di Filippo Casaccia

casccr01.jpgDown On The Corner, out in the street,
Willy and the Poor Boys are playin’,
Bring a nickel, tap your feet

I dischi di papà erano uno strano richiamo. Incuriosivano e respingevano. Se erano (stati) suoi e se oggi lui ascoltava musica diversa — jazz o classica — significava che erano prodotti dimenticati e trascurabili. E siccome io cercavo lo scontro, appetibili in quanto rifiutati.
Era nella natura delle cose: litigavamo per stupidaggini o per cose che ritenevamo fondamentali, come il ruolo di Craxi nel pentapartito (lui: “è in funzione anti DC”; io: “è un ladro”. Avevo ragione io). E discutevamo anche delle cose veramente importanti, cioè quelle che m’interessavano sul serio. Tipo la musica.
Non ci intendevamo granché? E allora io recuperavo i dischi che lui aveva tralasciato.

Ed è così che ho cominciato ad ascoltare quella pigna di 33 giri di quando papà ancora acquistava musica “leggera”. Non avendo io una lira per l’ultimo Peter Gabriel era più comodo ed economico scegliere tra quei vinili pesanti e un po’ polverosi, con le copertine gatefold in carta spessa e plasticata. Poi la puntina crepitava sui primi solchi e si apriva un mondo nuovo. Musica diversa, mai sentita, strana, fantasiosa, lontanissima dai suoni artificiali degli anni Ottanta. Niente synth, batterie elettroniche, bassi gommosi o chitarrine funky. Macché. Rock. Tosto.

Il primo, di quei dischi, che ho ascoltato è stato Fireball, dei Deep Purple, attirato dall’immaginifica copertina con le teste di cinque irsuti rocker sparati come una cometa in fiamme nello spazio. Che ne sapevo di questi qui? Tolto il riffone di Smoke On the Water erano degli sconosciuti e Fireball non era In Rock, durissimo (per l’epoca) e basilare, né era Machine Head, popolare e perfetto; no: Fireball era il brutto anatroccolo tra i due capolavori, registrato in fretta e furia, tra un tour e l’altro. Io non lo sapevo e lo amai comunque subito, scoprendo solo anni dopo che la critica biasimava l’eterogeneità che invece mi aveva esaltato. (Avevo ragione io, di nuovo). Vendette tanto in ragione della precedente popolarità di In Rock, ma ha lasciato poco nell’immaginario musicale collettivo, pur contenendo pezzi eccezionali. Vabbeh, non è questo il punto. Il punto è che una sera, prima di cena, lo metto sul piatto, facendo giustizia al volume che richiede questa musica. Prima che parta la title track sento la porta di casa che si chiude, papà è tornato. Dopo il rumore di un carrello elevatore (!) parte la batteria tellurica di Ian Paice e il primo antenato dello speed metal romba senza freni. Papà si affaccia alla stanza, non saluta, ma dice, con un pelo d’insicurezza, ma neanche troppa: “Fireball!”. Non lo sentiva da quasi vent’anni. Evidentemente non lo aveva dimenticato, solo messo da parte per momenti migliori. Come questo. (Aveva ragione lui, stavolta).

Il secondo disco lost and found di casa che mi ha fatto innamorare aveva una curiosa copertina rotonda e argentata, come una moneta: E Pluribus Funk, dei Grand Funk Railroad. Il pezzo d’apertura, Footstompin’ Music, mette subito le cose in chiaro: è una cafonata brutale dal groove nero ineludibile, col basso galoppante, l’hammond che trascina e la chitarra che swinga e assoleggia in maniera semplice ed efficace. E papà ancora una volta, alle prime note, scandisce: Grand. Funk. Railroad. Degli adorabili ignoranti fracassoni, pacifisti ed ecologisti, che ti colpivano allo stomaco e ti rubavano il cuore con la loro anima danzereccia e soul coniugata con gli amplificatori al massimo sostenibile. Potevo chiedere di più?
Sì, ed era di nuovo nascosto tra i dischi di papà, come Abraxas, di quelli che i miei genitori chiamavano i Santana. O Pictures At An Exhibition di Emerson, Lake & Palmer oppure i New Trolls del Concerto grosso che ti conquista subito col brusio degli strumenti che si stanno accordando, chiamati poi al silenzio e all’esecuzione dalla bacchetta impaziente di un direttore d’orchestra. C’era anche il Battisti più avventuroso d’inizio anni Settanta. E pure qualche infortunio, come Horizontal dei Bee Gees (che però, in fondo in fondo…). E papà li ricordava tutti, dalle prime note, immancabilmente.

casccr02.jpgLui non aveva abbandonato quella musica, l’aveva solo compendiata, con Mozart e Miles Davis. E oggi che ascolto anch’io Le variazioni Godberg (magari nella versione di Uri Caine), tutto torna. Però non vi ho menato in questo carruggio per farvi il raccontino strappalacrime sul babbo mio e su come costruimmo un rapporto attraverso la musica etc. etc. Ho scritto questa spatafiata perché il disco che più apprezzai all’epoca era un altro ancora (avevo ragione un’altra volta: continuo ad ascoltarlo anche adesso, 25 anni dopo): Cosmo’s Factory, il quinto album dei Creedence Clearwater Revival, il più bello e completo in una serie incredibile di capolavori sfornati dal gruppo californiano.
La copertina non era granché, con quattro tipi strani in quello che pareva uno studio, chi per terra, chi in bici, chi su una motocicletta (!). Ma la musica, quella, beh, era stratosferica: puro scatenato rock’n’roll tinteggiato di Motown e Stax. Un orgasmo senza neppure sfiorarsi.
Quattro cover omaggiavano Elvis Presley, Roy Orbison, Marvin Gaye e Bo Diddley, mentre i sette brani originali — tutti firmati John Fogerty — spaziavano dalla ballata (si dice) in ricordo di Woodstock (Who’ll Stop the Rain) all’arrembante cavalcata iniziale di Ramble Tamble, dal rock stradaiolo di Travelin’ Band alla spettrale missione in Vietnam (Run Through the Jungle), dal country con testo psichedelico (ma in realtà omaggio al mondo infantile) di Lookin’ Out My Back Door al singalong di Up Around the Bend, fino alla placida conclusione con Long As I Can See the Light. Un capolavoro, undici brani perfetti.
Ma perché, io, questi, non li avevo mai sentiti nominare prima?

Dunque: nel 1967 i CCR arrivavano da dieci anni di gavetta e di tentativi andati male. Questa volta il progetto era a regime e i tempi sembravano giusti: il leader John Fogerty (e cantante, compositore e produttore, e tutti questi ruoli porteranno poi alla fusione nucleare della band) era uno hippie rootsy, orgogliosamente proletario, di estrazione low class. Voleva tornare alla freschezza e alla semplicità dei 45 giri su cui era cresciuto e incidere musica da ballare, con testi diretti che facessero anche pensare. Il nome del gruppo era già una chiara presa di posizione: evocava acque pulite, impegno e un revival che voleva essere recupero e attualizzazione, non conservazione reazionaria. Il loro sound era una sintesi potente e lineare del rock’n’roll primigenio degli anni Cinquanta (tra la sguaiatezza di Little Richard e il lirismo di Chuck Berry), del blues elettrico dei Sessanta e del coevo soul, con spruzzate di country elettrificato.

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I Creedence non furono capiti subito perché erano senza tempo: erano anni, quelli, che guardavano con diffidenza al grande successo e il gruppo nato a El Cerrito, nei dintorni di Berkeley, California, occupò le classifiche americane per tre anni, dal ’69 al ’71, spodestando Beatles, altro rock e tutto il pop di facile consumo. Un singolo ogni tre mesi, immancabilmente vendutissimo. La sentenza era già scritta: easy, commerciali, addirittura danzerecci. E anche da noi furono snobbati e oscurati da pruriti psichedelici che oggi paiono irrimediabilmente segnati dal tempo. (Ho ragione io, eh).
Ecco perché parevano venuti fuori dal nulla.

Lo sapevano in pochi, qui, che i CCR erano stati presenti a tutti i raduni del Movement ed erano cresciuti assieme agli altri gruppi della Bay Area. Avevano suonato a Woodstock, in piena notte, ma non lo ricordava (e ricorda) nessuno perché Fogerty rifiutò la partecipazione al film e alla soundtrack, insoddisfatto di una performance che oggi si può recuperare through the magic of bootlegging (Springsteen ©) e che suona vicina alla perfezione.
E fu proprio questo ostinato perfezionismo unito alla diffidenza del business e alla frustrazione per il mancato riconoscimento critico, che portò all’implosione del quartetto. Tra i dischi di papà c’era anche Pendulum, l’album che seguì Cosmo’s Factory. La copertina è emblematica: i quattro musicisti paiono minacciosi. Apri a libro e trovi uno scatto eccezionale di Baron Wolman: il Coliseum di Oakland gremito e in delirio e, di schiena, un cantante che incita la folla. In questa foto c’è tutto quello che i Creedence erano (stati): il rapporto con il pubblico, il senso di coinvolgimento, il successo trasversale, di massa (all’epoca, nel 1970, nei palazzetti non suonava ancora quasi nessuno).
Ma Pendulum scontava l’eccezionalità del disco precedente. Bello sì, ma con alcune forzature psichedeliche e dei brani un po’ sentiti. I quattro amici erano intanto già ai ferri corti. John Fogerty, musicalmente inarrivabile, aveva gestito da tonto la parte manageriale della band: contratti penosi e diritti ceduti per un tozzo di pane. Nel 1971 il fratello del leader, Tom, molla gli altri. Il trio che rimane produce un album deprimente, il settimo in cinque anni, e dopo l’ennesimo tour mondiale la band si scioglie.
casccr04.jpgDa lì nessuna reunion e anzi, acredine e risentimento, mentre tutto il rock che verrà (da Springsteen ai Black Keys) rimane influenzato da quel sound e quella forza. Invidie, ripicche, cause legali: finisce malissimo, al punto che quando, nel 1993, la band viene ammessa nella Rock and Roll Hall of Fame (per quel che può valere, ma gli americani tengono tantissimo a ‘ste cose) Fogerty rifiuta di far salire sul palco i vecchi compagni che se ne vanno scornati. A rileggere tutta la vicenda Fogerty pare proprio un uomo piccino picciò e se ogni tanto ha vinto la sua misantropia per licenziare altri dischi (bellissimi) non ha mai raggiunto le vette del suo gruppo storico. Negli ultimi anni ha ripreso a suonare in tour con continuità e nel 2008 ho avuto l’occasione di intervistarlo, sfumata all’ultimo per sue imprescindibili esigenze (illazione: per andare al Casinò di Venezia). Francamente ho tirato un sospiro di sollievo: non volevo rimanere deluso dalla persona.
Che però, se sappiamo scindere l’arte dall’artista, ci ha regalato canzoni immortali che hanno ridefinito e aggiornato il songbook americano. Come Proud Mary, che magari conoscete nella scatenata versione soul di Ike e Tina Turner. Oppure Fortunate Son, inno rabbioso contro i privilegi di riccastri, politicanti e militari al tempo della guerra in Vietnam, purtroppo valido sempre, prima e dopo. O ancora la gioia della musica di strada di Down on the Corner o di Willie and the Poorboys. O il ruggito di Have You Ever Seen the Rain, la superstizione ironica di Bad Moon Rising, la mitologia sinistra delle paludi della Louisiana di Born on the Bayou e la malinconia di Lodi, dedicata alle tante cittadine di provincia del bar bands circuit. Per non parlare delle rasoiate chitarristiche di Suzie Q e Keep on Chooglin’ o della torrenziale versione di I Heard It through the Grapevine: 11 minuti che dimostrano la capacità strumentale del gruppo: non virtuosi ma musicisti abili a piegare le loro capacità alle esigenze del pezzo, senza stancarti mai, con dinamica nella ritmica, coloriture continue in basso e batteria, licks e frasi distese nell’assolo oceanico alla sei corde, tutto unito dalla voce nerissima del ducetto.

Oggi “i dischi di papà” sono diventati “quelli del nonno” e per mia figlia hanno un sapore antico e magico. Lei però preferisce rovistare tra i Cd di casa e non ha ancora scoperto i Creedence. Ma ci arriverà e, posso scommettere, Cosmo’s Factory sarà l’ennesima epifania del rock.

Da ascoltare
Creedence Clearwater Revival: Bayou Country (1969)
Creedence Clearwater Revival: Green River (1969)
Creedence Clearwater Revival: Willy and the Poor Boys (1969)
Creedence Clearwater Revival: Cosmo’s Factory (1970)
Creedence Clearwater Revival: Pendulum (1970)
Deep Purple: Fireball (1971)
Grand Funk Railroad: E Pluribus Funk (1971)
Santana: Abraxas (1970)
Emerson, Lake & Palmer: Pictures At An Exhibition (1971)
New Trolls: Concerto Grosso (1971)

Da leggere
Bad Moon Rising: The Unauthorized History of Creedence Clearwater Revival di Hank Bordowitz, Schirmer Books, New York 1998
Creedence Clearwater Revival di Antonio Lodetti, Gammalibri, Milano 1987