di Mauro Baldrati

Tarantino_HatefulDunque venerdì 6 febbraio decidiamo di andare al cinema. C’è Tarantino, finalmente. In tempi di siccità, di carestia, di cavallette, l’uscita del n. 8 di Quentin rischia di essere un evento.
Ci sono sentimenti contrastanti comunque. Come una predisposizione negativa.

Primo problema preventivo: la sala. E’ uscito da un giorno, per cui immagino una lunga fila alla cassa, e il cinema gremito, con la peste bubbonica degli adolescenti. Non stanno mai zitti, e accendono di continuo i cellulari. A nulla serve dirglielo educatamente: l’interpellato la smette per un po’, ma ce ne sono altri cinqunta.

E poi il secondo, preoccupante quasi quanto il primo: il coro. Ho già verificato con assoluta certezza che quando i media si mettono a gridare al capolavoro, con un abuso imbarazzante di aggettivi superlativi, c’è qualcosa che non va. C’è sotto il trucco. E con The Hateful Eight non ci sono andati leggeri. Il film più nichilista, più politico di Tarantino. Ma com’è possibile? O è nichilista o è politico. Cinefilia allo stato puro, con almeno cinque modelli, spaghetti western a gogo, De Palma e il sommo La Cosa di Carpenter. E lo splendore del 70 millimetri, che pochissimi vedranno, non essendo le sale italiane attrezzate coi proiettori giusti. Tra l’altro qui a Bologna c’è una delle 3 sale nazionali che lo proiettano con quel formato, ma chi è riuscito a trovare i biglietti ha riferito che si vede male. E poi l’unione della politica con Hollywood, un concetto assai impegnativo, buttato li senza tanti complimenti. E infine il trailer, non so perché poco appetibile, con l’ennesimo doppiaggio di Francesco Pannofino, uno bravo, niente da dire, ma onnipresente, secondo la sindrome incurabile italiana dell’omologazione ossessiva.

Insomma, sentimenti contrastanti: Quentin, ormai sei rimasto solo tu, tutti gli altri sono morti, o vecchi, o dimenticati. Se anche tu deludi, cosa resterà? E’ una enorme responsabilità, lo so, ma sei uno degli ultimi eroi, non tirarti indietro. Soffri, per essere creativo. E’ così che deve essere. E’ dalle ferite che sgorga il coraggio. Non dal mestiere. Soffri per tutti noi.

Beh, come forse si sarà capito da questa introduzione le previsioni negative non si sono avverate. Talvolta succede. Il segreto sta anche nel non crederci veramente. Se ci credi, le chiami. E questo, dicono, vale anche per quelle positive. Se ci credi, andrà bene.

Per cui, non si sono avverate.
Almeno per quanto riguarda la sala.

Non era particolarmente affollata. Ci siamo piazzati in penultima, perché l’ultima era parzialmente occupata da coppie di mezza età, meravigseliosamente posate, e addirittura alcuni single. Tutta gente tranquilla, che non divora enormi secchi di pop corn. E il resto non era occupata solo da barbari. Studenti, magari del DAMS, ragazzi e ragazze in gamba.

Finalmente, dopo un delirio di pubblicità e trailer di film inverosimili, roba urlata istericamente che uno si chiede: ma com’è possibile che ci siano degli italiani che escono di casa per andare a vedere questa roba? il nostro film è iniziato.

E qui mi si permetta di saltare direttamente alla fine. Vale a dire non al finale, perché in realtà il film non ha finale, ma alla sintesi. Si è detto dei riferimenti cinefili a questo e a quello, ma la questione è molto più semplice. Tarantino ha rifatte Le Jene in chiave western. Certo, La Cosa viene in mente, con quella situazione asfittica di tutti contro tutti, ma il copione sembra davvero una riscrittura del suo primo film. Per dire, dopo un inizio che lo spettatore ben disposto ritiene di buon auspicio (perché in definitiva, dopo la sofferenza della pubblicità, la speranza regna sovrana e spazza via le previsioni negative), un paesaggio del Wyoming innevato, una diligenza che arranca, inseguita dalla bufera, appaiono i primi personaggi. Parte una sequenza di dialoghi serrati, di pura chimica tarantiniana, con Pannofino (Kurt Russell) che imperversa, una mitragliata di parole, domande e battute, che si protrae per un’ora a mezza, senza che accada nient’altro. Cioè, dopo qualche passaggio per sentieri innevati, la vicenda si rinchiude subito in un emporio isolato, dove arrivano anche gli altri personaggi. Sono tutti uomini a parte una donna (e una comparsa che spunta fuori verso la fine, la proprietaria dell’emporio), prigioniera di Kurt Russel, un bounty killer detto “Il Boia” che deve condurla a Red Rock, dove sarà impiccata per rapine e omicidio.

Qui Tarantino ci mette tutto il mestiere, e gli attori pure, ma Le Jene era una novità assoluta, non si era mai visto nulla di simile; oggi, 24 anni dopo, la cosa diventa abbastanza pesante. E i riferimenti dei personaggi ai loro interlocutori, la messa in dubbio continua della loro identità, il sospetto che dovrebbe serpeggiare, si perdono nella massa densa del parlato, fino a fare sprofondare lo spettatore in uno stato semi-catatonico. Quando le luci si accendono per l’intervallo ci chiediamo: Cristo, ma non sarà tutto così?

La ripresa si movimenta, per fortuna, esplode quella violenza di cui si è tanto parlato, con qualche incursione nello splatter, e lo spettatore appassionato di cinematografia nera, di horror, viene in parte risarcito. Ma quando finisce, o meglio, non finisce, resta un senso di insoddisfazione, come di inutilità, di violenza compiaciuta, una sottile linea d’ombra che Tarantino aveva sempre evitato di oltrepassare. Django era violento, ma era la violenza “santa” del bambino assetato di giustizia che punisce i cattivi senza pietà, perché il bambino è spietato, nei suoi giochi, e vede tutto nitido, bianco, nero, bene e male. Qui invece non ci sono scelte, non c’è gioco. Quando i due, gli ultimi, assistono a una impiccagione e ridono soddisfatti, nel contemplare la vita che lascia lentamente la vittima, ripresa in primo piano, non vi è alcun riscatto né politico né estetico, ma solo una forma di voyeurismo macabro.

Ma c’è un altro aspetto che lascia stupiti: la donna. In Tarantino, come nel suo amico Rodriguez, la donna è una eroina, rappresentata con toni persino fumettistici, epici, una combattente per la liberta’. Ricordiamo la donna di Kill Bill: una guerriera samurai, ammantata di sacro. Qui l’unica donna, per quanto sia una criminale, è oggetto di ogni genere di vessazione: massacrata a pugni e calci dal Boia, umiliata dallo stufato lanciato in faccia, apostrofata da tutti unicamente con gli epiteti “puttana” e “bagascia”. Non si vuole giudicare il film con criteri trinariciuti o moralisti, ma davvero sembra di assistere a una involuzione, a una caduta di stile e di contenuti.

In conclusione, mettiamo pure che i riferimenti cinefili ci siano tutti, ma in fondo chi se ne frega? Sembra di essere nell’era del vinyle, quando certi fissati ascoltavano il loro impianto stereo, e si beavano dei bassi, dell’effetto presenza, della potenza delle casse.

Ma l’impianto non era che un mezzo, uno strumento.
Era la musica che contava.
Solo la musica.