di Jago Malteni

L'Arca della Fattanza Copertina Romanzo Jago MalteniTitoli di testa

[Il disegno di copertina è di l’éparvier] Il racconto di cui segue qui la prima puntata è stato scritto (ed è ambientato) nell’autunno bolognese del ‘14, quando le scritte e i graffiti che ne sono in certa misura protagonisti (comprimari o quasi dello studente attorno a cui gravita la storia) erano ancora lì, ben visibili per le vie della Bologna storica e universitaria. Già mesi prima, però, il Comune aveva annunciato una maxi-operazione con l’intento di ripulire ben 110mila metri quadri di muratura, “promettendo – come scriveva un ben noto quotidiano locale – un impegno senza precedenti nella lotta al vandalismo grafico che devasta la città”. Costo dell’operazione: un milione di euro. Quando si dice “in politica bisogna avere delle priorità”. Tanto più che il ricorso al famigerato “vandalismo grafico” è da sempre tra le mosse predilette dai media per mettere in cattiva luce e additare come nemico pubblico “quelli dei collettivi studenteschi e dei centri sociali”. Emblematica in tal senso è la vicenda del sequestro dell’aula C della sede di Scienze Politiche, con tutto quello che ne è seguito in termini di accanimenti mediatici e provvedimenti giudiziari.

La storia che segue – a proposito – toccherà da vicino anche le vicende legate alla lotta per il diritto alla casa, soprattutto nelle puntate centrali delle undici di cui è composta, dove si racconterà della tensione che già allora, nei tempi non sospetti (?) in cui è stata scritta, si palpava per le strade. Tensione che poi, strisciando sul pelo delle stagioni successive, è andata sempre più risalendo a fior d’asfalto (con altri sgomberi ingiustificati, eseguiti con spropositato spiegamento di forze), fino ad assumere le dimensioni di una grossa ondata repressiva ed esplodere, di recente, con lo sfratto forzato di centinaia di persone (tra cui donne, bambini e intere famiglie) dalla ex-Telecom di via Fioravanti.

Ma qui, su questo, meglio più non dilungarsi, che nulla avrebbe da aggiungere chi scrive a quanto è già stato ben detto e scritto altrove. Tanto vale concedere al racconto il tempo e lo spazio che gli spetta. Non prima, però, d’aver chiara una cosa: che cioè, ora che quelle annunciate operazioni di riverniciatura stanno andando in porto e che molti dei graffiti citati nel racconto sono stati cancellati, raschiati o rimossi sotto una passata di vernice fresca, ciò che resta è provare a tenerne viva la memoria e ricalcarne magari i contorni, se non con bomboletta e pennello, almeno con gli altri mezzi che ci restano a disposizione.

E la narrazione è certamente uno di questi.


Capitolo 1a

Notte fonda fonda.

Bologna è sbiadenza di se stessa, garbuglio di vie deserte che affiorano dai coni arancio dei lampioni, tra la nebbia fitta di un ottobre già inoltrato.

C’è un ragazzo che sonnecchia su una panca ai giardini di San Leo. Né l’umido né il freddo gli travagliano il sonno, ma si desta di colpo ‘n’appena avverte incombere la minaccia della Signora Anna, sedicente guardiana del parco che sbuca d’un tratto dall’oscurità, in vestaglia, coi capelli grigi e la faccia da spettro.

– Brrruutto screanzaatoo!! Mo’ pensi mica di stare a casa tua? Cercati un posto sotto i portici se non hai dove dormire, caràggna, ma pussa via dal mio giardino! Adessoo, subitooo! Che sennò ti strangolo con le mie…

Neppure il tempo di chiedersi il perché e il comecazzo, che il giovane, tutt’ancora rintronato, si vede costretto a schivare la raffica di bottigliate che la megera, dopo avergli stuprato i timpani, gli sta tirando appresso. Raccoglie i vetri da un carrello per la spesa e glieli scaraventa contro, uno dopo l’altro, a intercalare le strida che l’escono di bocca.

Una sessantasei lo piglia dritto alle gambe, già levate nella fuga. Il cancello è chiuso, porcaputtana! Deve scavalcare.

Una spinta decisa, zompa e ce la fa, non senza rimediare un culo di bottiglia sul braccio e uno strappo al jeans in mezzo ai coglioni. Ruzzola a terra dopo un salto di due metri e respira, pancia a terra, l’asfalto di via Belmeloro.

Pericolo scampato, pare.

Si rialza ma subito poi si flette, mani alle ginocchia. Ansima e annaspa, penzola, barcolla. Non vede da qua a là. Boccheggia, inspira espira inspira espira… Poi, ripreso fiato, mena uno scaracchio verso l’ingresso della biblioteca americana e si ripiglia. O almeno così, per un attimo, gli pare.

Gli duole un gomito. Quella vecchiarda ha una mira della madonna!

Si guarda intorno con aria spaesata: ma come cazzo si trova in quel posto all’ora più fredda e buia di un giovedì notte qualsiasi? Come diavolo è finito addormentato su quella panca ruvida e lercia, in balia di una stregaccia maligna in vena di sacrifici umani?

E pensare che dopo cena, a casa, nemmeno aveva tanta voglia di uscire…

Si chiama Giovanni, il ragazzo. Biglia di cognome. E anche di fatto, per il suo imprevedibile carambolare da un posto all’altro senza il benché minimo margine di ragionevolezza.

Giovanni Biglia – Giobi per gli amici – ha ventitré anni, la barba irsuta e una congenita incazzatura in corpo. Calabrese e studente fuorisede, di quelli che all’Alta Velocità continuano a preferire l’Intercity notturno che corre da Reggio su fino a Milano, sta a Bologna già da un pezzo, contando che è iscritto al primo anno fuoricorso di una fottuta triennale in scienze politiche.

Sulla scrivania di camera sua, un buco in affitto fuori porta San Donato, poche cose s’attorniano alla luce del portatile dimenticato acceso: una matita spuntata, una scatola di compresse all’ibuprofene, qualche spicciolo, una tessera sanitaria e un paio d’occhiali da vista, una stecca aperta e l’altra chiusa; poco più in là si scorgono Le città invisibili di Calvino in edizione Mondadori, col dorso verso l’alto e le pagine 92 e 93 capovolte sul tavolo, e anche una sporta di plastica con dentro tre testi d’esame fotocopiati e rilegati, ancora lì da quando, un paio di settimane prima, era passato a ritirarli in copisteria.

Giobi conosce bene le vie di Bologna e da tempo le percorre in lungo e in largo, sulle tracce di qualcosa che nemmeno lui sa bene. Stringe i lacci quando gli prudono i piedi e si lascia guidare dagli umori che la strada gli mette, via via che gli si va spianando sotto il liscio delle suole.

Il fatto è, pure, che Giobi ha un debole per i graffiti. Gli piace pensare che nessuno di essi stia al suo posto per caso, neppure gli imbratti che all’apparenza non significano niente – residui murali, forse, d’una Bologna d’altri tempi. E s’è messo in testa che seguendone le tracce sia possibile leggere in filigrana, tra le righe che s’increspano lungo i muri, un sottotesto lungo quanto tutti i portici del centro messi in fila uno appresso all’altro – sedimento inconscio di quella che, potendo scrivere un saggio scientifico o pseudo-tale sull’argomento, definirebbe “intelligenza graffitara collettiva”. Come se veramente ci fosse un filo d’Arianna invisibile che si dipana per i vicoli, di cui non c’è che da scovare il bandolo per cominciare a sbrogliare la matassa.

Sciogliere i nodi, decifrare i segni e poi congiungerli, e vedere infine spiegarsi le cose per il verso giusto. Un po’ come unire i puntini numerati della settimana enigmistica, ma senza uno stralcio d’indizio a suggerirne la sequenza corretta.

Una faticaccia, insomma, impervia e titanica. Pari al tentare di mettere ordine, come sugli scaffali di una babelica biblioteca, tra tasselli di un mosaico immenso, puzzle d’infiniti pezzi, sparpagliati alla rinfusa in quell’archivio a cielo aperto fatto di spray e di mattoni, del vivo dei colori sopra il grigio dell’asfalto.

Come che sia, le ricerche di Giobi hanno svoltato quando s’è imbattuto in due conigli neri, riprodotti con la stessa matrice di stampa e affissi a non più di duecento metri l’uno dall’altro. Il primo gli era sbucato tra i piedi all’angolo di una parete dietro casa sua, al semaforo di porta San Donato, sopra quello che doveva essere il vecchio muro di cinta della città. Il secondo invece lo aveva notato poco più avanti, sotto un portico di via Zamboni (all’altezza dell’88b), anch’esso incollato a pochi centimetri da terra e identico e preciso al precedente.

Nonostante la scarsa qualità delle due riproduzioni, pure mezze impiastricciate, la scoperta aveva dato a Giobi quel tanto di curiosità in più che bastava perché si mettesse a setacciare palmo a palmo, con meticolo certosino, i lastricati e le pareti dell’intero centro storico.

Evidente – pensava – che i due conigli stanno là a segnalare un percorso più ampio, un cammino segreto e nascosto ai più. Evidente pure che quei due non sono i soli: ce ne dev’essere per forza qualcun altro, rintanato magari nell’intrico dei vichi e pronto a guizzare fuori al primo giro d’angolo.

E sì, perché due punti basteranno pure a fare una retta, ma non sono certo sufficienti a tracciare traiettorie più complesse, parabole, iperboli, prismi o parallelepipedi. Ne servono altri e devono, pertanto, esserci. Bologna non è un piano euclideo che si stende su una coppia d’assi cartesiani, ma uno spazio poliedrico con millecento scale a colore, un dedalo in perpetuo movimento.

E tuttavia, per accurate che fossero, le ricerche di Giobi non hanno mai condotto ad alcun risultato concreto. Tranne, forse, che per l’avvistamento di uno scoiattolo sulla colonna di fronte al secondo dei due conigli… “‘Mbè, che c’entra?”, uno potrebbe dire. E invece un poco c’entra, perché, oltre a essere riprodotto con tecnica simile, lo scoiattolo appartiene pur sempre anche lui, come pure i conigli, alla famiglia dei roditori… Ma tutto qua, nient’altro da segnalare. Tanto più che la posizione dello scoiattolo è tale da non aggiungere segmenti significativi all’ipotetico percorso.

…Eppure, a pensarci bene, un’altra cosa ci sarebbe. E cioè che a Giobi capita spesso di incappare in brevi frasi spagnole disseminate qua e là, scritte in gesso con identica calligrafia e attribuite talvolta a improbabili poeti russi. Due di queste, per quanto poste a grande distanza, sembrano fissare un medesimo stato d’animo, colto però da prospettive opposte: una dice Tus muros sangran mis palabras e l’altra Sigo buscando ese verso che te haga temblar. A lui piace leggerle in successione, perché nella seconda vede l’ovvia e irredimibile controparte della prima. E ogni volta che fa la strada dall’una all’altra non può che pensare a lei…

Ma questa è già un’altra storia.

È da un po’, insomma, che Giobi ha incominciato a scoraggiarsi, a pensare che le sue fossero solo strampalaggini, fantasticherie, nudi abbagli e pie illusioni.

Puttanate, insomma.

Da qualche tempo, anzi, gli è persino passata la voglia di uscire…

Come anche stasera, quella di un giovedì uggioso e stupido, cominciato male e destinato, pare, a finire peggio. Tanto valeva starsene a casa, a guardarsi una puntata dei Soprano in streaming o a sfogliare un vecchio albo di Dylan Dog. Ora invece, per la piega che hanno preso le cose, pare a lui d’essere finito in una storia da Indagatore dell’incubo, tipo quella in cui Dylan è costretto a passare la notte all’aperto e gliene succedono di ogni.

In un caso o nell’altro, Giobi non credeva – e dopo cena c’avrebbe scommesso! – di mettere piede fuori casa prima dell’indomani.

Però poi lo aveva fatto. O non si troverebbe lì adesso, a un’ora imprecisata della notte, storduto come a una gallina, con la testa diroccata e le ossa fradice.

Il fatto è che non riesce nemmeno a ricordare come, dove cazzo, con chi…

Si concentra, spreme le meningi. Ecco, sì: come in un sogno, ricorda di essersi andato a stendere in camera subito dopo cena, senza manco prendersi la briga di sparecchiare in cucina. Poi gli pare d’essersi assopito… No, ‘momento! La vibrazione del telefono sul comodino gli aveva riaperto le palpebre: Luca, che gli proponeva una serata in quel locale, là, come si chiama… non ricorda… comunque una traversa di San Vitale. Voglia non ne aveva, mica, ma come ogni volta s’era lasciato convincere. Poi s’erano imbarcati pure Maso, Enzo e Tino, però già nel procacciarsi la prima consumazione, in mezzo al trambusto di gente che c’era inchiavicato là dentro, li aveva persi di vista e s’era ritrovato solo. Allora era uscito dal locale e aveva provato a chiamarli al telefono, uno a uno, ma nessuno aveva risposto e li aveva mandati idealmente affanculo.

E poi, che era successo poi? Un vuoto, non ricorda… Anzi no, forse qualcosa… Ecco, sì, ricorda d’essersi riavuto di colpo come da un deliquio, seduto su uno scalino in un vicolo scuro e forse cieco, con la nuca schiacciata contro una serranda chiusa. Ricorda pure che poco distante ci stava un gruppetto di matricole che s’atteggiavano a intenditori-di-sta-minchia e parlottavano di decadentismo, atti poetici e stronzate simili. Perciò, con le tempie picchiettate dal chiacchiericcio e un forte mal di testa che gli s’andava inoculando in fondo al cranio, Giobi s’era risolto a compiere l’atto più poetico che potesse fare in quel momento: alzarsi e andarsene. Aveva anche immaginato, ad accompagnare il gesto, gli applausi di uno stadio gremito di gente, una standing ovation per l’uscita di scena più trionfale della storia del calcio… Poi, calato il silenzio, come risucchiato da un vortice di chissà quali forze ipno-magnetiche, doveva essere riuscito in qualche modo a trascinarsi fin lì, su una panca del San Leo, unico giardino della città presidiato in orario notturno da una vecchia isterica e, a quanto pare, aspirante omicida…

Porcadiquellatroia!

E adesso se ne sta là, fuori al cancello del parco, in preda agli strappi della sua memoria, intento a raffazzonare gli scampoli d’una serata allucinante come poche. Se ne sta là con il cervello in panne, mezzo in catalessi e l’altro mezzo in paresi, che tenta di darsi una smossa, di chiamare a raccolta le poche forze rimastegli per pigliare la via di casa, ché sarebbe quasi ora. Eppure Giobi è sconvolto, incredulo, lobotomizzato: “Ma che minchia mi hanno fatto fumare? Quale cazzo di droga m’hanno messo in quel Negroni, che peraltro faceva pure schifo?”

Coi pensieri assediati da punti di domanda senza risposta, Giobi si guarda intorno e gli pare tutto assurdo, manco l’avessero scritturato per una comparsa a sua insaputa in un film di Lynch o per un ruolo da coprotagonista in un’esilarante puntata della Pimpa.

Gli sorge il dubbio che quella foschia non stesse davvero là fuori, densa e lattiginosa, ma che invece altro non fosse se non una proiezione sbieca della sua mente allucinata.

Le luci pendenti sulla strada, appese in serie a un doppio cavo che sorvola in lunghezza il centro della via, hanno l’aria minacciosa di una schiera di dischi volanti, là sospesi in agguato, pronti a nebulizzare qualsiasi forma di vita capitasse a tiro nel loro raggio d’azione, in mezzo a quel cono oblungo e luminescente. Con un gesto a rilento della mano scaccia l’idiozia di ‘st’ultimo pensiero, ma non riesce a liberarsi della sensazione di essere rimasto intrappolato in una specie di dormiveglia permanente, irreversibile, al confine preciso tra la veglia e il sonno…

Deglutisce, ma la bocca è pastosa, non un filo di saliva.

Poi, trascorso là impalato un tempo che stimato in rapporto alla sua percezione potrebbe oscillare da un paio di minuti a ben più di mezz’ora, Giobi trova finalmente il coraggio di addentrarsi nella bruma notturna. Prende a dinoccolare con andatura lenta, strascinata, testa china e spalle ricurve, ma al contempo gli sembra di camminare come sospeso a mezz’aria, su e su, fin quasi a levitare sopra i cerchi di luce e librarsi leggero sopra i tetti.

Alza il capo e adocchia alcune paia di scarpe appese coi lacci al doppio cavo dei lampioni. La visione lo fa vacillare e incespicare quasi sui propri passi, come se pure le sue, di scarpe, si fossero impigliate in qualcosa. Qualcosa di impalpabile, d’evanescente, trappola tesa dalla sua stessa immaginazione.

Ma più la realtà si distorce e più la sua mente sembra godere d’una strana beatitudine, del tutto fuori luogo in uno scenario come quello…

D’un tratto Giobi inchioda il passo, e come rapito da angelica visione resta a fissare un punto indefinito alla base del muro. S’accosta, sgrana gli occhi e poi li sbarra: non può essere, uguale e spiccicato agli altri due.

Un coniglio nero.

Un altro cazzo di coniglio nero!

Mesmerizzato dalla scoperta improvvisa, Giobi va per carezzarlo, ma quello, un attimo prima che le dita lo sfiorino, scompare. Nel nulla.

Neanche il tempo di bestemmiare che il graffito ricompare qualche metro più avanti, lungo la medesima parete. Giobi si stropiccia di nuovo gli occhi e, sicurissimo che non si tratti di allucinazione, raccoglie la sfida e si lancia, braccia in avanti, addosso al gerbillo provocatore.

Rimedia però solo una gran botta alla capoccia, perché il piccolo bastardo gli sparisce di nuovo sotto il naso. Irritato, si risolleva e dà sfogo alla nervatura mollando un calcione contro un bidone dell’immondizia sul ciglio opposto della strada. Il cassonetto si ribalta sul marciapiede e dal pattume gli pare di veder sgattaiolare l’ombra di qualcosa che no, non può essere un gatto randagio. È un coniglio, invece… il coniglio di poco prima!

Stavolta, però, Giobi si frena, e sceglie di usare le buone: s’avvicina piano, in punta di piedi. Ma quand’è sul punto di acciuffarlo quello gli sguscia di nuovo tra i piedi e comincia a zampettare dritto per dritto, rasente alla parete e senza spiccicarsene.

Non ha più senso, a ‘sto punto, chiedersi se quel coso sia reale oppure no. La sola cosa da fare è seguirlo, come Alice col Bianconiglio.

Il paragone è d’obbligo, – pensa Giobi. Non fosse che questo qui si direbbe più il gemello cattivo del coniglio di Carroll, o semmai l’ombra, magari perduta e non ancora ritrovata (‘momento, no, quello era Peter Pan… Mamma mia che male di capo!).

E intanto, come fosse un’ombra per davvero, il nero-coniglio continua a filare via lungo la parte bassa del muro. E Giobi ansimante appresso, sospeso a metà tra Belmeloro, l’isola che non c’è e un più che mai stupefacente Paese delle Meraviglie.

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