di Franco Pezzini

LepifaniadellorroreConsiderata per convenzionale la nascita del gotico letterario con The Castle of Otranto di Walpole, 1764, c’è chi lo giudica chiuso col Melmoth di Maturin, 1820, altri con il racconto The Household Wreck di De Quincey, 1838, o invece col Dracula di Stoker, 1897, tutti con motivazioni comprensibili; mentre per molti il gotico non è affatto morto, sta bene e ci saluta tutti. Il fatto è che da un lato un genere narrativo (letterario e non solo) difficilmente “muore” davvero, in presenza di un’evoluzione sociale con elementi – almeno qualcuno – di continuità; e per contro, più specificamente, il gotico risulta un genere assai più variegato e plastico di quanto spesso si consideri. Chi legga con attenzione Walpole vi trova una serie di suggestioni che il gotico successivo frequenterà poco, mentre riemergeranno in certo “fantastico” genericamente inteso: penso a un certo lussureggiante miracolismo associato al mondo papista, o allo stesso peso di un grottesco onirico guardato con sospetto da tanti autori gotici più “seri” (emblematici i commenti un po’ rigidi di Clara Reeve, 1777). Non dovremmo considerare questi aspetti come elementi “congrui” al genere? In realtà quando parliamo di gotico facciamo i conti con un’etichetta che mantiene ampie connotazioni di fluidità, e qualunque definizione non può che tenerne conto.
Un problema ulteriore riguarda del resto la valenza “nazionale” di un certo tipo di esperienza narrativa. Il fatto che il gotico trovi codificazione in Inghilterra, ma con riferimento – ideale, di cartapesta – all’Italia e influssi del clima “gotico” tedesco (se non direttamente in Walpole, almeno in predecessori ideali come Smollett, e poi con ampiezza nei successori), già suggerisce qualcosa di una certa vocazione geografica. A partire da pregiudizi culturali e nervi scoperti, è vero, ma offrendo così uno strumento duttile a esperienze narrative diverse. Lo sviluppo del gotico al di fuori dell’Inghilterra – Germania, Francia, Russia… – pur nella varietà delle forme ne è l’immediata conseguenza.
Tutto ciò riguarda la stessa Italia, non solo oggetto ma anche soggetto di produzione gotica, come emerge dall’ottima raccolta L’epifania dell’orrore. Novelle gotiche italiane curata da Giuseppe Ceddia per i tipi Stilo (Bari 2015, pp. 196, € 14,00): un prezioso itinerario tra testi meno noti, a firme in gran parte di autori minori, ma proprio per questi rivelatori di un clima, un tessuto che testimonia la non improprietà dell’uso del termine gotico anche in un panorama come quello italiano. Le novelle, presentate da Ceddia nella bella Introduzione alle cui motivazioni sull’uso del termine si rimanda, corrono per tutto l’Ottocento, dal 1819 fino anzi all’avvio del secolo breve, 1906, lasciando volutamente da parte le opere nere scapigliate e veriste già presenti in tante antologie.
Senza assassinare il piacere della lettura, una breve disamina dei testi s’impone. A partire – non impropriamente, considerando il peso delle Madri gotiche in Inghilterra – da un’autrice elogiata per i suoi versi dal gotha della letteratura italiana del tempo (Monti, Alfieri, Parini, Foscolo, Manzoni…), cioè Diodata Saluzzo Roero, qui presente con Il castello di Binasco. Novella dell’anno 1418 (1819). Certo, non aspettiamoci Ann Radcliffe: ma nell’ambito di un melodramma romantico che ricama (liberissimamente) sulla storia di Beatrice di Tenda, spinta al matrimonio con Filippo Maria Visconti e poi giustiziata, i classici temi dell’eroina vittima innocente, e dell’amore cavalleresco cui si contrappone la predazione nuziale del vilain, sono godibilmente punteggiati di ombre spettrali.
Segue il testo di un nome noto del primo ottocento nostrano, Margherita di Cesare Balbo (1829), con nuovo set medioevaleggiante e nuova vittima femminile – stavolta, più sottilmente, di un disamore che uccide. Le tinte gotiche emergono in chiusura, con una scena che sembra prefigurare insieme gli Usher e la Morte Rossa di Poe, e seguita da una suggestiva coda fantasmatico-vampiresca. Se il nome del cattivo è lo stesso di quello walpoliano, Manfredi, rimandando così esplicitamente alla logica del gotico, per il nome della protagonista/vittima viene da pensare al Faust goethiano.
Davvero interessante per le sue connotazioni oniriche è poi lo strano racconto Il sotterraneo di Porta Nuova di Giambattista Bazzoni (1832): dove da un avvio di grande efficacia visiva – il palazzo chiuso per il caldo torrido estivo – il clima claustrofobico si sviluppa attraverso una catabasi nel labirinto di rovine maledette e fino a un sotterraneo da sepolti vivi (ci si astiene da spoilerarne il finale). La vicenda è cinquecentesca, ma ammicca a un passato di tre secoli prima, circonfondendo di un brivido satanico la storia della mistica Guglielma la Boema e del suo culto stroncato come eretico dall’Inquisizione (cfr. Luisa Muraro, Guglielma e Maifreda. Storia di un’eresia femminista, Libreria delle donne, 2015).
Fin qui un’ideale prima fase del gotico nostrano: il primo Ottocento che ama ricondurre il lettore tra le vie del passato, e che vede – come del resto testimoniano i romanzi storici con le loro venature orride, i mostruosi vilain e le damsel in distress – sfumare nel genere (appunto) storico quello che possiamo ben definire gotico.
Con un salto cronologico significativo la nostra antologia passa dunque a una seconda fase, postunitaria, con il racconto Il duca zoppo di Domenico Ciampoli (1880). Già il testo di Balbo rimarcava la presenza (anche ingombrante) di un narratore, ma a introdurre compiutamente nella storia: mentre ora la nuova prospettiva di un passato confinato a distanza, di uno stacco critico ed emotivo, è ben resa dall’incipit “Forse è storia, ed è in voce di leggenda”, con la vicenda simil-pulp di una specie di Vlad Dracula in sedicesimo, nostrano e cattivissimo. Del resto cambia anche l’ambientazione, in questo caso abruzzese: se le prime novelle trovavano sfondo tra l’aristocrazia di un medioevo norditalico, ora a unità consumata e con attenzioni assai più ampie al popolo minuto, si passa al grembo di un’Italia centro-meridionale fitta di storie nere, incognita e pittoresca.
Come nella Calabria di Nicola Misasi, Accanto al fuoco (1882), che già nel titolo denuncia un sovrannaturale quale oggetto anzitutto di affabulazione; o come nella Toscana di un altro ottimo “racconto sul racconto”, Il diavolo di Giovanni Magherini Graziani (1886), sviluppo originalissimo del tema della casa infestata. E che in dettagli come gli affreschi-fantasma – le immagini delle contadine costrette dal cattivo padrone a spogliarsi e farsi così ritrarre sulle pareti, immagini poi coperte per decenza – sembra già evocare il clima onirico e le ombre danzanti sui muri di sale abbandonate di un caposaldo del giovane cinema spettrale, Vampyr di Carl Theodor Dreyer (1932).
Ancora un fantastico per affabulazione e ancora Toscana troviamo ne L’ombra del Sire di Narbona di Emma Perodi (1893), dove il tema iniziale dell’aristocratico maledetto si stempera in un’avventura nera tra storia di fantasmi e macabro fiabesco. Il medioevo c’è ancora ma è come in cornice, con lo stacco netto dal presente di una voce narrante; ed entra piuttosto in dialogo con le mappature folkloriche di fiabe condotte in un paese che scricchiola tra problemi e scandali, cerca di consolidare l’unità ma gronda fin troppi fantasmi.
Si badi che le due fasi evidenziate attraverso i racconti non esauriscono il panorama del gotico italiano, che dovrebbe ammettere opere anche parecchio diverse – penso per esempio a certi elementi del Malombra di Antonio Fogazzaro, scritto tra l’inizio degli anni Settanta e la fine del 1880 e pubblicato nel 1881. Tuttavia questa produzione minore, di novelle sparse tra riviste, a volte recanti caratteri di suggestiva originalità, ma che più spesso ripropongono in forma conservativa esiti già consolidati o superati nei romanzi (un rapporto che fa pensare a quello di un secolo dopo tra televisione e cinema) offre un vivacissimo tessuto connettivo tra i grandi titoli, e una specie di cartina al tornasole di gusti, provocazioni, inquietudini diffuse. I carotaggi di Fabrizio Foni su tale materiale – citati in Bibliografia alla presente raccolta – costituiscono in questo senso un fondamentale punto di riferimento.
Una terza fase sembra comunque annunciarsi nella novellistica di fine secolo. Ormai l’enfasi non è più sulla ricostruzione diretta (prima fase) e neppure sulla narrazione affabulatoria (seconda fase) del passato gotico: questo è piuttosto evocato per allusioni o attraverso il ricorso a talune suggestioni.
Ben poco si sa del C. Spagnolo-Turco, in apparenza pugliese, autore di Al di là (1897), che riprende liberamente tra grottesco e amaro – qualcosa a metà tra Nightmare Before Christmas e Bierce – le tregende paleoromantiche di scheletri deambulanti. L’esperimento è di far parlare proprio uno di quelli, con tanto di macabra vicenda sentimentale: e se si tratti di un gioco ad anticare il successo coevo dello spiritismo è difficile dire. Egisto Roggero con Il vecchio orologio (1901), ambientato in Romagna, propone invece un castello infestato da qualcosa connesso a un’enorme pendola, ancora una volta a fare il verso a modelli romantici (per esempio il ben altrimenti raggelante Maître Zacharius di Jules Verne, 1854). In Spagnolo-Turco come in Roggero si può anzi pensare a un’eredità del fantastico (genericamente) riconducibile alla Scapigliatura, coi suoi sogghigni e bizzarrie.
Ma la vera svolta verso fantasmi più sfuggenti e insidiosi – eredità di Maupassant, e di una mutazione della geografia gotica verso terre incognite sempre più radicate in alterità interiori – sembra rappresentata dall’ultimo testo, Non voglio più essere ciò che sono di Giovanni Papini (1906). Una novella fulminante che nella vertigine e provocazione dell’assunto, evidente fin dal titolo, può forse dirla lunga delle delusioni del paese che la legge.