coverBillEvansw[Pubblichiamo un estratto del libro “Volevo essere Bill Evans” di Sergio Pasquandrea, Fara editore, Rimini 2014, pp 76 € 11. Il testo ha vinto il concorso “Faraexcelsior” dedicato al romanzo breve. Sono storie che passano con disinvoltura dalla narrativa alla saggistica, dal ricordo autobiografico all’epica dei grandi musicisti jazz. L’autore è uno scrittore, disegnatore e giornalista musicale, un “purista” che ama il jazz di un amore totalizzante che non scende a patti con le “contaminazioni” moderne, come dimostra il racconto “O è nero o non è”. (M.B.)]

Signori si nasce

Ecco, non è che mi sono messo proprio lì a controllarle, una per una. Però sarei pronto a giurarci: Teddy Wilson non ha mai sbagliato una nota in vita sua.
Quando entrò nel quartetto di Benny Goodman, lui e Lionel Hampton erano neri, gli altri due bianchi. Uno scandalo, all’epoca. Ma lui, tranquillo, sorrideva, e seguitava a sciorinare note limpide e pulite come perle.
I suoi modelli erano i grandi pianisti stride: Fats Waller, Art Tatum, James P. Johnson. Aveva preso il loro stile, l’aveva ripulito, levigato, aveva tolto via il superfluo. L’hanno definito un pianismo “ben temperato”, e la definizione calza a pennello (perché poi, tra Bach e il jazz, le somiglianze sono tante, e profonde; ma è un discorso che porterebbe lontano).
Negli anni Trenta, Teddy Wilson partecipò a concerti di beneficenza in favore della Resistenza antifranchista spagnola; sostenne candidati di sinistra; organizzò raccolte di fondi per giornali comunisti. Gli amici lo chiamavano “il Mozart marxista”, ma lui preferiva glissare, perché le cose l’importante è farle, non farle vedere.
Una volta era in studio di incisione. Per scaldarsi le mani, cominciò a suonare un pezzo. “Che cos’è?”, gli chiese il tecnico, che intanto stava preparando gli strumenti. “Oh, una cosa mia…”, disse Teddy, con noncuranza.
La “cosa sua” era la Sonata K9 di Domenico Scarlatti. Ma lui era fatto così: perché rivelare a quel poveretto che lui, un nero, conosceva a menadito la letteratura classica? Il vero signore sa quando tacere. E Teddy era un signore.

clapton.is.god.ridO è nero, o non è

Oh, che volete? Lo so, è un problema mio.
Però che posso farci, se trovo Eric Clapton, John Mayall e tutti i bluesmen bianchi terribilmente noiosi? Anzi, più che noiosi: li trovo mosci, rileccati, senz’anima (a meno che non si voglia scambiare l’anima con i decibel). Borghesi, se posso usare un termine fuori moda.
C’è chi trova il blues arcaico rozzo e poco sofisticato, ma per me tutto Clapton non vale trenta secondi di Son House. E darei volentieri l’intera discografia dei Cream in cambio di cinque minuti di Charley Patton.
Lo so che a molti queste sembreranno bestemmie, ma in fondo il mondo è bello perché è vario.
Per me, il blues arriva fino a Muddy Waters, e il discorso finisce lì.

Sarà che penso lo stesso anche della maggior parte del rock.
Per quel che mi riguarda, Jimi Hendrix si mangia in un sol boccone tutti gli schitarratori bianchi di questo mondo (tranne i Led Zeppelin, che sono stati uno dei più grandi gruppi blues della storia). E Ray Charles e James Brown fanno polpette di Joe Cocker e persino (bestemmia delle bestemmie) di Janis Joplin.
Forse aveva ragione il vecchio Pino Daniele (quello vero intendo, non il pupazzetto afono che ha preso il suo posto negli ultimi quindici anni). I napoletani, e tutti noi meridionali, siamo “neri a metà”.
Per me, è quella metà lì che conta.

fats-wallerAttenti all’uomo nero

Eudora Welty (1909-2001) è praticamente sconosciuta in Italia. I suoi racconti sono ambientati perlopiù nel Sud degli Stati Uniti; un Sud rurale, vagamente faulkneriano, spesso opprimente nella sua ipocrita grettezza. Ma Eudora Welty scrisse anche un racconto che è un unicum nella sua produzione. Si intitola “Powerhouse” e uscì nella sua prima raccolta, A Curtain of Green (1941).
C’è chi l’ha definito “il più bel racconto a tema jazzistico mai scritto”. Di certo, questa donnina del Mississippi riuscì a cogliere certi aspetti della musica afroamericana con un’acutezza unica. In particolare, colse alla perfezione l’effetto perturbante e insieme ipnotico che la vitalità dionisiaca del jazz esercitava sul pubblico bianco di quegli anni.
Il protagonista, Powerhouse (letteralmente, “centrale elettrica”), è un pianista jazz, in tournée con la sua band in un’immaginaria cittadina del Sud, di nome Alligator. Il personaggio è modellato, fisicamente e caratterialmente, su Thomas “Fats” Waller, il grande pianista stride noto per la sua stazza, per la sua tecnica da virtuoso e per la sua inesauribile vis istrionica. Proprio come Waller, Powerhouse è dotato di una vitalità esplosiva, primordiale, che a fatica si adatta al decoro borghese del pubblico che è chiamato a intrattenere. Powerhouse è incontenibile.
La trama del racconto è piuttosto semplice: Powerhouse suona e racconta una storia. Una storia macabra, triste, truculenta. Poco importa che sia vera o no: l’importante è che lui la racconta, la varia, ci improvvisa, con l’agilità di un’acrobata. La cambia a seconda dell’occasione, dell’umore, del pubblico: prima i suoi musicisti, poi gli avventori di una bettola nel ghetto, poi ancora i suoi musicisti. La storia si sviluppa, si dirama, fa le bizze e le capriole. Powerhouse la maneggia con la stessa nonchalance con cui doma i tasti del suo pianoforte.
Una perfetta metafora per quel gioco imprevedibile, rischioso, irresistibile che è l’improvvisazione.

[Le immagini: In apertura la cover del libro disegnata da Pasquandrea; Una celebre scritta comparsa sui muri di Londra negli anni ’60; L’incontenibile Fats Waller]

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