di Walter Catalano

VolontèBuoni, brutti e cattivi.

Durante e subito dopo la trilogia leoniana, lo spaghetti western ha il suo culmine di gloria per incassi ai botteghini e per numero e qualità di film prodotti. Perfino gli americani cominciano a riconoscerne il valore e l’autonomia creativa: grandi registi yankee come Sam Peckinpah con Sierra Charriba (1965), Il Mucchio selvaggio (1969) e più tardi con Pat Garrett & Billy the Kid (1973) o, in chiave noir moderna, Voglio la testa di Garcia (1974), o lo stesso Clint Eastwood, tornato in patria ormai famosissimo e arricchito dell’esperienza, riportano a casa la lezione imparata in Europa: così anche Sergio Leone può finalmente coronare il suo sogno americano con l’epopea di C’era una volta il West (1968), che, con una sceneggiatura emblematicamente scritta da Bernardo Bertolucci e da Dario Argento – due futuri maestri l’uno del cinema d’autore, l’altro di quello di genere – in qualche modo conclude la fase eroica del western all’italiana – o forse del sottogenere in quanto tale – reinnestandolo nel ramo principale della tradizione western tout court, per quanto resa più consapevole ed estesa.

Dopo i successi internazionali di Per qualche dollaro in più (1965) e di Il buono, il brutto e il cattivo (1966), può accadere che attori ormai dimenticati tornino ad essere star e icone di prima grandezza, come il grandissimo e beneamato Lee Van Cleef che, passato attraverso tutto il western classico in ruoli secondari: da Mezzogiorno di fuoco di Fred Zinnemann a Sfida all’OK corral di John Sturges, dopo le due performances capolavoro leoniane del Colonnello Douglas Mortimer e di Sentenza, si ritrova protagonista in una lunga serie di ottimi titoli, dal seminale La resa dei conti (1967) del sommo Sergio Sollima, al notevolissimo Da uomo a uomo  (1967) dell’altrettanto bravo Giulio Petroni – film che Tarantino chiama in causa tra i dieci ispiratori di Kill Bill – da Il grande duello (1972) di Giancarlo Santi, già aiuto di Sergio Leone che avrebbe dovuto girare Giù la testa, fino al divertito e picaresco ciclo di Sabata, Ehi amico…c’è Sabata. Hai chiuso! (1969) e È tornato Sabata… hai chiuso un’altra volta! (1971) di Gianfranco Parolini. Oppure che nomi consolidati del cinema “colto” si avventurino nel presunto cinema di “serie B” individuandone le alte potenzialità politiche, estetiche e stilistiche: coglie bene questo spirito anche Federico Fellini che nel suo episodio horror del tripartito omaggio a Edgar Allan Poe, Tre passi nel delirio (1969) di Vadim, Malle, Fellini, vede il Toby Dammit/Terence Stamp che scommette la testa col diavolo (perdendola), come un attore internazionale chiamato a Roma per interpretare l’eroe cow-boy/Cristo in un western cattolico prodotto dal Vaticano: il film prevedeva anche una lunga sequenza western, purtroppo soppressa in fase di montaggio.

Dall’altra parrocchia, quella marxista, proviene invece l’esempio più atipico di questa tendenza dello spaghetti-colto: Requiescant (1966) di Sergio Lizzani, film rivoluzionario ma non abbastanza messicano da rientrare nei tortilla-western come il Quien Sabe ? (1966) di Damiano Damiani, di cui parleremo in seguito. Un regista “serio”, Sergio Lizzani – che aveva già girato un western senza troppa convinzione, Un fiume di dollari (1966), sotto il fantasioso pseudonimo di Lee W. Beaver – un protagonista, Lou Castel, icona del giovane ribelle sessantottino e del militante extraparlamentare, lanciato dal Marco Bellocchio de I pugni in tasca (1965); addirittura un ruolo di co-protagonista affidato a Pier Paolo Pasolini che si porta dietro i suoi fidi Ninetto Davoli e Sergio Citti. Una specie di Accattone nel far West. Il risultato è spiazzante e curioso. Pasolini non vorrà essere pagato in denaro: si accontenterà di una Ferrari in regalo, l’esatto esaudirsi dell’ideale pauperistico proclamato dal personaggio del santone rivoluzionario Don Juan che interpreta nel film!

Requiescant è un ex-orfanello cresciuto da un pastore protestante che, divenuto un pistolero, è uso – secondo gli insegnamenti del pio patrigno – impartire l’assoluzione alle vittime dei suoi infallibili tiri con un “Requiescant !” che gli è valso il soprannome. Giunto nella corrotta cittadina dove il despota Ferguson detiene l’autorità assoluta, lo riconoscerà come l’autore della strage che lo ha reso orfano e, con l’aiuto di Don Juan/Pasolini, il facondo predicatore messicano che gli farà scoprire i valori della rivoluzione, otterrà la propria vendetta personale e la liberazione di tutto il paese uccidendo il tiranno.

Altro western d’autore è I lunghi giorni della vendetta (1966) di Florestano Vancini (firmato ufficialmente sotto lo pseudonimo di Stan Vance), di nuovo con Giuliano Gemma, che il regista “colto” girò solo per rifarsi dal flop de Le stagioni del nostro amore, film serio ma andato malissimo. Opera puramente alimentare dunque e decisamente non ispirata: soggetto poco originale che ricalca in chiave western Il conte di Montecristo di Dumas, in cui un Gemma, come sempre scanzonato, mal si accorda con i toni cupi, dark, quasi gotici di una storia di vendette. Vancini comunque resta sempre Vancini e il film, almeno tecnicamente, funziona. Da segnalare l’interpretazione, unica del genere, del grande attore spagnolo Francisco Rabal, qui nel ruolo di un curioso sceriffo che usa la propria stella come lo shuriken di un guerriero ninja. Il film all’epoca non piacque e fu maltrattato dalla critica, così Vancini non ritentò mai più l’esperienza.

Non ancora autore porcaccione per antonomasia, anche un giovane Tinto Brass diresse un unico, delirante western: Yankee (1966), con Philippe Leroy e Adolfo Celi, avvalendosi delle musiche del trombettista Nini Rosso e dei dialoghi scritti da un grande irregolare della letteratura, Giancarlo Fusco. Sorta di corrida fra un bandito messicano Concho/Celi e un pistolero Yankee/Leroy, il film fu sottratto all’autore, che lo aveva girato ispirandosi ai fumetti, dai produttori insoddisfatti che lo rimontarono a modo loro eliminando o riducendo qualche scena, ancora troppo audace per i tempi, di nudo e di tortura: Brass ritirerà la firma e lo disconoscerà, resta comunque un esperimento curioso e interessante.

Altrettanto particolare ma molto più estremo è Se sei vivo spara (1967) del misconosciuto ma geniale Giulio Questi, autore di almeno un altro capolavoro dimenticato, il weird, La morte ha fatto l’uovo (1968). Western assolutamente pop e avanguardistico di una violenza inaudita anche per un genere in cui normalmente la violenza è l’ingrediente principale: un indiano scotennato, un uomo scuoiato per poter recuperare una pallottola d’oro con cui è stato colpito, cavalli sventrati da una bomba, primi piani su impiccati con la lingua di fuori nel momento in cui la corda spezza loro il collo, uno stupro omosessuale di gruppo, il protagonista che riemerge all’inizio del film più morto che vivo da una fossa comune piena di cadaveri (scena rielaborata da Tarantino in Kill Bill 2), non stupiscono quindi né il “rigorosamente vietato ai minori di 18 anni” con cui uscì all’epoca, né i tagli imposti dalla censura (ripristinati interamente nella consigliatissima edizione Director’s Cut del 2004 in dvd); stupisce invece la fortuna critica, perfino da parte cattolica, che già allora lo ricondusse a Poe e al surrealismo riconoscendolo giustamente come uno degli esempi più originali e moderni di western italiano. Il film, sebbene formalmente innovativo, non è ancora abbastanza politicizzato da rientrare nella categoria degli western rivoluzionari, ma già parte da una premessa significativa: in un gruppo misto di banditi yankee e messicani che ha compiuto una rapina insieme, gli yankee sterminano subito dopo i messicani per non dover spartire con loro: herrenvolk contro untermensch; non a caso Questi dichiarò che la metafora western ripercorreva idealmente la sua tragica esperienza di giovane partigiano prigioniero dei nazifascisti. Vi si consolida, nel ruolo principale, che gli resterà appiccicato addosso, del bandido messicano simpatico e positivo nonostante tutto, il carisma di un altro divo proveniente dal colto cinema d’autore e destinato a grandi cose anche in quello di genere, western, poliziottesco e commedia: l’indimenticabile Tomàs Milian.

Attore cubano d’immensa versatilità, capace di recitare, oltre che nello spagnolo nativo, in un inglese perfetto e di doppiarsi – in caso di bisogno – in un italiano quasi impeccabile, Milian, scoperto da Mauro Bolognini e dopo aver lavorato con tutti i maggiori registi dell’epoca – Visconti, Brusati, Maselli, Loy, Lattuada, Vancini, Pasolini, Zurlini, (e, in seguito, Bertolucci, Antonioni, Chabrol, Damiani, ecc.) – passa, un po’ per ripicca un po’ per soldi, al cinema popolare: prima con Sollima (di cui diventerà star fissa nella prodigiosa trilogia tortilla-western di cui parleremo tra poco) e subito dopo con Questi. In breve il suo volto eclisserà nella nostra memoria quello di tutti gli altri eroi-canaglie del western (e non solo), eccettuato, forse, Eastwood.

Vamos a matar, compañeros!

“Ce n’est qu’un début continuons le combat!” era uno degli slogan più in voga nel maggio ’68: espressione non tanto politica quanto, anche e soprattutto, poetica e avventurosa del clima ideologico di una stagione che non poteva non attraversare e segnare profondamente il cinema contemporaneo, western compreso. L’attenzione particolare che lo spaghetti western aveva da sempre riservato per i personaggi messicani, banditi o peones, vittime o carnefici, si fa negli anni a ridosso di quella fatidica data, ancora più esclusiva e il baricentro dell’azione avventurosa si sposta verso sud: non più gli USA ma il Messico e la sua rivoluzione. Il West diventa una perfetta metafora politica: nasce il tortilla-western.

Il primo e probabilmente il migliore esempio del sottogenere è costituito dal Quien sabe? (1966) di Damiano Damiani, anche se l’autore ha sempre sdegnosamente smentito che il suo film sia apparentabile allo spaghetti western e che si tratti invece di un’opera storica sulla Rivoluzione messicana. In realtà non solo il film contiene tutti i topoi, gli stilemi e perfino gli attori eponimi della maniera caratteristica ma rappresenta il perfetto anello di congiunzione con quanto sarà realizzato dopo. Probabilmente uno dei film migliori in assoluto di Damiani, Quien sabe ? si avvale della sceneggiatura di Franco Solinas, autore marxista anche troppo ideologizzato che aveva già scritto La battaglia di Algeri (1966) e che ne avrebbe ripreso gli argomenti in Queimada (1969), entrambi per Gillo Pontecorvo: la dialettica civilizzazione/barbarie (presunta), il tema conduttore pressoché unico dello scrittore sardo, però funziona assai meglio nel contesto avventuroso e picaresco del western che in quello “serio” e serioso pontecorviano, dove rischia di arenarsi in schematismi eccessivi e oltremodo datati: Quien sabe? è invecchiato molto meglio di Queimada e – sia detto senza scandalizzare nessuno – si conferma un film molto più riuscito.

Damiani si gioca tutti gli assi dello spaghetti western: con un Gian Maria Volontè, reduce dai leoniani Ramòn e El Indio, ancora brutale e istintivo messicano, El Chuncho; Klaus Kinsky, ormai consacrato mattatore, ispirato monaco bombarolo, El Santo; Lou Castel, appena riciclato dal Requiescant di Lizzani, non più eroe del popolo ma sicario yankee sotto mentite spoglie, Bill Tate detto Niño. Tate, che lavora segretamente per il governo messicano, si infiltra, con lo scopo di uccidere il generale ribelle Elìas, nei ranghi di una banda di desperados fiancheggiatori dei rivoluzionari, guidata da El Chuncho insieme al fratello El Santo, stralunato monaco guerrillero; El Chuncho e Tate si salveranno reciprocamente la vita e l’americano, una volta compiuta la missione, ricompenserà El Chuncho rendendolo ricco con una parte della taglia e invitandolo con sé negli Stati Uniti; proprio sulla porta del vagone ferroviario diretto negli USA, El Chuncho cambia idea – per la prima volta consapevole del suo ruolo condannato alla subalternità – estrae la pistola e uccide a sangue freddo l’amico yankee che, esterrefatto, gliene chiede ragione: “Quien sabe”, risponde El Chuncho; poi abbandona di corsa il treno in partenza gettando il denaro che lo yankee gli aveva donato ad un mendicante con la celeberrima frase “No te compres pan, hombre ! Comprate dinamite !”.

Dopo questo grande film che indica una direzione ben precisa, il filone viene ripreso altrettanto felicemente da Sergio Sollima, regista di non comune efficacia e raffinatezza, che raggiungerà il culmine della fama qualche anno dopo con il fortunatissimo Sandokan televisivo. Sollima realizzerà una trilogia “terzomondista” il cui protagonista sarà Tomàs Milian – nei panni del peon Manuèl “Cuchillo” Sanchez – a cui il regista darà il battesimo di fuoco nel cinema d’azione. La resa dei conti (1966) è il primo capitolo della trilogia e il primo ruolo messicano e sottoproletario di Milian: basato su un soggetto ancora di Franco Solinas che in origine si ambientava in Sardegna e vedeva veristicamente contrapporsi un carabiniere e un brigante. Al Milian/Cuchillo, vero prototipo di tutti i ruoli di antieroi buffoneschi ma con una loro profonda dignità e coerenza plebea che arriverà fino al Monnezza degli anni ’70, si oppone un glaciale e umanissimo Lee Van Cleef, bounty-killer al suo ultimo lavoro sporco prima di riciclarsi borghesemente in politica, che dopo aver cacciato senza successo il povero peon, accusato ingiustamente di stupro per tutto il film, saprà, una volta compresa la sua innocenza, passare dalla sua parte e difenderlo nell’incandescente finale. Probabilmente uno dei migliori spaghetti western in assoluto e una delle migliori interpretazioni di Van Cleef dopo quelle leoniane.

Il secondo episodio della trilogia, Faccia a faccia (1967), è il meno messicano anche se forse il più politico: infatti perfino Milian ha un nome yankee, Solomon Beauregard Bennet; il partner è uno straordinario Gian Maria Volontè, Brad Fletcher, e vi figura un altro veterano del cinema d’azione, William Berger. Brad Fletcher/Volontè, un pacifico professore ammalato di tubercolosi si trasferisce al sole del Texas per curarsi. Nella locanda che lo ospita si ferma la diligenza che sta trasportando in carcere Solomon Bennet, detto Beauregard/Milian, ex componente dell’ormai disperso e decimato “Mucchio selvaggio”. Mentre Brad cura il bandito ferito, questi lo prende in ostaggio e fugge via. In seguito l’ex insegnante cerca in tutti modi di redimere il fuorilegge, ma Beauregard vuole resuscitare il “Mucchio selvaggio” sollecitato anche da un nuovo arrivato, Charlie Siringo/William Berger, un agente speciale dell’agenzia Pinkerton incaricato di infiltrarsi nella banda. Affascinato dalla vita avventurosa Brad deciderà di partecipare attivamente alle attività criminose che vede non soltanto come azioni di un gruppo di desperados, ma come lo strumento armato di una ribellione. Con il passare del tempo Brad si lascia affascinare dalla violenza e il timido professore si trasforma in uno spietato assassino molto peggiore del bandito che gli ha insegnato il mestiere. Sarà Beauregard stesso a porre fine al suo delirio di onnipotenza uccidendolo. Sotto l’apparenza avventurosa del western il film traveste un sottile gioco psicologico e morale tra due protagonisti che si invertono le parti ed una riflessione non banale sulla violenza. Milian si lamentò che, mentre il personaggio di Volontè ha un’evoluzione, o meglio involuzione, nel corso del film, da “buono” a “cattivo”, il suo fosse troppo statico: mai veramente “cattivo”, né particolarmente “buono”. Forse per questa rivalità i due attori furono nel corso delle riprese in fortissimo contrasto arrivando spesso addirittura alle mani. Alcuni critici videro – a posteriori – nel personaggio interpretato da Volontè una metafora delle Guardie rosse della Rivoluzione culturale di Mao Tze Tung.

L’ultimo episodio della trilogia western terzomondista sollimiana, Corri uomo, corri (1968), riprende il personaggio di Cuchillo: peon non politicizzato che, quasi suo malgrado, diventa progressivamente un piccolo ingranaggio della Rivoluzione, scappando e, come dice il titolo, correndo per mezzo film per consegnare alle persone giuste le informazioni utili a scoprire il tesoro indispensabile a sostentare la causa. Realizzato con budget più esiguo degli altri due e senza partner di spicco ad affiancare Milian, come erano stati i giganteschi Van Cleef e Volontè, il film piacque lo stesso ai rivoluzionari dell’epoca per le belle frasi ad effetto disseminate lungo il corso della pellicola – “La lucha continùa”, ecc. – e per le ardite metafore: l’educazione impartita da un poeta-soldato condurrà il sottoproletario alla coscienza di classe e il nascondiglio del tesoro sarà una tipografia, perché la rivoluzione nasce dalla comunicazione… Politica a parte, splendido il duello finale pistola/coltello (vincerà, ovviamente, il coltello) che rinnova quello de La resa dei conti.

Si inseriscono egregiamente nel nuovo sottogenere messicano anche due maestri già nominati in precedenza: il primo è Sergio Corbucci che affina le armi con Il Mercenario (1969), film scritto da Franco Solinas e Giorgio Arlorio, ispirandosi a L’eccezione e la regola di Bertold Brecht, originariamente per Gillo Pontecorvo (il regista alla fine si rifiutò di dirigere un western e i due sceneggiatori avviarono un progetto parallelo in chiave più “colta”, che divenne Queimada). Ancora molta politica dunque: la classica contrapposizione – ossessione di Solinas – tra civiltà e barbarie in questo caso esemplificata dal tortuoso confronto fra il mercenario, soldato di ventura a pagamento, professionista della guerra e la coppia di combattenti idealisti e ideologizzati, guerrilleros del popolo, non di testa ma di cuore. Potenzialmente un tema interessante, ma il film, sembra quasi la prova generale dei successivi e non funziona ancora molto bene, probabilmente per una scelta sbagliata nel cast. Se infatti Franco Nero è perfetto nel ruolo, impeccabile, dell’impassibile e avido mercenario polacco Serghei Kowalski e il grande Jack Palance ci regala l’ennesimo irresistibile villain, uno spietato killer gay; i ruoli dei rivoluzionari messicani invece sono quasi risibili: la pasionaria Giovanna Ralli, indubbiamente bella ma convincente come messicana quanto una coda alla vaccinara spacciata per tortilla, e soprattutto, vero punto dolente del film, Tony Musante, attore mediocre e decisamente antipatico, troppo newyorkese e Actor’s Studio per essere credibile in un ruolo proletario e terzomondista che Milian avrebbe esaltato e che invece viene affossato da una performance insipida e sgradevole. Un film rovinato da un attore: l’odioso Musante ha distrutto Il Mercenario, come l’inopportabile Rod Steiger ha appesantito Giù la testa ! di Leone.

Prima del capolavoro messicano di Corbucci, un altro film indeciso ma sicuramente atipico, Gli Specialisti (1970), co-produzione francese con protagonisti insoliti: lo pseudo-Elvis gallico-rock Johnny Hollyday (da noi famoso solo e unicamente per essere stato il marito della super-gnocca Sylvie Vartan), l’italo-teutonico e notevole Mario Adorf e il nostro bravissimo Gastone Moschin. Film abbastanza improvvisato, divertente e un po’ hippie ma assai incoerente, con banditi-rivoluzionari messicani, pistoleri con corazza antiproiettile, sceriffi generosi, battaglie a capocciate, una scena di stupro collettivo sulla bella Francoise Fabian piuttosto forte per i tempi (e che l’attrice non volle girare in dettaglio), un paese intero costretto a denudarsi (in stile Hair o Oh Calcutta ! E con conseguenti strali censorii soprattutto in Italia). Insomma, sicuramente un esperimento nuovo e curioso ma non del tutto convincente.

E finalmente arriva uno dei film eponimi del tortilla-western; cult ineguagliato, con l’indimenticabile canzoncina rivoluzionaria composta da Morricone, dei militanti di Potere Operaio: Vamos a matar, compañeros (1970). Cast superlativo: Franco Nero, Tomàs Milian, Jack Palance, Fernando Rey, tutti ai massimi livelli; sebbene Nero e Milian non si amassero per niente e fossero in continua competizione tra loro, ma è una lotta tra giganti per la supremazia del primo piano che giova al film. Nero è di nuovo un mercenario, o più precisamente un trafficante di armi, questa volta svedese, Yodlaf Peterson, e molto meno cinico di quanto apparirebbe all’inizio come scopriremo poco a poco; Milian è El Blasco, peon passato alla guerrilla; Palance un sicario prezzolato yankee con una mano di legno e un falcone ammaestrato; Rey un professore idealista che cerca una via non violenta alla rivoluzione. Il film è un lungo flashback che sospende il proverbiale duello finale (tra Milian e Nero, per divergenze “professionali” e rivalità amorosa…) che qui invece introduce la storia e fa da cornice. Dopo picaresche avventure che porteranno i due protagonisti ad aiutare il generale rivoluzionario Mongo, a salvare il professore Xantos, a recuperare una cassaforte che si rivelerà meno ricca di bottino del previsto, ad uccidere Mongo che in realtà è un traditore, a scoprire che l’idealismo pacifista del professore è incongruo e addirittura controproducente, a regolare i conti con il killer statunitense, infine a vedersela tra loro, una potente armata di repressori marcerà fatalmente sui ribelli e verrà allora il momento di rinunciare ai contrasti personali e montare insieme a cavallo per una (forse) ultima carica contro le soverchianti forze nemiche; come canta l’epico inno morriconiano: “…Hay que ganar moriendo, pistoleros/ Vamos a matar, vamos a matar compañeros/ Hay que morir venciendo, guerrilleros/ Vamos a matar, vamos a matar compañeros…”. Un capolavoro indiscusso.

Dopo il giusto ed ecumenico successo del film rivoluzionario per eccellenza, Corbucci avrebbe dovuto girare un altro tortilla-western, ma Franco Nero, geloso della simpatia del regista che lo aveva scoperto per il rivale Milian, si rifiutò di essere diretto di nuovo da lui, così un altro veterano del western all’italiana, Duccio Tessari, subentrò nel progetto di Viva la muerte…tua ! (1971). A fianco di Nero – ennesimo avventuriero europeo nel West, in questo caso il principe Dimitri Vassilovich Orlowsky, detto il Russo – invece di Milian, c’è Eli Wallach, il “brutto” leoniano, ancora bandito messicano alle prese con cappi e impiccagioni. Nonostante lo scenario della Rivoluzione messicana il film è molto avventuroso, già decisamente inclinato verso la nuova stagione del comico-parodistico e per niente politico: si parla di tesori nascosti e di uomini da trovare che hanno metà mappa tatuata sui loro sederi… divertente ma niente di più. Non ebbe molto successo anche perché, nonostante la consueta bravura di Wallach, Nero non funziona come attore comico e qui tende ad esagerare.

Nel 1969 era invece uscito l’altro capolavoro serio del tortilla western, Tepepa, di Giulio Petroni, con Tomàs Milian e niente meno che Orson Welles. Petroni – forse meno noto e prolifico di Sollima, Tessari e Corbucci – è stato però l’autore di almeno tre pietre miliari dello spaghetti western: il già citato Da uomo a uomo con Lee Van Cleef, per il periodo epico; Tepepa, per il tortilla rivoluzionario; e La vita, a volte, è molto dura, vero Provvidenza ? , che nel 1972 segnerà il passaggio di Milian al western parodistico, crepuscolo del sottogenere, sulla scia del successo di Trinità e del nuovo corso che sancisce l’esaurimento definitivo del filone. Anche Tepepa, come i suoi degni predecessori, si avvale della sceneggiatura del solito Solinas e dell’altro ultra- compagno Ivan Della Mea, scrittore e cantautore militante. I due, bisogna riconoscerlo, ci sanno fare quando si tratta di rivoluzioni (almeno dal punto di vista narrativo): Tepepa/Milian (che si doppia da solo in italiano e in inglese) è l’ennesimo peon rivoltoso, stavolta meno ilare e più incazzato dei Cuchillo sollimiani; non è affatto uno stinco di santo e ha violentato e ucciso la fidanzata di un medico gringo, interpretato dall’attore inglese John Steiner, che si vendicherà nel sanguinosissimo finale, trapassandolo a morte con il bisturi con cui gli aveva estratto una pallottola, per finire poi impallinato dal giovanissimo Paquito, seguace e continuatore della lotta rivoluzionaria di Tepepa; Orson Welles – unica sua apparizione in uno spaghetti western – è il perfido ufficiale governativo Cascorro, che darà del filo da torcere a Tepepa prima di venire fortunosamente ucciso da lui: l’ostilità tra Welles e Milian travalicò i limiti della rappresentazione scenica e i rapporti tra i due attori furono pessimi per tutto il corso del film. Welles partecipò al cast solo per soldi e senza alcun entusiasmo (ma dando – nonostante tutto – una prova attoriale come sempre impeccabile) e – così riferiscono i maligni – sparì l’ultimo giorno di riprese fregandosi parecchi metri di pellicola da usare in un suo film. Il risultato finale è comunque un western moderno, insolitamente ricco, visualmente e tematicamente, epico e tragico al punto giusto, ideologizzato ma senza esagerazioni, invecchiato benissimo e con un’ennesima indimenticabile soundtrack morriconiana: sicuramente tra le cose imprescindibili da vedere o rivedere.

Episodio minore invece ma insolito, del 1970 e sempre con Tomàs Milian, eterno ribelle sottoproletario terzomondista, insieme a Ugo Pagliai nel ruolo del malvagio cacciatore di giacimenti petroliferi olandese, è il curiosissimo O’ Cangaçeiro di Giovanni Fago, western rivoluzionario ambientato non in Messico ma in Brasile, nel sertao, unico esempio di Cachaça-western all’italiana.

Per concludere, trascurando gli episodi minori, possiamo considerare Giù la testa ! di Leone il definitivo canto del cigno del tortilla western e il 1971 l’anno limite del sottogenere: non a caso è anche l’ultimo western di Leone, con uno splendido James Coburn, irlandese dinamitardo, un – come quasi sempre – fallimentare Rod Steiger, buono al massimo per guitteggiare un Mussolini o un Napoleone, versione Actor’s Studio – l’attore fu purtroppo imposto al regista: il ruolo del peon/bandido messicano in realtà era stato costruito sulla figura di Eli Wallach, interprete di ben altra caratura – e una celeberrima epigrafe da Mao Tse Tung – sintetizzando: la Rivoluzione non è un pranzo di gala ma un atto di violenza – che, specie da parte del molto poco politicizzato e forse vagamente opportunistico cineasta romano, potrebbe suonare come un estremo epitaffio sulla lapide tombale dell’onorevole e mai sufficientemente  rimpianto western rivoluzionario.