di Alessandro Ammetto

chiapas[Pubblichiamo un estratto dal saggio di Alessandro Ammetto Siamo ancora qui (Redstarpress 2014, pp. 361, euro 22), una storia del Chiapas e dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale] A.P. 

Fin dalla guerra di indipendenza dalla corona spagnola (1810-1821), lo stato messicano mantenne un comportamento ambiguo nei confronti degli indigeni. L’idea illuminista delle libertà individuali, da un lato portava alla definizione di uguaglianza tra tutti gli uomini (nel ‘Plan de Iguala’ del 1821 si riconobbero cittadini con pari diritti tutti gli abitanti della Nuova Spagna, senza distinzione alcuna fra europei, africani ed indigeni) dall’altra ignorava l’esistenza di strutture sociali che male si conformavano alla concezione europea e settecentesca di libertà. Questa fu la concezione sociale che emerse dal primo Congresso del Messico indipendente nel 1824 che, nonostante stabilisse l’uguaglianza tra tutti gli uomini, rifiutò di prendere in considerazione il mondo indigeno. Il liberale José María Luis Mora propose anche di abolire la distinzione etnica e culturale, e di tracciare solo differenze di carattere economico. Degli indigeni si sarebbe dovuto parlare come degli strati poveri della popolazione (senza mai chiedersi il motivo di questa coincidenza) fino ad arrivare a proporre di abolire la parola indios. Questa mentalità influenzò la costituzione dell’organizzazione federale, statale e municipale. Il Messico si organizzò secondo una struttura che partiva dal presupposto dell’inesistenza indigena. La Costituzione riconobbe agli indigeni lo status di abitanti originari ma dall’altra parte, rifiutando la loro diversità culturale, trovò difficoltà a legiferare nel loro rispetto. Ad esempio, nella Costituzione federale messicana del 1824, si stabilì che era facoltà del Congresso dell’Unione degli Stati Messicani regolare il commercio con le nazioni straniere, tra i differenti stati della federazione e tra le differenti tribù di indigeni. La disposizione però non corrispondeva a nessuna realtà sociale: non erano certo le questioni commerciali a rappresentare i problemi dei popoli indigeni, che invece stavano lottando in difesa della propria identità collettiva e delle proprie terre comunali, assediate dai latifondisti e condannate al frazionamento dalle leggi federali. La disposizione fu inserita semplicemente perché l’articolo in questione fu copiato testualmente dall’Articolo 1 Sezione 8 Comma 3 della Costituzione Federale degli Stati uniti d’America del 1787. In quest’ultimo caso però il riferimento alle tribù rispondeva alla necessità reale di regolare il rapporto tra le tredici colonie e le nazioni indiane confinanti, che all’epoca costituivano entità politiche autonome e distinte.
Il “problema” degli indigeni fu sempre visto nell’ottica dell’integrazione delle popolazioni originarie con le popolazioni colonizzatrici, da realizzarsi attraverso dei processi di acculturazione e assimilazione. Un liberale del XIX secolo, Emilio Rabasa, pur esaltando le civiltà preispaniche che costituivano il capitolo glorioso della messicanità e l’elemento distintivo del Messico rispetto ai canoni europei, negò una relazione diretta tra gli indigeni annientati dai conquistatori e quelli esistenti: i primi nobili e civili, i secondi inetti e selvaggi. Rabasa ovviamente non pensò mai che gli indigeni si erano spinti sulle montagne per sfuggire alla schiavitù e al massacro cui li avevano sottoposti i bianchi e che erano primitivi e irredenti a causa dell’aggressività dei conquistatori. Nella concezione dei liberali messicani, e di tutte le élites successive, agli indigeni non rimaneva altra scelta che redimersi entrando in stretto contatto con i bianchi. Una concezione nata ovviamente dall’idea europea degli indigeni come razza inferiore che, per uscire dalla propria condizione di miseria materiale e spirituale, dovevano acquisire la cultura del conquistatore. Questa concezione venne assorbita anche da chi creolo non era; anche Benito Juárez, indigeno zapoteco e uno dei fondatori della nazione messicana, fu intriso di questa idea tanto da credere che copiando le leggi nordamericane il Messico sarebbe cresciuto come gli Stati uniti.
Per tale motivo la struttura della Costituzione messicana del 1857 (come quella del 1824) si ispirò a quella statunitense; e come in quest’ultima, le popolazioni autoctone furono quasi completamente ignorate. Anzi, per la macchina costituente statunitense, l’esistenza dei popoli autoctoni rappresentò una contraddizione da superare. L’utopia degli spazi aperti, che svolse un ruolo importante nella prima fase della storia costituzionale americana, poteva essere verosimile solo a condizione di ignorare l’esistenza dei nativi americani oppure di considerarli una componente quasi umana dell’ambiente naturale, che doveva essere addomesticata. Come i pionieri si dovevano proteggere adeguatamente contro i rigori dell’inverno, allo stesso modo dovevano armarsi contro le popolazioni indigene; come la terra doveva essere liberata dagli alberi per essere coltivata, allo stesso modo doveva essere liberata dai nativi che la abitavano. Viceversa, se gli indigeni fossero stati riconosciuti, non ci sarebbe stato un vero spazio libero da occupare; perciò essi dovevano essere sgomberati via per liberare la terra e rendere possibile l’espansione della frontiera.
Un primo segnale di interesse per la questione indigena avvenne nella prima metà del secolo scorso, per interessamento del presidente Lázaro Cárdenas del Río. Nel 1937 fu creato il Dipartimento di Educazione Indigena, dipendente dalla Segreteria di Educazione Pubblica che passò, l’anno successivo, prima sotto il Dipartimento delle Questioni Indigene poi sotto il Centro di Potenziamento Economico con l’obiettivo di insegnare tecniche agricole e industriali agli indigeni. Sempre su pressione del presidente, nel 1940 a Pátzcuaro, nella regione del popolo purépecha, venne organizzato il primo Congresso Indigenista Interamericano che portò nel 1948 alla nascita dell’Instituto Nacional Indigenista (Ini) e dell’Istituto Indigenista Interamericano (Iii) con i rispettivi organi conseguenti per ognuno degli stati messicani. In seguito, i governi populisti degli anni sessanta e settanta, intravidero la possibilità di convogliare le spinte identitarie e liberatrici dei popoli indigeni all’interno della stessa struttura di potere. Furono nominati i consigli di etnie, raggruppati nel Consiglio Nazionale dei Popoli Indigeni, incaricati di sviluppare programmi finanziati da sovvenzioni statali nelle regioni abitate dagli indigeni. Furono però organizzazioni create ex novo dalle istituzioni governative e che dunque non riflettevano le istituzioni tradizionali indigene né i bisogni dei nativi; il primo direttore dell’Ini fu l’antropologo ladinos Manuel Gamio, figlio di un latifondista. Nella progettazione di queste istituzioni non venne chiesto agli indigeni quali fossero le loro necessità né vennero coinvolti nell’amministrazione; il presupposto infatti non partiva dal riconoscerli come popoli con diritto a un’esistenza differente, ma come minoranza culturale che col tempo sarebbe dovuta scomparire. Queste istituzioni entrarono subito nell’orbita del potere e servirono solo a perseguire una strategia clientelare ed una politica di contenimento delle rivendicazioni degli indigeni.
Dagli inizi degli anni settanta però, iniziarono a sorgere organizzazioni indipendenti o di classe, spesso di ispirazione progressista o di sinistra, come risposta ad una congiuntura economica che li stava penalizzando: il crollo del prezzo del caffè nelle comunità del Nord e il più basso costo della manodopera offerta dai profughi di guerra del Guatemala. In Chiapas, un ruolo importante per le rivendicazioni indigene fu svolto dal Congresso Indigeno di San Cristóbal de Las Casas che si svolse tra il 12 e il 15 ottobre 1974, in un momento in cui il movimento sociale si stava rimettendo in moto. Fu in occasione di due sollevazioni nei municipi di Larráinzar e di Venustiano Carranza (quest’ultima d’intesa con un gruppo guerrigliero di quegli anni, i “lacandoni”) a cui si aggiunsero i conflitti elettorali a San Juan de Chamula e l’occupazione di terre della Frailesca (iniziata ad opera dell’organizzazione Alianza campesina 10 de Abril) che il governo volle organizzare un congresso indigeno pacificatore. L’organizzazione venne affidata al vescovo Samuel Ruiz García che accettò a condizione di avere sufficiente tempo per organizzarlo (vennero concessi sei mesi) e che i delegati al Congresso fossero stati realmente rappresentanti delle comunità. Il vescovo mobilitò centinaia di catechisti, diaconi e pastori, gran parte di origine indigena. Avvalendosi dell’enorme rete organizzativa tessuta dalla Diocesi comunità per comunità da circa un decennio prima, i coordinatori realizzarono, nei mesi precedenti, incontri regionali e subcongressi, in base al metodo tradizionale di seminare e raccogliere la parola. Inoltre insegnarono agli indigeni a leggere e scrivere nelle loro lingue madri e a tradurre simultaneamente. Il giorno dell’inaugurazione, un gruppo di indigeni di San Juan Chamula manifestò davanti al municipio per denunciare una frode nell’elezione dei delegati da parte delle autorità governative che volevano controllare il Congresso mediante persone di loro fiducia. Come conseguenza, il governo rinunciò alla partecipazione dichiarando illegale, politicizzato e sovversivo un Congresso che invece ebbe come caratteristica un’organizzazione gestita direttamente dalla base. La perdita di controllo sull’organizzazione, fece fallire il Congresso inteso come tentativo di “dialogo” tra le comunità indigene ed il governo. Tuttavia esso rappresentò un punto decisivo nelle possibilità dell’autonomia indigena.
I 1.230 delegati, rappresentanti di 250.000 indigeni di 327 comunità, parlarono nelle quattro lingue maggioritarie in Chiapas (chol, tzeltal, tzotzil, tojolabal) più il castigliano: gli interventi vennero tradotti simultaneamente in tutte le lingue da un gruppo di giovani traduttori bilingue. In questo modo, dirigenti e basi di diverse parti, fino ad allora isolati da barriere geografiche e linguistiche, si incontrarono e valutarono i loro problemi per unificare le richieste. Le differenti relazioni si concentrarono sia sui problemi interni che affliggevano ciascun villaggio (l’alcolismo e le divisioni) sia sui problemi di carattere più generale: la terra, la salute, l’educazione ed il commercio. I popoli indigeni riconobbero che buona parte dei problemi potevano e dovevano essere risolti da loro stessi cercando soluzioni a partire dalle risorse esistenti nelle medesime comunità. E questo valeva per ogni aspetto della vita. Così la relazione sulla salute concluse dicendo che “abbiamo bisogno di organizzare la nostra comunità per prenderci cura della salute”. Allo stesso modo videro il problema dell’educazione, arma chiave che doveva restare in seno alla comunità, ma che era invece in mano ad insegnanti esterni. Infine pensarono di organizzare mercati “autonomi” affinché i prezzi non dipendessero dalla speculazione degli intermediari. In questo senso il congresso aprì le porte al processo di recupero della dignità, che presupponeva riprendere la vita nelle proprie mani.
Negli anni seguenti, l’esperienza del Congresso catalizzò la maggior parte delle lotte e le organizzazioni contadine e indigene si moltiplicarono, “come quando si semina un campo ed improvvisamente nascono i frutti”. Incapace di dar vita ad una struttura unitaria, il Congresso si frazionò in varie correnti e tra il 1976 ed il 1982 i contadini delle regioni del sud messicano fondarono numerose organizzazioni, alcune tuttora esistenti. Alcune aderirono a gruppi di coordinamento su scala nazionale, ma nella maggioranza esse rimasero regionali o locali. Una delle organizzazioni regionali maggiormente attive fu la Coalicion Obrera, Campesina y Estudiantil del Istmo. Negli anni ottanta, partendo dalla città di Juchitàn, questa organizzazione divenne la punta di diamante delle lotte degli zapotechi contro i progetti governativi di sviluppo nell’istmo di Tehuantepec prima, e in tutto lo stato di Oaxaca poi. Viceversa, la Organizacion Campesina Emiliano Zapata (Ocez creata nel 1980), la Organización Campesina de Lucha Popular, la Central Independiente de Obreros Agricolas y Campesinos (Cioac sorta nel 1976) o la Alianza campesina 10 de Abril, furono sezioni regionali di organizzazioni nazionali che ebbero un ruolo importante nelle lotte socioeconomiche. Lotte per problemi legati alla terra, ai trasporti, alla diversificazione delle colture, alla commercializzazione del caffè, allo sfruttamento del legname, cioè in quei settori in cui i diritti indigeni venivano profondamente calpestati a favore dei poteri forti.
Le nuove organizzazioni si divisero tra quelle indipendenti, che dovettero fronteggiare una repressione durissima e nel corso della quale cadde assassinata la maggior parte dei dirigenti (secondo Amnesty International tra il 1982 e il 1985 vennero assassinati oltre 360 dirigenti indigeni e contadini, negli stati del Chiapas e di Oaxaca), e quelle cooptate dal governo che si impegnarono nello sviluppo di programmi economici sempre più svuotati di significato politico e che alla lunga persero anche i loro iniziali successi.
Un aspetto importante fu che lo sviluppo delle organizzazioni risultò maggiore nelle regioni ad alta presenza indigena, di nuova o di antica colonizzazione, in modo particolare nel Nord e nella selva Lacandona. Gli indigeni reinterpretarono alcuni aspetti della loro antica cultura, fondandoli sull’accordo, il consenso, la consultazione costante ed il controllo dei dirigenti da parte dell’assemblea.
In Chiapas, nel 1975 fu creata la Uniòn de Ejidos – Quiptic ta Lecubtesel (che in tzeltal significa “La nostra forza per la liberazione”), un’organizzazione che ebbe un ruolo importante nell’organizzazione delle rivendicazioni indigene e che, sebbene con nome diverso, è tuttora attiva. Un’emanazione di questa associazione raccoglieva la maggior parte delle comunità tzeltal delle valli chiapaneche, mentre un’altra emanazione raccoglieva le comunità tojolabal. La Quiptic, la cui caratteristica era di essere fondamentalmente indigena benché vi partecipassero anche alcuni piccoli coltivatori meticci, tentava di integrare tutte le dimensioni della vita indigena, fondendole insieme. Essa si poneva come omogenea dal punto di vista linguistico, religioso e dell’organizzazione sociale. Vi comparse, infine, anche una dimensione militare difensiva nei confronti delle sempre più frequenti aggressioni delle guardie private dei latifondisti (guardie bianche). Come afferma Yvon Le Bot, “Vi erano tutti gli elementi per sfociare in un comunitarismo armato”. Ma nonostante i possibili limiti, l’organizzazione ebbe un ruolo determinante nella mobilitazione e nell’organizzazione delle comunità indigene. Nel 1980 la Quiptic aderì alla formazione della Uniòn de Uniones Ejidales y Grupos Campesinos Solidarios de Chiapas costituitasi per riunire e coordinare tutte le organizzazioni indipendenti dalle istituzioni ufficiali. Nasceva così, dall’amalgama di entità locali, un’organizzazione di carattere non più etnico ma regionale, che riuniva seimila famiglie di circa centotrenta comunità e villaggi.
Per la loro capacità di aggregazione e di mobilitazione, le organizzazioni indigene sono sempre state oggetto di interessamento e di tentativi di assoggettamento da parte di altre organizzazioni politiche o religiose. Nei primi anni ottanta si ebbe una sorta di scontro per il controllo della Quiptic tra due organizzazioni che operavano a fianco degli indigeni: i catechisti della diocesi e la dirigenza del gruppo maoista Linea Proletaria – Politica Popular. I primi erano attivi da molto tempo nell’organizzazione della vita indigena, avevano partecipato all’organizzazione del Congresso indigeno e poi alla costituzione dei primi organismi intercomunitari, sotto la guida pastorale del vescovo di San Cristóbal de las Casas Samuel Ruiz. La Chiesa cattolica, uscita rinnovata dal Congresso di Medellín, il congresso della chiesa latinoamericana che aveva individuato la propria strada nell’impegno sociale, agiva attivamente da anni sulle comunità indigene, associando l’affermazione culturale, l’organizzazione delle comunità, le lotte socioeconomiche e i problemi di terra, e facendo ricorso a militanti molti dei quali provenivano dal movimento del Sessantotto. Tuttavia le comunità indigene, nonostante avessero assorbito alcuni caratteri delle metodologie della Chiesa rinnovata (ad esempio l’adozione diffusa del metodo del consenso) rimasero sempre impermeabili ad eccessive interferenze esterne. La Chiesa, come chiunque operasse all’interno dei villaggi indigeni, fu partecipe delle sole decisioni che la comunità voleva far sapere; lo scambio di informazioni, esperienze ed idee era sempre filtrato dalla comunità verso l’esterno.
Il secondo attore della contesa fu il gruppo maoista Linea proletaria, costola di un’altra organizzazione più ampia chiamata Politica popular. A partire dai primi movimenti studenteschi del Sessantotto, questa organizzazione aveva dapprima elaborato le sue basi ideologiche e successivamente aveva organizzato brigate attive in diverse zone del Durango, del Sonora e del Michoacán, in città come Torreón, Monterrey e Monclova, nel nord del Messico. “Politica popular in principio era composta da studenti di varie scuole secondarie superiori e facoltà universitarie, soprattutto dell’Università nazionale autonoma del Messico e dell’Istituto politecnico nazionale. Il nucleo principale di quella che sarebbe stata in seguito l’organizzazione veniva dalla Scuola nazionale d’Economia e dalla facoltà di Ingegneria: Hugo Andres Araujo, Alberto Anaya, Rolando Cordera e Adolfo Orive. Quest’ultimo, figlio di Adolfo Orive Alva, ministro per i Lavori idraulici durante il governo di Miguel Alemán Valdés (1946-1952), era la mente ideologica ed economica del gruppo: aveva frequentato un corso di specializzazione postlaurea alla Scuola Normale Superiore di Parigi dove le sue convinzioni maoiste si erano consolidate sulla scia degli insegnamenti di Charles Bettelheim e sulle sue ricerche sulla rivoluzione culturale cinese.” La selezione delle regioni in cui stabilirsi venivano selezionate spesso a seconda dei rapporti politici di Orive all’interno degli apparati statali per ottenere più facilmente fondi. Nel Chiapas, invece, Linea proletaria vi si insediò su invito del vescovo Samuel Ruiz. Verso la fine del 1976, il vescovo venne chiamato come mediatore per contribuire alla soluzione dei problemi sorti tra il governatore dello stato di Coahuila, Óscar Flores Tapia, e la diocesi di Torreón. “Il governatore di Coahuila, Óscar Flores Tapia, aveva fatto arrestare decine di contadini che, per rivendicare le loro terre, avevano occupato e bloccato le vie di accesso a San Pedro de las Colonias. Tra gli arrestati c’era anche padre José Batarse, figura chiave dei negoziati voluti dal governatore: se questi avesse accettato di abbandonare la diocesi di Torreón, tutti gli altri detenuti sarebbero stati rilasciati. Il governatore era convinto che il religioso esercitasse un forte ascendente sul nutrito gruppo di sacerdoti che partecipava a certe riunioni di stampo politico di un’organizzazione chiamata Linea proletaria.” “Sabato 17 settembre 1977 Adolfo Orive si incontrò, presso il vicariato di San Cristóbal de las Casas, con i sacerdoti che lavoravano al fianco di Samuel Ruiz; una settimana più tardi arrivarono in Chiapas i primi undici uomini di Linea proletaria.” I componenti della brigata arrivarono in Chiapas con l’obiettivo di potenziare l’organizzazione sociale delle comunità. Infatti, nella diocesi di San Cristóbal non esisteva una rete di comunità ecclesiastiche che contribuisse a risolvere i problemi dei gruppi con cui entrava in contatto per la lettura dei Vangeli. Per questo, la parola dei catechisti si riduceva a semplice contestazione senza forza propositiva, generando solo un senso di frustrazione.
La collaborazione tra la diocesi e il gruppo maoista fu prolifica per entrambi. Da un lato le strutture organizzative dei maoisti contribuirono a soddisfare le richieste che gli indigeni avevano cominciato a rivendicare proprio a partire dalla predicazione dei catechisti, i quali parlavano loro di diritti e della necessità di farli rispettare. Di contro, la rapida affermazione sul territorio del gruppo maoista si dovette alla rete di catechisti che la diocesi aveva già tessuto: alla scuola pastorale si erano formati circa 8.000 catechisti e 400 diaconi, che operavano in più di 2.500 comunità indigene della diocesi. L’unione tra la rete pastorale della diocesi e l’azione politica delle brigate di Linea proletaria contribuirono a consolidare le organizzazioni contadine, a formare i rappresentanti delle comunità e a diffondere alcune tecniche di azione rapida, come la costruzione di parti prefabbricate di abitazioni e relativo assemblaggio in segreto per allestire all’improvviso, dalla sera alla mattina, un villaggio o un accampamento sui terreni contesi.
La politicizzazione degli operatori evangelici provocò, già dall’anno successivo, una spaccatura in seno alla diocesi di San Cristóbal: da un lato vi era chi voleva concentrare tutti gli sforzi nell’esercizio della missione pastorale; dall’altro chi metteva in secondo piano i doveri pastorali rispetto alle questioni sociali. Furono i secondi a risultare maggioritari potendo anche contare sull’appoggio di persone maggiormente influenti, fino al vescovo stesso.
Col tempo però, quella stessa condizione che era stata fonte di rapido sviluppo divenne motivo di contesa tra i quadri di Linea proletaria e la diocesi, e con il passare del tempo il loro rapporto iniziò a logorarsi fino a provocare una rottura insanabile. Spesso erano i diaconi, preparati secondo i dettami pastorali, che guidavano le organizzazioni contadine per la rivendicazione delle terre e per il riconoscimento delle loro proprietà; gli stessi capi-catechisti si trasformavano quasi automaticamente nei referenti dei militanti di Linea proletaria. Questa sovrapposizione di ruoli fece nascere i contrasti nel momento in cui le due realtà si trovarono ad affermare o riconoscere le autorità dei vari leader. Il contrasto crescente, unito ad un comportamento non corretto di alcuni dirigenti maoisti, portò all’espulsione, nel 1983, dei dirigenti Adolfo Orive, Marta Orantes e René Gomez che erano riusciti ad assumere la guida della Quiptic.
Il progressivo peggioramento delle condizioni generali degli indigeni fece sì che qualunque progetto produttivo realizzato risultasse inefficace. I gruppi che collaboravano con gli indigeni puntavano su dei modelli economici ormai allo stremo, che avrebbero solamente alleviato, ma non risolto, i gravi problemi indigeni. Anche la creazione, da parte del gruppo maoista, di una “Union de crédito”, allo scopo di finanziare lo sviluppo delle comunità, ebbe scarso successo, anzi suscitò divisioni interne e conflitti che alla fine portarono all’espulsione dei dirigenti di Linea Proletaria.
Il fallimento delle esperienze produttive, le lotte intestine per il controllo delle organizzazioni indigene, la disillusione sui metodi fino ad allora utilizzati, la frustrazione nel constatare l’assenza di miglioramenti e addirittura il tradimento da parte di alcuni dirigenti in cui si era riposta la fiducia, provocò, intorno al 1982-83, un riflusso del movimento indigeno, una diminuzione della sua capacità di mobilitazione ed una conseguente crisi della Uniòn de Uniones. Nel 1988 essa divenne Aric, Asociacion Rural de Interès Colectivo, dove fin da subito si evidenziarono due opposte correnti: da un lato quanti sostenevano una linea legalitaria ed economicista, dall’altro coloro che invece propendevano per una radicalizzazione della lotta per la terra. Secondo questi ultimi, che già simpatizzavano per il nascente movimento zapatista, ottenere con le trattative delle condizioni più favorevoli alla produzione e alla commercializzazione sarebbe stato inutile come lo erano state le lotte precedenti. Il confronto portò alla prevalenza della linea legalitaria e alla conseguente esclusione dalla direzione di chi propendeva per la seconda opzione. Nel 1989, il settore più radicale si scisse e fondò la Alianza Campesina Independiente Emiliano Zapata (Aciez) che due anni più tardi, con un suo rapido sviluppo diventerà Alianza Nacional (Anciez). Inizialmente trovò spazio solo nelle città di Altamirano, Ocosingo, San Cristóbal, Sabanilla e Salto de Agua. Successivamente, si diffuse in molte comunità tzotziles, tzeltales e choles delle zone degli Altopiani, nel Nord del Chiapas e nella Selva.
Questa associazione, per un accordo fondante tra i membri, ebbe la particolarità di non poter stringere accordi con il governo. Alla nuova organizzazione aderirono quanti già appartenevano al movimento zapatista e la stessa funzionò come organizzazione di copertura del movimento armato, sebbene organizzasse anche delle attività politiche, così come avvenne in Guatemala con l’organizzazione politica Comité de Unidad Campesina ed il movimento guerrigliero guatemalteco. Nel ‘92, i membri dell’Anciez furono informati dello scopo effettivo, ed essa perse l’importanza strategica svolta in precedenza.
Nei due anni successivi, l’Aric e l’Anciez, quest’ultima con maggior decisione, ebbero un ruolo importante nell’organizzare grandi mobilitazioni indigene. In particolare, il 7 marzo 1992, alcune centinaia di indigeni choles intrapresero la marcia Xi’Nich (formica nella loro lingua) di oltre mille chilometri verso la capitale Città del Messico. Fu la marcia per denunciare i colpi che le autorità politiche sferrarono contro il formicaio. Pur suscitando una certa risonanza nell’opinione pubblica, dal governo ottennero solo promesse. Ancora nello stesso anno, nell’anniversario dell’assassinio di Zapata, il 10 aprile, migliaia di indigeni manifestarono, in varie località del Chiapas, contro la repressione, la cattiva volontà e la corruzione dell’amministrazione, contro la riforma dell’articolo 27 della Costituzione (allora solo in fase di negoziazione) e contro il disprezzo. Infine il 12 ottobre 1992, in occasione delle celebrazioni per il quinto centenario della scoperta dell’America, oltre tredicimila indigeni (di cui la metà appartenenti all’Anciez), armati di archi, frecce e lance, presero simbolicamente San Cristóbal de las Casas, schiodando poi la statua del capitano Diego de Mazariegos che fondò la città il 31 marzo 1528 col nome di Ciudad Real; la città a loro interdetta per eccellenza, la città in cui pochi potevano entrare e dove era proibito loro camminare sui marciapiedi fino agli inizi del XX secolo.
Queste furono le ultime tre grandi mobilitazioni civili del movimento indigeno e contadino: dopo di esse le energie e gli sforzi di molte comunità indigene vennero rivolte altrove.

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