di Erminia (“Ermina”) Mattarelli. Testimonianza raccolta da Michela di Mieri

Partigiane3Qui le puntate precedenti.

Verso la fine di aprile, cominciammo a sentire i bombardamenti farsi sempre più continui e vicini. Ci chiedevamo il perché di tutti quei carri armati che passavano di notte e di tutto un via vai sempre più frenetico. Non potevamo certo sapere come stavano le cose: la famosa Liberazione era arrivata a Bologna e provincia, e la linea del fronte si era spostata proprio dove stavamo noi, per questo la battaglia infuriava con tanta violenza. La mattina del 22 aprile del‘45, sotto un bombardamento che aveva come obiettivo proprio il carcere di Ferrara, eravamo nel cortile per l’ora d’aria; stavamo lì a fare le pulizie col nostro bugliolo e a raccogliere i cocci divelti dai muri e i pezzi di metallo (potevano sempre venire utili). Finita l’ora tornammo in cella. Dopo un po’, la porta della cella si aprì ed entrarono cinque brigatisti… fu tragica in quel momento lì; tutte pensammo: questa è la fine, o ci portano via o ci uccidono qui. Ci guardammo, ci stringemmo tutte le une alle altre. Quello che sembrava essere il comandante, con in mano il foglio con tutti i nomi dei detenuti, disse: “Chi è la Bianchi Lenina? “, io risposi: “Qui siamo tutte Bianchi Lenina!”. Lui : “Ho detto: chi è la Bianchi Lenina!”, io: “Lo ripeto: siamo tutte Bianchi Lenina!”; allora lui mi diede una sberla, ma data bene. Sono nata ribelle per diritto alla vita e per difendermi, e, anche se stavo per morire, la mia dignità ebbe un sussulto: mi dissi basta, basta botte da questi banditi! Gli diedi due sberle, ma con tutta l’ira e tutta la rabbia che sentivo dentro di me, talmente forti che gli apersi le cicatrici che aveva sul viso; erano ancora fresche, e cominciarono a sanguinare. Al che lui sorrise, certo del fatto che le persone che stava liberando erano quelle giuste, e disse: “Svelte! Svelte! Siamo partigiani, siamo venuti a liberarvi”. Il comando partigiano a Molinella, infatti, aveva dato disposizioni perché liberassero le partigiane ancora prigioniere nel carcere di Ferrara.

Non poteva fare diversamente, perché non poteva presentarsi come partigiano!

Io crollai, non so se dal dispiacere di averlo picchiato, o per l’emozione a sentire quella parola: liberarvi… L’Orietta gli disse: “ Dimmi come ti chiami, che almeno, se ti rincontro un giorno, io ti possa ringraziare!”, lui rispose: “ Non ringraziarmi… sai che il nome non lo posso dire, ti dico solo che sono un avvocato”. Aprirono il cancello della cella, ma prima di lasciare il carcere andammo ad aprire le celle di tutti gli altri detenuti, perché quelli che c’erano dentro, anche se ladruncoli, erano sempre meglio di quelli che erano fuori. Liberammo tutti, e poi via, libere finalmente! Si unì a noi anche Fiero Romagnoli.

Raggiungere Molinella non era facile; prima di tutto il fronte era lì, per cui noi eravamo tra due fuochi: piovevano bombe ovunque , un fuoco tremendo dappertutto. La strada era inagibile: i ponti erano stati fatti saltare, il fiume era in piena, e non sapevamo come fare per passare gli argini; in più non sapevamo che direzione dovevamo prendere, e non c’era nessuno in giro cui poterlo domandare. Cominciammo a camminare per la campagna ferrarese, e ci accorgemmo che, a forza di girare, stavamo tornando a Ferrara: vedemmo il castello da lontano; la Lenina urlò: ”Eh! La Madona! Sagna a Frera un’etra volta![1]. Allora via, tornammo indietro, di corsa, sempre di corsa, scalze, perse, sotto il fuoco… non si possono spiegare certe cose.

Ad un certo punto arrivammo vicino a San Bartolomeo, in aperta campagna. C’era una famiglia tutta disperata; la mamma stava attaccata ad un albero dove gli avevano ucciso un figlio, gli altri la chiamavano da dentro una specie di rifugio che si erano costruiti: un buco in terra coperto con dei fasci di legna, ma lei non voleva saperne di staccarsi da lì. Noi ci siamo avvicinate e le abbiamo raccontato la nostra storia, abbiamo cercato di farle coraggio, e lei, sentendo solidarietà per il suo dolore, non solo ha accettato di entrare nel rifugio, ma ci ha invitate a trascorrere la notte dentro con loro. Per tutta la notte abbiamo sentito un lavoro, un inferno sopra le nostre teste! Carri armati, gente che correva, urli, bombe, spari. Verso il mattino non si sentiva più niente: sembrava un sogno. Uscimmo dal rifugio; tutt’intorno cadaveri, terra bruciata e distruzione, ma anche delle lenzuola bianche stese alle finestre delle case ancora in piedi: non era bucato steso, era il segnale che lì era zona liberata! Per noi era una liberà tanto attesa, tanto sognata! Eravamo ai confini tra il ferrarese e il bolognese, e trovammo i carri armati dei nostri cosiddetti alleati americani che ci venivano a prendere per portarci a Molinella, perché avevano ricevuto la comunicazione che le partigiane erano state liberate e che stavano tentando di tornare verso casa.

Ci sono venuti a prendere coi carri armati: è stata una cosa che mi ha fatto male… abbiamo detto: “NO!” tutte! Non sarei mai entrata nel mio paese su un carro armato! MAI! Ne avevo già visti troppi, e avevo rischiato la vita mia e dei miei cari, proprio per non vederne mai più; avevo combattuto una guerra perché fosse l’ultima, per lasciare al futuro una società più giusta e pacifica, e così le migliaia di compagni che con me soffrirono e morirono, e non era coerente accettare un rientro a Molinella liberata su di un mezzo di distruzione! Così, loro ci seguirono con i carri, e noi proseguimmo davanti a loro, a piedi, scalze, ferite, esauste, per altri venti km. La radio aveva già diffuso la notizia della nostra liberazione, e fu una gioia immensa, perché, strada facendo, c’era tutta la gente sui cigli delle strade, sulle porte, a salutarci; c’era chi ci dava un fiore, chi un bicchiere d’acqua: non riuscivamo ad assaporare quei momenti, perché ci sembrava ancora di sognare, non ci sembrava vero quello che vedevamo.

Arrivammo al nostro paese, e trovammo le autorità ad aspettarci, tra cui il sindaco fresco fresco, Martoni, un socialista. C’erano mio marito, i miei figli, malati ma vivi, mia madre, distrutta ma non avvilita, sempre forte…che gioia fu il poterci riabbracciare! Ma ci furono ancora morti, troppi morti da contare: il figlio della Dirce non ritornò, cadde combattendo a Montefiorino, aveva venti anni; mio fratello fu ucciso il 20 aprile!

Davanti a noi c’era un mondo da ricostruire, tutto da ricominciare, mille nuove lotte da affrontare.

Fu diramato l’ordine di deporre e consegnare tutte le armi[2]. Noi le mettemmo tutte in una bara, con l’impegno, un giuramento fatto sui nostri caduti, che non le avremmo usate mai più, che nessuno avrebbe più usato un’arma, perché non volevamo più guerre. Purtroppo, invece, quelle armi e molte altre sono state prese, e usate anche contro di noi partigiani…questa è la cosa che mi pesa ancora oggi.

Io, per non impazzire tra i ricordi, mi buttai a capofitto nella ricostruzione di Molinella: la mia coscienza era ancora viva, e volevo risanare, riparare tutto il male che ci avevano fatto. Fui eletta consigliera comunale. Avevo il compito più amaro: la distribuzione dei generi contingentali. Non c’era nulla da dare a nessuno, la miseria era sovrana ovunque. Quello che si riuscì a fare, fu, anche in questo caso, merito delle donne, mondine e braccianti. Di loro iniziativa, fecero il giro dei contadini e presero le famose primizie che questi dovevano al padrone come regalia; invece che agli agrari, le distribuirono a chi aveva più bisogno: i poveri, gli ammalati, gli ospedali, gli orfanotrofi. Furono le donne ad organizzare tutto, a mettere in campo questa rete di solidarietà!

Un’altra attività di quel periodo, era la ricerca dei nostri prigionieri, internati militari e deportati sopravvissuti ai lager nazisti, sparsi per l’Italia e l’Europa, e non ancora tornati. Una volta si organizzò una spedizione dalle parti di Trieste, e partimmo col camioncino di Bologna. Eravamo lì che giravamo per le strade, quando vedemmo un ragazzone alto e biondo tutto sporco e barcollante; quando lui si accorse che era il camion di Bologna, si sbracciò e noi lo caricammo. Durante il viaggio lo riconobbi: era Ivano, il figlio della Matilde Mariani, quella che aveva fatto la spia e mi aveva fatta arrestare la prima volta. Arrivati a Molinella, lo portammo a casa da sua madre. Il giorno dopo, la Matilde venne all’ufficio dei generi contingentali chiedendo le razioni che spettavano a lei e suo figlio; io le dissi: “ A te non do niente, a Ivano spetta anche la tua parte, ché se la merita; mandamelo qui domani, che voglio che sappia la verità da me, non dalla gente in giro che storpia sempre le cose”. L’indomani arrivò sto bel biondone tutto pulito che non sembrava neanche più lui, prese la sua razione ed io, facendomi coraggio, cominciai a parlare. “Ivano – gli dissi – devo dirti una cosa che non ti piacerà, ma sei un uomo forte, hai superato il campo di concentramento, ed è giusto che tu sappia come stanno le cose da me. Mentre tu eri in un lager perché hai combattuto per un’idea, tua madre qui faceva la spia per i tedeschi ed i fascisti. Finita la guerra avrei potuto denunciarla, ma non l’ho fatto perché non ne vale neppure la pena, però non dimentico…”, e gli feci leggere la denuncia che avevo subito a causa sua, come prova. Il dolore che provò quel ragazzo fu enorme: si sentì tradito dalla sua stessa madre; infatti, anche se la perdonò, si staccò da casa, e, per lavoro, girò molto all’estero.

Le cose, intanto, miglioravano nella mia famiglia. Sarò grata per sempre a Togliatti per essersi preso a cuore i miei figli: senza il suo aiuto e quello del partito, il PCI, sarebbe stata più dura. La Nara frequentò la scuola per infermiera professionale e assistente sanitaria all’ospedale S.Anna di Ferrara, ed il primo anno di studi glielo pagò Togliatti con il partito: £ 5000! Quanti soldi erano per allora!

Dopo un po’ io crollai; ero sfinita, le ferite non guarivano, zoppicavo, avevo dei dolori insopportabili, volevo resistere, andare avanti, ma c’è un limite a tutto.

Fui ricoverata al Putti, un ospedale militare; da lì mi mandarono in un convalescenziario dello Stato per i partigiani, Villa Altura, a Bologna. Riposarmi e curarmi andava bene, ma se stavo ferma a letto tutto il giorno senza fare niente, mi ammalavo ancora di più; i medici si accorsero del mio carattere irrequieto, così un giorno mi chiamarono in direzione. C’era il dott. Avellino, e mi chiese se fossi stata disposta ad occuparmi di una ventina di bimbi molto poveri provenienti dal napoletano, che l’ospedale aveva accettato di accogliere per curarli; mi avrebbero dato un appartamento molto grande all’ultimo piano della Villa, dove stare con loro. Io rimasi un po’ sorpresa; ero ammalata, non sapevo se sarei stata in grado di stare dietro a venti bimbi da rimettere in sesto, ma non potevo dire di no, non ne ero capace… accettai.

Arrivarono questi bambini, in venticinque; sembravano dei cagnolini: erano malmessi, sporchi, rotti, con delle giacche con le maniche che avevano trenta centimetri in più, al posto dei bottoni avevano le spille. Sono cose che mi demoralizzavano, mi chiedevo perché erano ridotti così; va bene la miseria, ma quello non era miseria, era non pensare a quei bimbi, era lasciarli a loro stessi, perché un bottone, anche nella più nera miseria, lo si riesce ad avere. Arrivarono in stazione a Bologna, stanchi e affamati. Appena ci sentirono parlare in dialetto fra noi, ci sfuggirono di mano; urlavano spaventati: “Ci hanno portato tra i Russi, adesso ci uccidono, aiuto!”…non conoscendo il dialetto bolognese, erano convinti che fossero capitati un Russia. Dopo un po’ di battaglia li recuperammo, spiegandogli dov’erano e perché.

Sono stata cinque mesi con quei ragazzi lì, ma se lo dovessi rifare, forse ci penserei due volte! Alla fine, riuscii a renderli presentabili e civili, ma quello che non ho faticato! Per tutto, una lotta: quando bisognava portarli a lavare erano urli e liti, perché non venivano, dicevano che noi li avremmo annegati. Quando era pronto da mangiare idem, perché avevano paura che il cibo fosse avvelenato; così mangiavo io per prima, e loro si tranquillizzavano.

La ragazzina più grande, Di Bauni Francesca, era un po’ il loro capo: gli altri facevano come faceva lei. Il problema era che era una cinna tremenda e molto diffidente, perché il parroco del loro paese, prima che partissero, li aveva messi in guardia contro di noi, i comunisti emiliani, perché li avremmo uccisi e poi mangiati, e sciocchezze simili, e lei stava molto attenta a quello che facevamo. Mi ricordo quando avevamo il problema di togliergli i pidocchi. Tutti ne erano pieni zeppi, ed io feci di tutto per farglieli andare via, ma le uova non morivano, così, quando venne il dott.Bianchi per la visita, glie ne parlai. Lui decise che l’unica era rasare a zero tutti quanti. Quando la Francesca lo sentì, si mise ad urlare come una matta ed a sobillare gli altri. ”Aveva ragione il prete! Me lo aveva detto che mi avrebbero tagliato i capelli!”, poi sputò in faccia al dott.Bianchi e mi diede un calcio. Il dottore la prese per un braccio e in tono severo le intimò:” Chiedi scusa a questa signora che è qui in ospedale per farsi curare e invece sta qui a prendersi cura di voi! E dì a tua mamma che invece di farti la permanente- Francesca aveva, infatti, dei lunghi boccoli permanentati- poteva pensare a toglierti i pidocchi da dosso!”. Quella volta non chiese scusa, ma poi, piano piano, con una gran pazienza, divenni la Mamma di questi bambini.

Mi feci dare una macchina da cucire, io ero anche sarta, e gli confezionai dei vestiti nuovi con della stoffa; andai a batter cassa dai signoroni di Bologna, così gli comprai delle scarpe. Quando venne il momento, li lavai e li pettinai, indossarono gli abiti e le scarpe nuove, e li portai giù nella mensa del convalescenziario, per mostrarli a tutti. Fu una bella soddisfazione: erano bellissimi, sembravano tanti fiorellini! Non sembravano neanche più gli stessi di prima, e loro gongolavano dalla contentezza. La Francesca, di sua spontanea volontà, scrisse una lettera al suo parroco:” Appena torno, verrò a Messa, ma mi metterò sul pulpito di fianco a lei, e dirò che lei ha detto tante bugie: sì che ci hanno dato da mangiare, ma non erano avvelenate le tagliatelle; sì che ci hanno lavato, ma non ci hanno affogati; sì che ci hanno tagliato i ricci, ma erano pieni di pidocchi…” .

 

[1] “Eh! La madonna! Siamo a Ferrara un’altra volta!”

[2] L’Amministrazione Alleata decretò che, alla fine del conflitto, i partigiani dovessero non solo deporre le armi, ma anche consegnarle al Comando Alleato. A chi veniva trovato in possesso di armi, venivano inflitte pesanti condanne.