di Gianpietro Miolato

590x332xm_i_5_1.jpg.pagespeed.ic.BIgX5zqg4AL’assenza di sporco.
Dell’ultimo capitolo della saga di Mission: Impossible è questo l’aspetto che mi ha colpito di più. Prima d’arrivarci, però, meglio fare un quadro generale.
Realizzato a quattro anni da Protocollo Fantasma, Rogue Nation riporta sullo schermo l’agente Hunt e lo inserisce in una nuova situazione ai limiti della logica per salvare le sorti della pace nel mondo. Coadiuvato dalla cricca di agenti/amici già apparsa nel terzo e quarto episodio, Ethan si muove tra Europa (Vienna e Londra) e Africa (Marocco) per sconfiggere Solomon Lane, super-cattivo di turno a capo del Sindacato, organizzazione terroristica speculare all’IMF (Impossible Missions Force).
Nell’ottica della saga, Rogue Nation svolge più che efficacemente il proprio compito e porta a casa un incasso che supera il mezzo miliardo di dollari (dati Box Office Mojo all’11/09/2015), e un plauso dalla critica specializzata (Rotten Tomatoes segna il 92% di recensioni positive; Metacritic il 75%; Richard Roeper del Chicago Sun-Times assegna 3.5 stelle su 4). I motivi del successo sono da ritrovarsi nella conferma di elementi che hanno decretato il successo dell’intera saga: località esotiche in cui svolgere l’azione; sequenze pirotecniche ben orchestrate (quella all’Opera di Vienna su tutte); donne emancipate pronte all’azione; spruzzate di umorismo per smorzare la seriosità degli eventi (è qui evidente l’ampliamento del ruolo di Simon Pegg rispetto ai capitoli precedenti); ; happy end consolatorio e Tom Cruise al massimo della forma e della giovinezza (il magazine Now riferisce grazie a una miracolosa maschera esfoliante da 210 dollari a seduta, a base di merda d’usignolo, farina di riso e acqua: contento Tom). Christopher McQuarrie, quinto regista al timone del franchise e chiamato dopo tre collaborazioni col protagonista (Operazione Valchiria; Jack Reacher; Edge of Tomorrow), conosce bene gli ingredienti con cui lavorare e li organizza per fornire allo spettatore quello che si aspetta. In particolare dirige le scene le sequenze d’azione utilizzando un montaggio concitato, così da infondere un senso di costante frenesia attraverso inquadrature che durano pochi secondi. Piacere della conferma, dunque. E qui sorge il problema.
Terminata la proiezione mi sono posto una domanda: cosa mi ha dato questo film oltre a due ore di spensieratezza? Quando vado al cinema a vedere un film come Rogue Nation non ci vado con l’intento di trovare una metafora del presente o altre fesserie intellettualoidi. Ci vado con l’intento di divertirmi. Se poi c’è qualche chiave di lettura ulteriore al semplice tempo della proiezione tanto meglio, ma non è indispensabile. In tutto questo, però, la domanda che mi sono posto era ben consapevole di quello che mi aspettava; sapevo che “l’intrattenimento immediato” sarebbe stato il fine ultimo della pellicola, eppure mi è parso non fosse abbastanza nemmeno così.
Se paragono M:I 5 a Terminator 2 in un’ottica di confronto tra film d’azione, posso esprimere un giudizio di gusto preferenziale, ma non posso non riconoscere che Cameron abbia rivoluzionato l’utilizzo degli effetti speciali grazie all’innovazione apportata al morphing. Alla luce di ciò, allora, che innovazione ha apportato M:I 5? Che cosa ha avuto di nuovo da dare allo spettatore?
Lungo i 131 minuti mi è sorto il dubbio che il film non avesse altra ragion d’essere se non Tom Cruise. Da qui l’attenzione sull’assenza di sporco di cui ho scritto all’inizio. Negli scontri, nelle scazzottate, negli incidenti, nei salti e contro-salti, l’attore non si sporca. Non importa quanto l’ambiente attorno a lui sia malsano o quanto gli avversari possano sanguinare, lui ne esce immacolato (solo dopo una caduta in moto gli abiti non sono puliti, ma Tom è illeso). Questa capacità di superare i limiti dell’umana escoriazione epidermica, è qualcosa che già era stato ben evidenziato nei capitoli precedenti. Riproporlo è rientrato nell’ottica di riconferma che ha portato alla buona riuscita del film. Ma oltre a questo qual è il fine ultimo (oltre l’incasso)? Legittimamente può non essere nessun altro se non il box office – cosa da non biasimare contando i 150 milioni di dollari investiti – però risulta una scelta limitata.
Lo scorso anno è uscito nelle sale un film intitolato John Wick. Diretto da Chad Stahelski (e David Leitch, non accreditato), la pellicola mostra le gesta di un ex killer che, dopo aver subito un torto personale e il furto dell’auto, compie una mattanza dei suoi nemici. Alcuni elementi sono riscontrabili nella saga di M:I: il superomismo del protagonista; l’intento intrattenitivo alla base della fruizione; l’assenza di sovrastrutture interpretative. Due elementi, però, differiscono in maniera importante: il protagonista sanguina e soffre; le scene d’azione sono assemblate con montaggio non frenetico.
Guardando un film come John Wick viene da chiedersi come mai in Rogue Nation si abbia rinunciato in toto ad un approccio in cui a un pugno seguisse un’escoriazione o in cui una scazzottata fosse comprensibile nel suo svolgersi.
Con questo non voglio appellarmi a idee di “realismo”. So bene che pretendere una precisa consequenzialità logica non è ammissibile in un film che dichiaratamente non vuole proporla, così come so che parlare di realismo riferendosi al cinema è assai ambiguo (anche in un film dei fratelli Dardenne non c’è un realismo “completo”, in quanto tagliare dall’inquadratura alcune vicende è una scelta che elimina parti del reale), però un briciolo di verosimiglianza non avrebbe guastato. Questo poteva essere un elemento innovativo della saga e poteva dar ragione di un di più visivo. E se proprio vogliamo andare in fondo, e teniamo sempre John Wick come metro di paragone, McQuarrie avrebbe potuto girare le scene d’azione prendendo fiato, lasciando che le inquadrature durassero 3-4 secondi, dando quindi allo spettatore la possibilità di stupirsi seriamente per gli stunt di Cruise perché in grado di comprenderli (d’accordo, c’è la propagandata sequenza di Tom appeso al portellone di un aereo che impressiona, ma non basta in un arco narrativo di oltre due ore). Brian De Palma e John Woo avevano infuso una profonda dose di autorialità alle scene d’azione (coi virtuosisimi tecnici, il primo; con la messa in scena dell’azione a mo’ di balletto, il secondo); J.J. Abrams ha tentato di infondere spessore umano a Hunt (vedi la figura della moglie); Brad Bird ha usato un montaggio frenetico ma non confuso (vedi la sequenza di Dubai). McQuarrie no.
Non si è avuto il coraggio di osare e si è andati sul sicuro – inteso come “stordimento = intrattenimento”.
La domanda sull’utilità di questo film resta per me senza una risposta positiva. Certo, il franchise risulta sano ed efficace, Tom Cruise conferma di non sbagliare un colpo al botteghino e un sesto capitolo è già in fase di pre-produzione. Ma cosa resta di più, al di là di un film che ha molto incassato?
Io non lo so e difficilmente credo riuscirò a scoprirlo.
Temo anche di fronte a Mission:Impossible 6.