Copertina1Marilù Oliva, Questo libro non esiste, Elliot Edizioni, 2016, pp.192, € 16

È da poco in libreria l’ottavo romanzo di Marilù Oliva, il terzo (e conclusivo) della saga sul tempo cominciata con Le Sultane (2014) e proseguita con Lo Zoo (2015). Narrato in prima persona da Mathias, un aspirante scrittore che ha perso il suo manoscritto, il libro è giocato sul triplo registro del presente – ovvero la narrazione della spasmodica ricerca del libro perduto -, del passato – attraverso i flashback dai quali emerge come secondo protagonista un nonno despota – e del futuro – ovvero lo spazio, che in realtà diviene metafora di un tempo circolare che, piegandosi su stesso, cela l’eterno. Ma questo romanzo è anche un noir, perché Mathias deve vedersela con un omicidio in cui viene coinvolto, essendo stato l’ultima persona a incontrare la vittima.
E poi c’è l’impresa titanica della costruzione della macchina del tempo: le quattro parti in cui è diviso il romanzo costituiscono i dispositivi necessari alla sua realizzazione e non mancano le istruzioni per i coraggiosi che volessero cimentarsi. Con uno sguardo disincantato sul nostro sistema editoriale, non sempre limpidissimo, descritto nei suoi splendori ma soprattutto nei suoi baratri, Marilù Oliva si diverte a tuffarsi nel tempo astrofisico, attraverso continui rimandi ai corpi astrali, come anticipa la copertina.
Vi proponiamo un brano in cui Mathias tenta di spiegare quanto sia pervasiva la sua ossessione per il tempo.

***

La smania avanza inesorabile, la sento implacabile come la sentiva il nonno quando urlava alle pareti che voleva una soluzione. Perché mio nonno non si rassegnava, voleva acchiappare il tempo. Una volta, eravamo soli, vagava avanti e indietro per le stanze, aveva trascorso le ultime notti leggendo i libri di un ciarlatano che parlava di mondi comunicanti, elettromagnetismo e modalità strambe per controllare l’intero geosistema. Quel giorno toccò i muri, il nonno, li misurò col suo vecchio metro, alzò il naso al soffitto, di colpo si fermò davanti a me e mi disse: «Bisogna tornare indietro. Sai quante cose potrei fare? Quel giorno, alla stazione di Bologna, potrei andare in sala d’attesa e bloccare quei due disgraziati con la valigia piena di tritolo… E gli anni dello stragismo, Piazza della Loggia, Piazza Fontana, avviserei chi di dovere, al diavolo se c’è lo zampino dei servizi segreti: metterei sottosopra la stampa di tutto il mondo. Ma questo è niente: se tornassi indietro di tanto, tanto tempo, potrei conoscere Giulio Cesare, Carlo Magno… viaggiare con Colombo, potrei finire in Europa, vivere alle corti dei grandi re e consigliarli sulle loro mosse politiche, certo questo renderebbe il mondo migliore. E poi potrei… mi ascolti?».
«Certo!» sobbalzai. La paura di sbagliare risposta mi si annidava in bocca ogni volta che mi rivolgeva un’interrogazione.
«Potrei indirizzarmi al primo Novecento e sopprimere tutti i dittatori quando sono ancora inoffensivi… Poi tornerei qui, per essere acclamato».
Lo guardavo come un tifoso di calcio guarderebbe il suo idolo. Non facevo caso ai suoi controsensi, ai suoi slanci di onnipotenza, alle sue pecche, all’impreparazione che tamponava con libri improbabili di magia e pseudofantascienza.
Capite, vero, come ci si sente schiacciati quando si pensa al tempo? Mistificare l’attimo che si dilegua, ritornare allo stesso punto come un cane che si morde la coda. Quanti giorni sprecati, quante ore che scorrono sornione via dalle dita e noi ci ripetiamo che no, non è possibile che siamo sempre qui, ogni sera dopo la sera prima, chiusi gli occhi, ad accorgerci che è già filato via un giorno e noi cambiamo, anche impercettibilmente, mentre il tempo incede come se fosse solo una giostra che, con un sempiterno girotondo, ci stermina dolcemente.
Mio nonno era un autodidatta che aveva costruito la sua scienza profana accogliendo anche le teorie più fantastiche, lettore vorace le notti, mentre, di giorno, lavorava come netturbino nell’azienda urbana presso la quale sarebbe diventato responsabile di quartiere – vale a dire che decideva quali strade i camioncini dei rifiuti avrebbero spazzato e a quali ore. Non si arrendeva, voleva comprendere il tempo, voleva farselo amico. Quel presuntuoso voleva superare Einstein, il cui limite, stando alle aritmetiche del nonno, risiedeva proprio nell’acume scientifico: «Einstein era un grande studioso. Tedesco, eh. Il più fantastico uomo che abbia calpestato il suolo europeo ce l’ha regalato la Germania. Rispetto ai cervelloni che lo avevano preceduto ha fatto un salto qualitativo: ha accostato tempo e spazio, sostenendo che s’influenzano reciprocamente.
Però Einstein non ha mai preso in considerazione il fatto che il tempo possa ridursi a un concetto puramente astratto, eppure reale. Una cosa che non sussiste ma si percepisce, al di là del linguaggio. Vedi la forza della parola? Non c’è, non la tocchi. Ma nel momento in cui la pronunci, già esiste».

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