di Alessandro Villari

La slitta procedeva lenta lasciando solchi profondi sul viale innevato. Ballerina e Salterello, le due renne superstiti, sbuffavano sotto il carico pesante adagiato sul sedile posteriore.
A cassetta stava un orco gigantesco dall’aria truce, nudo da capo a piedi eccezion fatta per il rozzo cinturone di cuoio da cui pendeva un coltellaccio. Ai lati e dietro il veicolo, una processione di creature simili alla prima avanzava affondando nella neve alta, accompagnando ogni passo con imprecazioni e grida minacciose.

Un poco più avanti, gli elfi bruni del presidio davanti ai cancelli esterni osservavano con tensione crescente il corteo di crumiri sempre più vicino nella penombra della notte polare.
Una settimana prima, quando i capi della cooperativa avevano comunicato che ogni squadra avrebbe dovuto processare il venti per cento di pacchi in più all’ora, in molti avevano deciso che la misura era colma, e avevano incrociato le braccia. Da quel giorno, non un solo pacco era uscito dai cancelli della Fabbrica di Giocattoli: con l’avvicinarsi del giorno di Natale, l’azienda cominciava a preoccuparsi che le consegne non sarebbero avvenute in tempo, e schierava l’artiglieria pesante.

— In posizione! Pronti con le munizioni! — gridò l’anziano Adanedhel, in piedi su un ceppo per riguadagnare qualcuno dei centimetri persi con l’età.
Di fianco a lui, Carnil si sfilò il cappuccio rosso a punta, forato in cima, e lo impugnò come un megafono: – Fratelli! — prese a scandire — Non siamo noi i vostri nemici, ma i padroni che ci mettono gli uni contro gli altri per sfruttarci più facilmente.
Sguaiate risa di scherno e insulti si sentirono in lontananza. — Non avevo dubbi, era solo per pulirci la coscienza. — Sorridendo a denti stretti, l’elfo si schierò con gli altri di fianco a un mucchio ordinato di palle di neve: in tutto erano un centinaio dietro al muretto di pietre alzato una settimana prima, esteso per tutta la larghezza del cancello principale della Fabbrica di Giocattoli. Ai lati della rudimentale fortificazione, su due torrette che sembrava dovessero cadere da un momento all’altro, sventolavano alcune bandiere del Sindacato Folletti Industriali del Giocattolo Artico.
Dalle retrovie accorse un altro elfo di piccola taglia, ciuffi bianchi che uscivano dal cappuccio felpato — Aspettate! È un suicidio, sono più grossi di noi, e a giudicare dalla slitta sono pure armati meglio. Possiamo ancora cercare un accordo ed evitare un massacro. Mandiamo qualcuno a trattare!
— Zitto tu, Cuattrocchil, che sei del PACCO! — fece una voce.
— Non sono del PACCO — si schermì il primo con tono scandalizzato — Sto qui al presidio dal primo giorno e mi sono fatto il mazzo tanto quanto voi. Ma non vedo come farci riempire di botte possa aiutarci adesso.
— Questi non sono venuti per trattare, sono qui per sfondare il blocco e possibilmente farci sputare un po’ di sangue. Possiamo impedirglielo, se restiamo compatti. Non è il momento di spaventarci! — intervenne Adanedhel in un tono che non ammetteva repliche. L’elfo chiamato Cuattrocchil chinò il capo rassegnato e, scuotendo la testa, tornò al suo posto di fianco alle munizioni.

L’orco seduto sulla slitta fece un cenno con la mano e il corteo si fermò, azzittendosi. Aveva ricevuto ordini precisi: non dovevano attaccare per primi. D’altra parte neppure potevano rischiare di farsi sorprendere dalle zecche del presidio senza essere pronti a difendersi e a reagire. E poi, diciamolo, lui e i suoi avevano una gran voglia di dare una bella lezione a questi pezzenti elfi bruni.
Un corvo scese in picchiata verso la slitta con un verso stridulo e si posò sulla spalla del bravaccio, che inclinò il capo come per ascoltarlo meglio. Dopo qualche istante l’uccello si levò nuovamente in volo e in pochi secondi era già sparito. L’orco piegò le labbra in un ghigno: palle di neve! Le zecche erano ancora più sfigate del previsto.
Dal presidio giunse nuovamente una voce: — Attenti! Se avanzate oltre la riga tracciata davanti a voi saremo costretti a difenderci con le armi. Andatevene prima che per voi sia troppo tardi!
In effetti, pochi metri più in là, un cordino di spago rosso teso fra due bastoncini di zucchero segnava una linea sulla neve. L’orco non ci pensò un secondo: adesso aveva il pretesto per non dover attaccare per primo. Levò il braccio destro e comandò alle bestie di procedere; gli orchi ripresero a marciare e imprecare. Non appena Salterello calpestò lo spago con lo zoccolo, una palla di neve gli fece saltare la testa.

* * *
All’ultimo piano della torre di vetro e acciaio al centro della Fabbrica di Giocattoli, Joe Bambino stava tenendo la relazione di fine anno davanti al Consiglio di Amministrazione allargato.

Dopo l’attentato di tre anni prima, il Consiglio aveva preso alcuni provvedimenti fondamentali: il primo era stato scorporare dal gruppo la Fabbrica di Giocattoli, creando un’apposita NewCo svincolata da contratti collettivi e altre pastoie burocratiche o sindacali buone solo a frenarne la produttività. In secondo luogo, aveva deciso di spostare la sede da Atlanta al Polo Nord, in modo da creare l’immagine di un’azienda legata al suo prodotto e, soprattutto, scoraggiare nuovi attacchi. Infine, il Consiglio aveva proposto la carica di Amministratore Delegato della Fabbrica di Giocattoli a lui, Joe.
Inizialmente l’uomo era rimasto spiazzato: possibile che l’azienda non percepisse l’ostilità della sua famiglia ai piani di ristrutturazione che negli anni precedenti avevano decimato la forza lavoro della Fabbrica? A poco a poco, però, pensandoci, l’iniziativa prese ad avere un suo senso: nominando a capo della nuova società il genero di Babbo Natale, scomparso proprio la notte prima dell’attentato in circostanze misteriose, il Consiglio voleva dare un segnale di continuità con la gestione precedente; l’investitura di Joe, da sempre impegnato in difesa dei diritti degli elfi operai, avrebbe rassicurato le maestranze e riportato sotto i livelli di guardia il tasso di conflittualità in fabbrica; d’altra parte, finalmente qualcuno valorizzava le sue doti imprenditoriali: non era proprio un’occasione da buttare via. Infine, si convinse di essere davvero l’uomo giusto per guidare il nuovo corso della Fabbrica di Giocattoli.
Il difficile fu convincere la moglie. Mary Natale era già piena di risentimento nei confronti dell’azienda che aveva incorporato l’impresa del padre un’ottantina di anni prima; la scomparsa di Babbo Natale, poi, di cui fin troppo esplicitamente incolpava i nuovi proprietari, l’aveva definitivamente esacerbata. Dopo aver cercato di dissuaderlo dall’accettare la proposta, una volta presa la decisione gli aveva voltato le spalle: se già prima i due dormivano in letti separati (Joe aveva impiegato molto tempo ad accettare le bizzarre spiegazioni di Mary sulla nascita di Joshua), adesso la moglie rifiutava persino di sedersi alla stessa tavola del marito. Questa situazione era durata un paio di mesi, fino al giorno in cui Babbo Natale, dato per morto, era tornato a casa.
Non ci era tornato sulle sue gambe, era ridotto a poco più che un vegetale: l’avevano trovato alcuni elfi che avevano chiesto ospitalità a una famiglia di Eschimesi durante una tormenta. A quanto pareva, il vecchio era precipitato dalla slitta nei paraggi ed era stato raccolto dalla famiglia, che l’aveva curato quel tanto che bastava a farlo sopravvivere. Da allora Mary aveva trovato una nuova ragione di vita nell’accudire il padre. I rapporti con Joe non si erano ricuciti del tutto, ma avevano ritrovato una parvenza di normalità.
Adesso Babbo Natale era lì, membro onorario del Consiglio di Amministrazione ma del tutto incapace di pronunziare parole intelligibili. Adagiato sulla sedia a rotelle, lo sguardo perso nel vuoto fuori dalla vetrata, sentiva le parole di Joe, senza che nessuno neppure si chiedesse se le stava ascoltando.

— L’esternalizzazione dei servizi logistici, decisa dodici mesi fa e resa operativa lo scorso luglio, ci ha consentito di abbattere le spese del quindici percento rispetto allo scorso anno, in linea con le previsioni. Appaltare alla cooperativa il carico e scarico merci ci garantisce una maggiore flessibilità dei ritmi di lavoro e l’ottimizzazione del costo della manodopera. Il confronto con la gestione precedente è immediato: ora possiamo disporre pressoché senza vincoli delle ore che ci servono nelle sole settimane in cui occorrono, senza necessità di ingaggiare stagionali o di ricorrere al lavoro straordinario. Grazie a questo passaggio, che giustamente ritenevamo indispensabile, chiudiamo l’anno in sostanziale pareggio e siamo in grado di annunciare che fra quattro trimestri, per la prima volta da due decenni, distribuiremo utili per poco meno di un miliardo di dollari.

Un applauso composto ma convinto accompagnò le ultime parole. Tra i più entusiasti l’elfo Fangluin, delegato del Movimento Elfi Riuniti Dell’Artide: era lui che aveva convinto Joe Bambino dell’utilità di coinvolgere nel nuovo corso aziendale i sindacati “propositivi”, quelli che non si limitavano a “dire sempre di no”, ma erano disponibili a gestire insieme alla proprietà le politiche industriali. Così erano stati aggiunti due posti al Consiglio di Amministrazione, senza diritto di voto, per i rappresentanti del MERDA e del Patto Artico Confederato Creature Operaie; Ilyalisse, il delegato del PACCO, pur altrettanto convinto della necessità della ristrutturazione aziendale, appariva tuttavia meno euforico del collega: avrebbe voluto avere notizie fresche sullo sgombero del presidio degli elfi bruni, ma dalla torre di vetro il cancello esterno dello stabilimento non si poteva vedere.

* * *

Carnil fu colpito da un bastone all’altezza dell’orecchio destro, perse il cappuccio a punta ma non i sensi: piombò tuttavia in un mondo ovattato che sembrava muoversi al rallentatore. D’istinto parò una seconda bastonata che gli sarebbe stata fatale e a sua volta centrò l’orco che si era sbilanciato per colpirlo, mandandolo al tappeto. Con la coda dell’occhio vide l’anziano Adanedhel, ancora in piedi nonostante il sangue che gli copriva metà del volto, impartire degli ordini: non riusciva a sentirli ma comprese che comandava la ritirata e si affrettò, per quanto poteva, a raggiungere la cancellata. Altri due elfi stavano armeggiando per chiuderla lasciando aperto quel poco che bastasse a far rientrare i compagni.

— Presto! Nel cortile! Voi, state pronti a sprangare il cancello non appena saranno passati tutti! — stava gridando in effetti.
La ritirata non fu un’operazione semplice: la battaglia era ormai un corpo a corpo, non appena gli elfi si districavano dal combattimento, in parecchi erano falciati impietosamente dagli orchi. Il sangue tingeva di rosso la neve come una fioritura di papaveri fuori stagione.
Nel punto in cui gli scioperanti avevano aperto uno spiraglio nella cancellata si accese l’ennesima mischia, con gli inseguitori determinati a impedire che gli elfi serrassero il varco. Infine, il cancello si richiuse con uno schiocco metallico: ora avrebbero avuto almeno un po’ di respiro, il cancello della Fabbrica di Giocattoli non si poteva aprire dall’esterno, avrebbero dovuto sfondarlo.

All’interno del cortile erano rimasti in una cinquantina scarsa gli elfi della cooperativa; nello spiazzo, tra loro e i magazzini della logistica, stavano vere e proprie montagne di regali, pacchi da spedire in tutto il mondo per Natale: il sogno di ogni bambino. Un centinaio di metri più indietro sorgeva la fabbrica, un edificio a forma di castello in mattoni rossi con tanto di ponte levatoio, sollevato. Gli elfi bruni non entravano mai lì dentro: ci lavoravano gli elfi silvani dipendenti diretti dell’azienda — dei privilegiati, rispetto a loro. Sullo sfondo si stagliava la torre di vetro e acciaio del Consiglio di Amministrazione, unico elemento ultramoderno nel paesaggio industriale ottocentesco.

— Io l’avevo detto che non avevamo speranze! — esclamò Cuattrocchil. Nessuno gli rispose, era difficile dargli torto ora. — Arrendiamoci, abbiamo perso, salviamoci almeno la pelle: a che cosa può servire farci massacrare dal primo all’ultimo? — domandò esasperato.
— Da fuori non si sente nessun rumore — osservò qualcuno con tono timidamente speranzoso.
— Inutile sperare che se ne vadano — rispose un altro — sono venuti per togliere il presidio e non rinunceranno ad attaccare finché non avranno riaperto il cancello.
— O finché non ci arrendiamo — intervenne Cuattrocchil.
Non aveva ancora chiuso la bocca che un involto gli cadde fra i piedi, proveniente da fuori. Si udirono nuovamente gli orchi sghignazzare. L’elfo si chinò ad aprire il fagotto, ma subito se ne ritrasse inorridito quando ne emerse la testa di un compagno, resa irriconoscibile dal sangue e dai colpi subiti.
— A quanto pare, la resa non è un’opzione — commentò Adanadhel.
Come a confermare le sue parole, un clangore assordante costrinse gli scioperanti superstiti a tapparsi le orecchie a punta; quando le scoprirono, la vibrazione della pesante cancellata metallica persisteva nell’aria.
— Abbiamo forse mezzora. Se ci arrendiamo o scappiamo, avremo forse salva la vita ma non avremo più un lavoro: ci licenzieranno di sicuro non appena la situazione tornerà sotto il loro controllo. Combattere per il nostro lavoro è combattere per la nostra vita e per quella delle nostre famiglie. Io dico: vendiamo cara la pelle! Non siamo ancora sconfitti!
Silenzio. Quindi un secondo colpo risuonò sulla cancellata.
Dopo qualche istante un elfo si staccò dal gruppo e si mise di fianco all’anziano insanguinato: — sono con te.
Un secondo lo seguì, poi un terzo e un quarto; a poco a poco, tutti gli scioperanti si mossero, composti, senza cenni di entusiasmo: condannati desiderosi soltanto di una morte dignitosa. Solo una manciata rimase indietro; infine Cuattrocchil sfoderò la sua espressione più lamentosa, e con voce rassegnata sospirò: — E va bene. Che dobbiamo fare?
Adanadhel si guardò intorno velocemente con l’unico occhio buono che gli era rimasto, quindi ordinò: — Voi, disselciate il cortile. Voialtri, spostate quei pacchi e tirate su delle barricate, qui, qui e lì. Carnil … Carnil!! Ci sei? — Ancora un po’ stordito, l’elfo fece cenno di sì con la testa.
— In quel mucchio lì dietro stanno i regali di superalcolici. Usa le bottiglie con la gradazione più alta, whisky e altri distillati: tutti quelli che sanno fabbricare una molotov, con lui.

Gli elfi si divisero per svolgere i compiti assegnati, il loro lavoro era scandito dai colpi sul cancello, più o meno ogni minuto. Mentre i cardini cedevano a uno a uno, tre barricate luccicanti e infiocchettate si alzavano fino a due metri di altezza e cinque di larghezza, secondo le istruzioni di Adanadhel; dietro a ciascuna venivano portate carriole cariche di sampietrini; gli elfi della squadra di Carnil avevano fabbricato una ventina di bottiglie molotov: le più lussuose mai create.
Dopo quaranta minuti, quasi tutti gli scioperanti erano schierati dietro le barricate, pronti ad accendere le micce e lanciare le bottiglie non appena l’ultimo cardine del cancello fosse saltato.

* * *

Nella torre del Consiglio di Amministrazione nessun rumore poteva penetrare dall’esterno. La seduta procedeva senza intoppi, scandita dagli applausi dei partecipanti ogni volta che veniva sciorinato un indicatore in crescita, ogni volta che un nuovo grafico appariva sui tablet nuovi fiammanti che erano stati regalati a ciascuno, anche a Babbo Natale che a stento lo reggeva e aveva un filo di bava che si andava depositando sullo schermo.
— Che spreco — pensò Joe Bambino quando lo sguardo cadde sul suocero. Ma subito smise di preoccuparsene: era il momento del suo grande annuncio.

* * *

Gli orchi non si aspettavano che gli elfi bruni avrebbero opposto ulteriore resistenza. I primi a mettere il muso fuori dalla breccia aperta nel cancello furono accolti da una grandinata di pietre, che ne misero alcuni fuori combattimento. Poi, quando il grosso dei crumiri fu all’interno del cortile, non fecero in tempo a raccapezzarsi per capire come affrontare le barricate che, lanciate da un altro punto dello spiazzo, atterrarono ai loro piedi le bottiglie fiammeggianti. Frammenti di vetro esplosero in ogni direzione, molti degli orchi non si rialzarono da terra.
Una nuova ondata di assalitori penetrò oltre il cancello e ricevette lo stesso trattamento. Andarono avanti così per un po’: gli orchi spingevano e cadevano appena entrati; altri prendevano il posto dei caduti. Finché un temerario riuscì a raccogliere una delle molotov prima che esplodesse e la lanciò verso una barricata: dopo pochi istanti questa saltò in aria in un tripudio di nastri e fiocchetti e carta colorata. Gli elfi che non riuscirono ad allontanarsi in fretta rimasero per terra, gli altri si ripararono dietro la protezione più vicina.
Le forze in campo erano di nuovo in equilibrio, ma gli assedianti erano di più, e gli assediati stavano finendo le munizioni. Quando anche la seconda barricata crollò, gli elfi superstiti capirono che la sconfitta — e probabilmente la morte — era imminente.

Il capo dei crumiri aveva il sangue agli occhi: in senso letterale e metaforico. Gli elfi l’avrebbero pagata per avergli inflitto tante perdite: finalmente la vittoria era a portata di mano. Alzò il braccio per ordinare ai suoi di attaccare con tutte le forze l’ultima barricata rimasta in piedi. Gli orchi non aspettavano altro: si scagliarono disordinatamente contro l’estremo riparo dei nemici, determinati a non fare prigionieri.

Fu allora che dall’edificio principale della fabbrica proruppe un suono profondo e prolungato. Istintivamente elfi e orchi levarono gli occhi al grande orologio in cima al castello: ma era troppo presto perché fosse la sirena di fine turno.

* * *

Nella grande sala del Consiglio di Amministrazione risuonò per alcuni secondi un segnale grave; istintivamente Joe Bambino e gli altri partecipanti abbassarono gli occhi sui rispettivi Rolex placcati oro — regalo aziendale dell’anno precedente: ma era troppo presto perché fosse la sirena di fine turno. E poi la sirena di fine turno non si sarebbe dovuta sentire lassù. Forse un allarme anti-incendio? Ma più che un allarme, pareva un richiamo di caccia o qualcosa del genere.
Mentre tutti si guardavano intorno incerti, la porta si spalancò e una decina di elfi silvani fecero il loro ingresso, arco spianato e freccia incoccata. Joe riconobbe il capo, che conosceva da prima di assumere la carica di Amministratore Delegato.
— Non vi muovete e non vi sarà fatto del male. Da questo momento la Fabbrica di Giocattoli è occupata.
— Che significa questa messa in scena, Cuthalion?
— Da mesi il nostro informatore ci aveva avvisati del tuo progetto, ma molti di noi non volevano agire senza una conferma.
— Ma di che stai parlando?
— Hai appena annunciato al Consiglio di Amministrazione che entro i prossimi sei mesi due terzi della produzione verrà trasferita in Cina, cinquemila elfi saranno messi in mobilità e poi licenziati.
— Ma come…
— Abbiamo trasmesso l’intera seduta in streaming davanti a tutti gli operai della fabbrica. Un’idea di Babbo Natale. — L’elfo chiamato Cuthalion fece un cenno in direzione del vecchio, che rispose con un sorriso e sollevò il suo tablet.
Joe era esterrefatto, ma non ancora rassegnato: — E come pensate di andare avanti, da soli?
— Come abbiamo sempre fatto. Tu hai forse mai assemblato un giocattolo, o legato un fiocco?
A sorpresa, fu Ilyalisse, il sindacalista, a intervenire: — Ma voi non capite! Se non riduciamo il costo del lavoro l’azienda dovrà chiudere, soccomberà alla concorrenza. Qui si tratta di scegliere se salvare il posto ad almeno un terzo dei lavoratori, o andarcene a casa tutti quanti!
— Zitto tu, che sei del PACCO!
— Ma io non…
Non fece in tempo a finire la frase: una freccia gli trapassò il cranio.
Immediatamente tutti i consiglieri alzarono le mani in segno di resa.

* * *

Orchi ed elfi bruni rimasero come paralizzati a fissare il ponte levatoio del castello-fabbrica che si abbassava. Ne uscirono di corsa un centinaio di elfi silvani, operai della Fabbrica di Giocattoli, armati di bastoni, martelli, lunghe forbici e chiavi inglesi. Gridando si scagliarono contro i crumiri: come un’ondata di piena travolsero i nemici colti di sorpresa e pressoché incapaci di difendersi o fuggire. Lo scontro durò pochi minuti.

— Mi chiamo Menelvagor, noi operai abbiamo occupato la fabbrica, da oggi nessun lavoro sarà più appaltato alle cooperative, come gestire l’azienda lo decideremo tutti insieme: volete unirvi a noi?
Adanadhel era tanto emozionato che non riusciva più a parlare e piangeva dall’unico occhio aperto: non seppe far altro che abbracciare l’elfo silvano. Lo stesso fecero i suoi compagni: di un centinaio che erano, si reggevano in piedi in una trentina appena.
— Dobbiamo occuparci dei caduti e dei feriti — riuscì finalmente a dire l’anziano. Il silvano annuì e ad un suo cenno tutti gli operai si misero al lavoro.

Ci vollero alcune ore per trasportare tutti i feriti in un’improvvisata infermeria ricavata in un’ala della mensa; le pire per i morti furono allestite di fianco al cancello principale dello stabilimento, nello spiazzo che gli scioperanti avevano disselciato in precedenza per raccogliere i sampietrini.
Elfi bruni e silvani assistevano insieme al rito funebre, i volti rigati di lacrime illuminati dalle fiamme.
Fu Cuattrocchil a rompere il silenzio: — E adesso come facciamo con i regali? È tutto distrutto! La nuova gestione della fabbrica fallirà prima ancora di cominciare…
— Zitto tu, che sei del PACCO!
— Ma…
— Eddai, stavo scherzando — sorrise Carnil, ancora un po’ intronato ma di buon umore — Però non hai tutti i torti, qui è un vero disastro.
Intervenne Cuthalion, l’elfo silvano che aveva guidato l’occupazione del Consiglio di Amministrazione: — Forse ho un’idea…

* * *

Alex non si aspettava di trovare dei pacchi sotto l’albero, quella mattina. Anche se andava ancora in terza elementare, aveva capito che il papà non era veramente in vacanza, come aveva raccontato a lui e ai fratellini: era quasi sempre triste, una volta l’aveva addirittura visto piangere e no, non ci aveva creduto quando gli aveva raccontato che si era fatto male con uno spillo. E poi, adesso lo sapeva che i grandi dicevano le bugie: ad esempio, l’anno prima aveva scoperto che Babbo Natale non esisteva e che i regali li prendevano il papà e la mamma (ma questo non doveva raccontarlo ai fratellini). Perciò pensava che quest’anno non ce ne sarebbero stati: da quando il papà non andava più al lavoro avevano smesso di andare a mangiare la pizza il sabato, e non li aveva neppure portati a vedere il cartone animato al cinema, che scaricato dal computer non era la stessa cosa. La sera della vigilia, poi, la mamma aveva detto che Babbo Natale quell’anno era ammalato e quindi forse non sarebbe venuto, ma avrebbe recuperato tra qualche mese: lì aveva capito che di regali, quel Natale, non ne avrebbero avuti.
Fu sorpreso perciò quando vide quattro pacchetti infiocchettati identici, grandi come una scatola da scarpe, ciascuno col nome di uno dei bambini scritto sopra. Prese il suo, era pesante. Lo scosse con cautela e sentì qualcosa muoversi all’interno della scatola, ma senza rotolare, come fosse un sasso squadrato. Andò in cucina a fare colazione, domandandosi come avrebbe potuto usarlo.