di Anna Luisa Santinelli

Il_cattivo_tedesco_e_il_bravo_italianoFilippo Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della Seconda guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 2013, pp. 285, € 24,00

Nel corso del secondo conflitto mondiale, in una fase antecedente al settembre 1943, comincia a prendere forma il ritratto autoassolutorio del “bravo italiano” in opposizione all’idea preconcetta del tedesco barbaro e sanguinario. Il mito identitario dell’italiano indulgente, bonario anche in veste conquistatore, è inizialmente plasmato dalla propaganda alleata e in seguito riproposto, con giustificazioni differenti, da una pluralità di soggetti.
La narrazione rassicurante dell’italiano benevolo poggiava su una comoda rimozione delle colpe passate, ovvero il consenso al regime fascista e gli orrori delle conquiste coloniali. Adoperando gli espedienti tipici della guerra psicologica, gli Alleati invitavano il popolo italiano alla defezione, ad abbandonare il camerata germanico intenzionato a relegare l’Italia in una posizione di subalternità. Nel racconto strumentale creato dalla propaganda, gli italiani erano vittime del duce, ostili al conflitto e alla collaborazione italotedesca. La scelta dell’entrata in guerra ricadeva perciò su Mussolini e sui gerarchi fascisti, colpevoli di aver trascinato la nazione in una sconsiderata e invisa avventura bellica. Dopo l’8 settembre, il refrain antitedesco verrà utilizzato dagli antifascisti per promuovere la lotta resistenziale e dall’élite badogliana per giustificare il voltafaccia nei confronti dell’ex alleato. Nel dopoguerra, il cliché antigermanico sarà politicamente reimpiegato per evitare all’Italia il peso di una pace punitiva: in sintesi, le responsabilità dei Paesi sconfitti andavano distinte per tutelare gli interessi nazionali.
A poco a poco la rappresentazione “smussata” dell’italiano innocente cominciò a retroagire sulla costruzione della memoria collettiva, divenendo un utile collante adatto a ricomporre i ricordi divergenti cagionati dalla guerra civile. Da ultimo, la mancata azione penale contro i crimini bellici – l’assenza di una “Norimberga” nostrana – rinsaldò lo stereotipo del soldato italiano pacifico e generoso sedimentandolo nell’immaginario comune. Nel saggio Il cattivo tedesco e il bravo italiano lo storico Filippo Focardi indaga la genesi e la complessità del fenomeno descritto che, diffuso in passato con una molteplicità di mezzi (radio, letteratura, cinema, memorialistica…), continua ancora oggi a essere presente nel discorso pubblico, suggerito più o meno inconsciamente e di conseguenza rinvigorito.

1) Quando inizia a formarsi l’immagine autoassolutoria del “bravo italiano”? Possiamo stabilire delle coordinate cronologiche? Quali strumenti vengono adoperati per crearla?

A mio avviso, il momento cruciale, per così dire genetico, in cui tale immagine autoassolutoria viene consapevolmente elaborata corrisponde al periodo compreso fra la proclamazione dell’armistizio italiano, l’8 settembre 1943, e la firma del trattato di pace nel febbraio 1947. È infatti in questo periodo che viene sviluppata una narrazione dell’esperienza della Seconda guerra mondiale, e anche del fascismo, imperniata sui due stereotipi intrecciati del “bravo italiano” e del “cattivo tedesco”. Il racconto scarica sulle spalle dell’ex-alleato germanico il peso pressoché esclusivo delle responsabilità per lo scatenamento della guerra e la perpetrazione di crimini nei territori occupati dalle armate dell’Asse, così come promuove l’edificazione di un’interpretazione benevola del fascismo come dittatura all’”acqua di rose” (eccetto la fase della RSI) contrapposta all’immagine diabolica del nazismo e di Hitler. Il popolo italiano è descritto come vittima della guerra di Mussolini, “non voluta e non sentita”, e i soldati sono lodati per le virtù umanitarie dimostrate nei confronti delle popolazioni dei territori aggrediti per ordine del Duce. Lungi dal render conto delle violenze e dei crimini commessi, i soldati italiani sono raffigurati come “salvatori di ebrei” e dispensatori di aiuti e protezione a popolazioni minacciate dal crudele alleato germanico, in Francia come in Unione sovietica, in Jugoslavia come in Grecia.

La contrapposizione fra italiani e tedeschi recupera materiali culturali che risalgono almeno al periodo delle lotte d’indipendenza risorgimentali (se non a Tacito!) e che erano stati poi ampiamente rilanciati con la Prima guerra mondiale: humanitas e pietas contro furor teutonicus, in generale latinità contro germanesimo, cultura cattolica contro cultura protestante ecc. Né va dimenticato che lo stesso fascismo – ad esempio la rivista “Primato” di Bottai – aveva rivendicato a suo vantaggio il retaggio della romanità contrapposta al germanesimo per affermare una superiorità rispetto al Terzo Reich. Inoltre, è molto importante ricordare che la distinzione fra popolo italiano (innocente) e regime fascista (colpevole) nonché fra italiani (bonari) e tedeschi (guerrafondai) era stata al centro della martellante ed efficace propaganda di guerra alleata sia angloamericana sia sovietica, utilizzata per incrinare il fronte interno italiano e lo “spirito” delle truppe. Mi riferisco alle trasmissioni di Radio Londra o di Radio Mosca, così come ai milioni di volantini lanciati sull’Italia dagli aerei inglesi e americani.

Ad ogni modo, la contrapposizione fra italiani e tedeschi – che aveva dunque un lontano e variegato retroterra culturale – fu codificata fra il 1943 e il 1947 dalle elites culturali e politiche che facevano riferimento alla monarchia e alle diverse forze antifasciste come strumento di mobilitazione degli italiani alle armi contro la Germania dopo l’8 settembre e soprattutto come strumento per ottenere dagli Alleati un trattamento favorevole al tavolo della pace. Va tenuto presente che l’Italia con l’armistizio era uscita sconfitta dalla guerra firmando una resa incondizionata. Allo stesso tempo gli anglo-americani, attraverso il cosiddetto “documento di Quebec” firmato da Roosevelt e da Churchill, avevano promesso che in futuro avrebbero tenuto conto dell’impegno italiano nella lotta contro la Germania. Da qui uno sforzo energico e costante dell’intera classe dirigente italiana – monarchici e antifascisti, insieme dall’aprile 1944 nei governi di unità nazionale – per esaltare da un lato l’azione dell’Italia cobelligerante e partigiana contro l’occupante nazista e dall’altro lato per sottolineare la diversità del comportamento italiano rispetto a quello tedesco nella guerra dell’Asse combattuta a fianco del Terzo Reich fra il 1940 e il 1943. Forte era la paura che se gli Alleati avessero imposto all’Italia un trattamento draconiano, l’umiliazione nazionale avrebbe riaperto le porte alla reazione fascista. Occorreva dunque fare tutto il possibile per distinguere nettamente l’Italia dalla Germania nazista, accusata come unica reponsabile della guerra dell’Asse e dei suoi crimini. Dunque, “bravo italiano” contro “cattivo tedesco”.

2) Il refrain antitedesco apparteneva già alla cultura risorgimentale e alla memoria della Grande guerra. Come avviene il recupero strumentale di questa tradizione in seguito riproposta?

Il refrain antitedesco legato alla cultura risorgimentale e alla Grande guerra era patrimonio ancora molto vivo nel Paese e fu riutilizzato sia da parte monarchica sia da parte antifascista per spingere gli italiani, per lo più stanchi della guerra, alla lotta contro l’occupante. Sia il Regno del Sud che le forze antifasciste del Cln riscoprirono ad esempio Garibaldi come campione della lotta antigermanica. “Bastone straniero l’Italia non doma. Va fuori d’Italia, va fuori stranier”: i versi dell’Inno di Garibaldi si ritrovano tanto sulle colonne della stampa clandestina comunista quanto in onda tutti i giorni su Radio Bari in apertura della trasmissione più seguita: l’”Italia combatte”. Per la monarchia il richiamo al retaggio risorgimentale era uno dei pochi strumenti di una certa efficacia rimasti a disposizione dopo la drastica caduta di credito seguita alla fuga del re e dell’establishment da Roma dopo l’8 settembre. Esso serviva anche a operare un taglio netto rispetto all’Asse recuperando il solco della vecchia alleanza della Grande guerra con la Francia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Voleva essere il ritorno dell’Italia di Vittorio Veneto, cui aveva fatto riferimento anche la propaganda alleata. Per le forze antifasciste, specialmente le sinistre, il richiamo ideale al Risorgimento in chiave antitedesca non costituì l’unico movente della lotta, che fu animata anche da motivazioni di trasformazione radicale dell’assetto politico ed economico del paese ispirate al marxismo. Nondimeno, anche da sinistra si fece ampio ricorso alla tradizione garibaldina e mazziniana come ispirazione della lotta di liberazione nazionale. Di matrice risorgimentale era il nome delle brigate partigiane comuniste – le Brigate Garibaldi, appunto – e Partito d’Azione volle chiamarsi la nuova forza politica nata dal movimento di Giustizia e Libertà. Certamente non fu un caso che si affermasse sia fra i monarchici sia fra gli antifascisti la definizione della Resistenza come “secondo Risorgimento”. Infine, non va dimenticato che sulla continuità o meno con l’esperienza risorgimentale si giocò anche lo scontro interno con la Repubblica sociale italiana, anch’essa impegnata a rivendicare una presunta discendenza da Mazzini e Garibaldi.

3) L’establishment politico-istituzionale (la Corona, i vertici militari, gli apparati diplomatici) e le forze antifasciste si avvalgono politicamente dell’antitesi “bravo italiano/cattivo tedesco”. Le motivazioni di tale utilizzo sono simili o differenti?

Condiviso, come accennato, era l’obiettivo fondamentale di separare le sorti dell’Italia da quelle della Germania per evitare al paese una pace punitiva. Dietro l’azione della Corona e degli apparati militari e diplomatici c’era però anche la necessità di scaricarsi di dosso ogni responsabilità individuale e istituzionale per l’alleanza con la Germania nazista, la partecipazione alla guerra di aggressione e i gravi crimini commessi. Molti militari e diplomatici, attivi nelle campagne di stampa in cui si esaltavano i “bravi italiani”, erano stati coinvolti in prima persona, da protagonisti, nelle guerre del Duce, prima in Africa e poi in Europa. Lo stesso Badoglio figurava, insieme al maresciallo Graziani, come il principale criminale di guerra richiesto dall’Etiopia. Il generale Vittorio Ambrosio e il generale Roatta, rispettivamente Capo di Stato maggiore delle Forze Armate e Capo di Stato maggiore dell’Esercito, fuggiti da Roma insieme al re, erano in cima alla lista dei criminali di guerra richiesti dalla Jugoslavia in quanto ex-comandanti della Seconda armata di stanza in Slovenia, Croazia e Dalmazia, responsabili di ordini repressivi criminali come quelli contenuti nella famigerata Circolare 3C di Roatta. Scaricare ogni responsabilità per la guerra sulle spalle dei “cattivi tedeschi” e del solo Mussolini rispondeva in questo caso non solo all’esigenza di tutelare l’interesse nazionale minacciato da una pace punitiva, ma anche – e forse prima ancora – all’esigenza di garantire la sopravvivenza di persone e di interi pezzi di establishment a rischio di venir spazzati via dalle misure di epurazione e dalla giustizia contro i criminali di guerra, di cui gli accordi internazionali prevedevano la consegna agli Alleati.

Diversamente, le forze antifasciste agivano sulla spinta di motivazioni ideali sincere. La distinzione fra popolo italiano e regime fascista, ancorché fuorviante e tale da disconoscere le forme di adesione attivate dal regime, riproduceva il tradizionale punto di vista dell’antifascismo secondo cui il regime si era imposto e si era mantenuto al potere principalmente attraverso l’oppressione e la violenza. La lettura delle sinistre era inoltre imperniata sulla definizione del fascismo come espressione del capitalismo, dunque un fenomeno storico di cui erano responsabili le ristrette elites borghesi, agrarie industriali e finanziarie, non il popolo italiano.

Comune fu la tendenza a definire i crimini commessi durante la guerra come “crimini fascisti” e non “crimini italiani”, con la differenza che da parte monarchica si intendeva addossarne la responsabilità unicamente alle camicie nere, mentre le sinistre li imputavano anche agli alti gradi dell’esercito. ‘Immacolato’ restava, in ogni caso, il comportamento dei soldati e sottufficiali italiani, i “figli del popolo” esaltati anche a sinistra per la loro umanità. Essi avrebbero aborrito fin dall’inizio la guerra fascista e l’alleato germanico, simpatizzato e fraternizzato coi popoli aggrediti tanto da scegliere dopo l’8 settembre di schierarsi con i movimenti locali di resistenza, in Grecia come in Albania e in Jugoslavia. Si tratta di quel percorso che il comunista Luigi Longo nel suo volume Un popolo alla macchia definì come il cammino compiuto “da occupanti a partigiani”. In realtà, solo una minoranza, pur numericamente significativa, dei soldati italiani compì effettivamente quella scelta.

È opportuno anche ricordare che per un breve periodo di tempo, fra la liberazione di Roma nel giugno 1944 e la fine della guerra nell’aprile-maggio 1945, i partiti della sinistra antifascista – comunisti, socialisti, azionisti – fecero alcuni tentativi per portare in giudizio i responsabili italiani di crimini di guerra come il generale Roatta e non mancarono alcuni articoli su riviste e giornali che affrontarono la questione delle nefandezze compiute dall’esercito italiano, soprattutto nei Balcani. Bisogna osservare però due cose: primo, che le accuse erano rivolte unicamente agli alti gradi delle forze armate e mai nei confronti dei ranghi inferiori e che, secondo, questo atteggiamento cambiò comunque dopo la fine della guerra, soprattutto a seguito della temporanea annessione jugoslava della Venezia-Giulia (maggio-giugno 1945). Non appena si manifestò in questo modo una concreta minaccia sul destino dell’Italia e cominciarono a diffondersi le voci sulle violenze compiute nei confronti degli italiani (foibe), si produsse nelle forze della sinistra una reazione improntata alla difesa degli interessi nazionali: qualsiasi campagna per la punizione dei criminali di guerra cessò e dai giornali scomparvero gli articoli sui crimini italiani. Questo riguardò anche il partito comunista, che da allora tenne una posizione ambigua: da un lato rivendicò saltuariamente sulla stampa l’esigenza di una punizione dei criminali di guerra, dall’altro operò invece dall’interno delle istituzioni per ostacolarne la consegna, in sintonia con la posizione del governo e della diplomazia italiani.

4) Esiste un fondo di verità nella raffigurazione benevola degli italiani divulgata durante e dopo il secondo conflitto mondiale?

Come tutti gli stereotipi, anche quello del “bravo italiano” poggia su un nucleo di verità. Ed è inutile dire che lo stesso vale per quello contrapposto del “cattivo tedesco”. Sul piano comparativo, nel corso della guerra 1940-43 gli italiani non commisero crimini di gravità analoga a quelli compiuti dall’alleato tedesco. Non si macchiarono ad esempio di crimini di massa di tipo genocidario come lo sterminio degli ebrei o dei rom (anche se poi la RSI ebbe un attivo coinvolgimento nella Shoah). Fu reale poi l’opera di salvataggio messa in atto nei confronti degli ebrei in tutti i territori occupati, dalla Francia meridionale alla Jugoslavia e alla Grecia, così come va ricordato anche l’aiuto prestato in Croazia ai serbi braccati dagli ustascia di Ante Pavelic. Dunque è evidente una differenza di comportamento rispetto ai tedeschi.

Occorre sottolineare, però, che non sempre gli italiani difesero gli ebrei. Nella provincia di Fiume, ad esempio, furono oltre 800 gli ebrei che furono respinti alla frontiera o ricacciati fuori, dopo essere entrati clandestinamente in cerca di salvezza, ben sapendo a quale fine li si condannava. Esistono inoltre esempi documentati di ebrei consegnati direttamente nelle mani dei carnefici tedeschi, in Russia come in Kossovo. L’azione di salvataggio fu poi condotta per vari motivi, non solo per ragioni umanitarie, certo presenti, ma anche per ragioni di prestigio (le richieste di consegna tedesche in molti casi furono viste come indebita interferenza nella sfera di occupazione italiana, in Jugoslavia come in Francia) e talvolta per ragioni di opportunità politica come nel caso di Salonicco, dove risulta che l’azione a protezione degli ebrei scaturisse dalla volontà di mantenere buone relazioni con le ricche e influenti comunità ebraiche presenti nei grandi centri del Mediterraneo per poter svolgere un’influenza politica nell’area. Non di rado, infine, gli ebrei furono salvati dietro pagamento di somme di denaro e la consegna di beni preziosi.

In ogni caso, come dicevamo, non c’è dubbio che sia esistito un fondo di verità dietro la raffigurazione del “bravo italiano”. Ciò però è servito a coprire l’altra faccia della medaglia, eticamente imbarazzante e politicamente pericolosa, che aveva visto gli italiani nei panni di aggressori, occupanti, oppressori e spesso carnefici. I crimini perpetrati non erano stati paragonabili a quelli tedeschi, ma erano stati pur sempre crimini di guerra assai gravi, commessi non solo contro i partigiani ma anche contro i civili, considerati “fiancheggiatori” dei movimenti di resistenza. Si erano, infatti, applicate su larga scala misure di punizione collettiva tradottesi in brutali pratiche di guerra ai civili: incendi di villaggi, depredazioni, rastrellamenti, prelevamento e uccisione di ostaggi, deportazione della popolazione – compresi donne e bambini – in campi di concentramento (si parla ad esempio di circa 110 mila sloveni, croati, montenegrini deportati), vere e proprie stragi come quella di Domenikon in Grecia nel febbraio 1943 (145 civili maschi passati per le armi per rappresaglia). Tutto questo è stato nascosto dietro l’immagine autoassolutoria e autogratificante del “bravo italiano”.

5) Il topos dell’italiano pacifico è accostato con frequenza alla figura del soldato italico dipinto spesso come vittima dell’alleato tedesco. Nel caso di El Alamein e della ritirata sul Don (argomenti trattati nella sua ricerca), come si riproduce il cliché antigermanico sul racconto a posteriori di questi eventi drammatici?

La sconfitta subita in Egitto a El-Alamein e la rotta dell’Armir sul Don rappresentarono due momenti bellici cruciali. Da lì in poi fu chiaro che il paese si avviava alla sconfitta, da lì in poi – non a caso – si incrinò definitivamente la fiducia in Mussolini e il consenso alla guerra e dilagarono sentimenti antitedeschi mai del tutto sopiti. A questo contribuì certamente la raffigurazione del soldato italiano come vittima del “camerata” tedesco che a El-Alamein e sul Don l’avrebbe tradito lasciandolo appiedato a fronteggiare le soverchianti armate nemiche. Questa versione dei fatti fu innanzitutto un prodotto della propaganda alleata che diffuse immagini destinate a segnare a lungo il ricordo collettivo: l’immagine degli alpini abbandonati nelle gelide steppe russe, schiacciati dalle slitte tedesche o gettati fuori dalle isbe unico rifugio per sopravvivere all’assideramento; così come l’immagine dei soldati italiani “mollati” nel deserto africano e respinti col calcio dei fucili dai camion che portavano invece in salvo gli uomini di Rommel. Queste immagini “prodotte” dalle radio e dai volantini alleati si diffusero in un lampo nel paese e furono poi confermate nel discorso pubblico dell’immediato dopoguerra attraverso una vasta produzione pubblicistica e memorialistica. In realtà, esse riflettevano solo una parte della verità, di fatto fuorviandola. Nelle fasi convulse della ritirata, sia sul fronte orientale sia in Africa, vi erano stati certamente episodi di prevaricazione da parte tedesca, ma in molti casi era successo esattamente il contrario: anche gli italiani non avevano esitato ad agire a danno dei “camerati” per cercare di mettersi in salvo. In genere, poi, va detto che il comportamento di italiani e tedeschi era stato piuttosto improntato alla collaborazione nel combattimento per sfuggire alla morsa del nemico. Ciò è quanto ha messo in evidenza la ricerca storiografica in anni recenti. Allora e per lungo tempo è stata invece presa per “oro colato” l’idea del tradimento tedesco ai danni degli italiani, dipinti anche per questo come vittime della guerra.

6) Nel saggio lei parla di chi ha provato a contrastare l’oblio delle colpe. Si tratta di esempi in controtendenza, voci fuori dal coro che hanno tentato di arginare la rimozione.

Nell’immediato dopoguerra, fino alla firma del trattato di pace nel 1947, non vi fu comprensibilmente alcuno spazio per denunciare le colpe, perché tale denuncia avrebbe compromesso la “pace italiana” e nessuno poteva permettersi di apparire come un “nemico della patria” né voleva esserlo. Non è un caso che socialisti e comunisti tornarono a sollevare la questione dei criminali di guerra italiani nei primi mesi del 1948, dopo che il trattato di pace era già entrato in vigore, sostenendo in quel momento le richieste di estradizione avanzate dalla Jugoslavia. Fu un breve momento. Nel giugno 1948 la Jugoslavia di Tito ruppe con Stalin e fu isolata all’interno del movimento comunista internazionale. Per di più, proprio in quegli anni fu stretto con Belgrado una sorta di “patto del silenzio” per cui da parte jugoslava si cessava di insistere sulla richiesta dei criminali di guerra italiani e da parte del governo di Roma si evitava di chiedere misure contro i responsabili delle foibe (il governo italiano aveva preparato nel 1946 delle liste di criminali di guerra jugoslavi). Questo per quanto riguarda il principale accusatore dell’Italia, cioè la Jugoslavia. Per quanto riguarda gli altri, come la Grecia o l’Etiopia, fu la guerra fredda a “risolvere” le pendenze legate ai crimini italiani: i governi conservatori greci lasciarono perdere preferendo coltivare buoni rapporti nell’ambito del blocco occidentale; mentre il desiderio di giustizia di Addis Abeba fu inibito da Londra che non voleva mettere in difficoltà l’alleato italiano.

Sul versante interno, bisogna ricordare che la raffigurazione dell’esperienza dell’Italia in guerra incentrata sullo stereotipo del “bravo italiano” contrapposto al “cattivo tedesco” risultò condivisa e coltivata anche – e in particolar modo – dagli ambienti conservatori che esprimevano una cultura che oggi definiamo “anti-antifascista”, quelli per capirsi che si riconoscevano in Guareschi o Montanelli. Da questa parte non vi era naturalmente nessuna intenzione di affrontare la questione delle colpe, anzi vi era un’attenta vigilanza in senso contrario, come dimostra la lunga diatriba fra Montanelli e Angelo Del Boca a proposito dell’impiego degli agenti chimici in Etiopia, per anni caparbiamente negato da Montanelli. Ma anche la cultura antifascista ha manifestato serie difficoltà a fare i conti con le “pagine oscure” del passato fascista. La contrapposizione fra “bravi italiani” e “cattivi tedeschi” ha costituito infatti – come si è accennato – un pilastro importante, forse fondamentale, della memoria della Resistenza. Un esame di coscienza approfondito avrebbe svelato le responsabilità nei crimini di guerra non solo delle gerarchie militari e politiche del fascismo ma anche di un buon numero di semplici soldati, raffigurati – al pari del popolo italiano – come vittime del regime e delle sue guerre. Ciò avrebbe compromesso dunque l’immagine di una netta separazione fra italiani e fascismo e anche la raffigurazione nazionalpatriottica della Resistenza come guerra di liberazione nazionale, cui gli stessi partiti della sinistra – PCI e PSI – mai hanno rinunciato a richiamarsi.

Ecco perché si sono riscontrati, fino a tempi recenti, solo tentativi isolati e coraggiosi di critica al cliché del “bravo italiano”, tutti comunque provenienti da ambienti antifascisti. Pensiamo ad esempio ad alcuni romanzi di Ugo Pirro (Le soldatesse, Jovanka e le altre) ma soprattutto, a partire dagli anni Sessanta, alle ricerche storiche di Angelo Del Boca, Enzo Collotti, Teodoro Sala o Giorgio Rochat sulle occupazioni e i crimini italiani in Africa e nei Balcani. Dagli anni Novanta in poi si è diffusa invero una consapevolezza maggiore nell’opinione pubblica circa le responsabilità del fascismo grazie allo sviluppo delle ricerche portate avanti da nuove generazioni di storici e grazie anche, probabilmente, a un diverso atteggiamento culturale di fondo della società, sensibile al tema dei diritti umani. Ormai la storiografia ha messo a nudo gli elementi fallaci del mito del “bravo italiano” indagando i crimini coloniali e quelli commessi durante la seconda guerra mondiale, la questione della mancata punizione dei criminali di guerra italiani, il tema dei nostri campi di concentramento, le politiche razziste contro slavi, africani ed ebrei. I risultati di queste ricerche hanno trovato una più vasta diffusione attraverso la stampa (i giornali “di sinistra” ma anche quotidiani cosiddetti indipendenti come La Stampa e Il Corriere della Sera), le trasmissioni radio, i siti web e, molto più limitatamente, la televisione grazie ad alcuni documentari come ad esempio La guerra sporca di Mussolini. Libri come Italiani brava gente? di Del Boca e «Si ammazza troppo poco» di Gianni Oliva, che hanno raggiunto vendite di decine di migliaia di copie, testimoniano un’attenzione che ha superato la cerchia degli specialisti. Lo stesso vale certamente per romanzi di ambientazione storica come il recente Point Lenana di Wu Ming 1 e Roberto Santachiara.

Tutto ciò però, va detto, non ha inciso ancora sulle coordinate della memoria pubblica nazionale né sulla memoria istituzionale. Se nel 2004 il parlamento ha introdotto su proposta di AN il “Giorno del ricordo” per commemorare le vittime delle foibe e delle espulsioni dall’Istria e dalla Dalmazia, in un nulla di fatto sono finite invece le proposte avanzate due anni dopo dai Comunisti italiani di dedicare una commemorazione alle vittime del colonialismo italiano e alle vittime del fascismo. Emblematico poi risulta il fatto che la RAI – uno dei vettori principali di creazione del comune senso storico – mai abbia trasmesso documentari come Fascist Legacy sui crimini italiani e abbia relegato altri documentari di denuncia in orari quasi impossibili. Anche i Presidenti della Repubblica – Ciampi e Napolitano – che hanno svolto un ruolo importante patrocinando efficaci politiche della memoria, non hanno incluso nelle loro “narrazioni” questi nuovi elementi (pur non mancando alcuni segnali positivi negli ultimi due-tre anni, ad esempio nelle celebrazioni al Quirinale del “giorno del ricordo” adesso accompagnate da riconoscimenti anche delle colpe italiane).

7) A distanza di anni la narrazione distorta dell’italiano affabile e generoso è ancora viva e radicata nell’autorappresentazione nazionale. Perché?

Ho già detto del forte e diversificato background culturale su cui quella narrazione è nata ed è stata alimentata. Così come non è da trascurare che la contrapposizione fra “cattivi tedeschi” e ”bravi italiani” poggi su alcuni elementi oggettivi di distinzione. Essa si presta dunque a essere rilanciata.

Detto questo, secondo me dobbiamo tenere presenti altri due fattori che spiegano la longevità del mito. Il primo è rappresentato dalla costante vigilanza delle istituzioni italiane, attente a salvaguardare – anche dopo il 1947 – l’immagine positiva del “bravo italiano”. Ricordiamo ad esempio il processo intentato negli anni Cinquanta per vilipendio delle forze armate contro Renzo Renzi e Guido Aristarco accusati (e condannati!) per il progetto di film S’agapò sull’occupazione della Grecia, che metteva in evidenza l’organizzazione da parte italiana di un ramificato sistema di prostituzione. O ancora, ricordiamo che quando nel 1989 la BBC inglese mandò in onda il documentario Fascist Legacy il governo italiano reagì inoltrando immediatamente a Londra una nota diplomatica di protesta. Poi la RAI acquistò il documentario, ne fece una versione in italiano, che si guardò bene però dal trasmettere per ben noti veti politici. In anni più recenti, è emerso poi il problema della consultabilità dei documenti sui crimini italiani depositati presso gli archivi militari (vedi la questione del fondo H-8 presso l’Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito). Solo nel 1996 questo sbarramento difensivo ha mostrato una crepa, quando il ministero della Difesa e quello degli Esteri, sollecitati da Montanelli e Del Boca e da varie interpellanze parlamentari, hanno ammesso – pur in forma reticente – l’impiego di agenti chimici da parte italiana nella guerra d’Etiopia. Negli anni dei governi di centro-destra di Berlusconi naturalmente lo “sbarramento” è stato prontamente ripristinato.

L’altro fattore da prendere in considerazione è l’atteggiamento dell’opinione pubblica internazionale. Mentre nel caso della Germania, giustamente vi è sempre stata dall’esterno un’attenzione e un allarme in presenza di segnali di un ritorno al passato (vedi episodi di antisemitismo), nel caso dell’Italia invece si può constatare un atteggiamento molto diverso, più incline cioè ad assecondare l’autoraffigurazione nazionale dell’italiano “buono”, magari solo un po’ cialtrone. È l’immagine, ad esempio, che prevale nel cinema americano di marca hollywoodiana. Si veda il film Il mandolino del capitano Corelli, interpretato da Nicolas Cage e Penelope Cruz, dove gli italiani a Cefalonia sono raffigurati in maniera stereotipata, tutti appunto “mandolini e maccaroni”. È un po’ anche l’immagine dell’”occupazione allegra” italiana diffusa nell’ ex-Jugoslavia, o degli “italiani, greci… una faccia, una razza”. È vero che se si vanno a scandagliare più a fondo le memorie nazionali, se ne ricava un quadro diverso: seppure la distinzione fra gli italiani e i “cattivi” tedeschi è presente ovunque, non certo unanime risulta infatti il riconoscimento della presunta “bontà” italiana. Non è così in Slovenia, non è così in Montenegro e nemmeno in Grecia, dove il giorno della festa nazionale, che ricorre il 28 ottobre anniversario dell’aggressione di Mussolini, non circolano affatto umori favorevoli al nostro paese. Per non dire dei ricordi dell’occupazione italiana in Etiopia. In generale, tuttavia, è prevalsa fino adesso la raffigurazione benevola di cui si diceva e questo certamente non ha spinto gli italiani ad affrontare il loro passato, come invece hanno fatto i tedeschi, anche perché sollecitati dalla pressione esterna.

Pure in questo caso, si sono visti negli ultimi quindici anni alcuni segnali di cambiamento nell’atteggiamento straniero nei confronti dell’Italia, e ciò dopo la nascita di governi di centro-destra che contavano sull’appoggio di forze provenienti dal neofascismo. Molti giornali europei e statunitensi hanno svolto inchieste sulla persitenza in Italia di legami politico-culturali col passato fascista e denunciato i rischi che questo comporta. Uno dei saggi di maggior successo sul mercato tedesco è stato ad esempio nel 2010 il volume dello storico svizzero Aram Mattioli intitolato «Viva Mussolini!». La guerra della memoria nell’Italia di Berlusconi, Bossi e Fini, pubblicato in italiano da Garzanti l’anno successivo. Si è cominciato cioè a guardare con allarme la mancata resa dei conti dell’Italia col fascismo. Allarme che dall’esterno è risuonato anche in occasione della costruzione del mausoleo a Graziani ad Affile, un comune del Lazio.

Tutto ciò è utile, ma non rappresenta ancora una definitiva inversione di tendenza. Spetterà innanzitutto agli italiani sviluppare una memoria non vittimistica e non reticente, capace di fare i conti con il retaggio del fascismo e dei suoi crimini, una memoria autocritica, una memoria europea, che dovrà essere necessariamente sorretta da una conoscenza della nostra storia molto più approfondita di quanto certi quiz televisivi non abbiano recentemente mostrato.