellroy, dove la corruzione infetta ogni cellula e il bene non esiste. Ma qui i registri sono diversi, manca quella cupezza che è anche una forma di rassicurazione (il male è dipinto con le sue tinte fosche), perché regna la vivacità, e la banalità autoreferenziale del maligno.

E veniamo all’impulso di abbandonare la lettura, come forma di difesa verso l’esibizionismo della violenza diventata senso comune. A un certo punto si stacca la spina dell’empatia disturbante, e ci si rende conto che l’autore, con straordinario virtuosismo, si è calato nei personaggi come le creature di Supernatural quando si impadroniscono delle vittime. E la possessione non riguarda solo Petrachi. I personaggi sono vari, ognuno con la sua lingua e il suo stile. Abbiamo gli scoppiati, i tossici, gli idealisti, un circo affollato di buffoni e di belve, di pagliacci e di illusionisti. Allora si riprende con la giusta marcia, e si ride, ci si stupisce, si prova rabbia e disgusto.

Lascia stare la gallina parte da un omicidio, e quindi potremmo definirlo un noir; in realtà il noir è nel “nero” di questa sub-umanità “fore te capu” che non si concede mai un dubbio, né una speranza di riscatto. Regna indisturbata la trivialità, ma la narrazione rispetta uno degli enunciati di Flaubert: nulla è triviale purché sia esatto. E l’esattezza viene rispettata anche quando l’autore, rientrando nel suo ruolo, scava nel passato di Petrachi e del suo socio Greco, trovando perdute innocenze e sensibilità, presto infettate dalla lebbra di quell’egoismo che non ammette deroghe.

Alcuni flash back sono qua e là troppo lunghi, troppo dettagliati, e appesantiscono la lettura, ma sono difetti perdonabili mentre marciamo a tappe forzate verso un finale per nulla rassicurante, per nulla “aperto”, col male che festeggia in una marcia trionfale di corruzione e di cinismo. I rarissimi personaggi che conservavano un barlume di etica sono già stati assassinati senza pietà, così il coperchio cala sul sarcofago della defunta umanità e di ogni possibile speranza.

[Frasi cult: “Questo o becca un sacco di fica o è un culorotto.”
“Un autentico proletario che non ha mai letto Pasolini e le sue tirate frocie pro divise che spaccavano crani ma in maniera popolare.”
“Cu li cunvincu pozzu sempre dire ca ‘na fiata hai accultellatu nu cristianu cu difendi ‘na gaddhrina.”]