di Girolamo De Michele

muduRIDOTTA02.jpgOggi dobbiamo avere il coraggio di guardare in faccia la realtà. Gli eventi degli ultimi giorni mi portano a pensare che non solo è possibile un futuro di Taranto senza l’Ilva, ma che abbiamo il dovere di immaginarlo. (Nichi Vendola, 9 marzo 2012)

Penso che [quelli che chiedono la chiusura dell’Ilva] siano mossi da un pregiudizio reazionario nei confronti dell’industria. Se seguissimo la loro strada che dovremmo fare, riconvertire in pastorizia 20 mila lavoratori? Pensiamo sul serio che l’economia italiana possa fare a meno dell’industria per dar vita all’epoca del bricolage? (Nichi Vendola, 31 luglio 2012)

Venerdì 5 ottobre, a Taranto, 13.000 cittadine e cittadini liberi e pensanti hanno partecipato alla fiaccolata notturna [nell’immagine in alto, a sinistra] a sostegno dei provvedimenti giudiziari che hanno imposto la chiusura dell’Ilva, la fabbrica della morte. Il giorno dopo, ad assaggiare la ribollita di Matteo Renzi che iniziava proprio da Taranto il tour promozionale in Puglia, c’erano 300 persone: nelle prime file della sciccosa sala dell’hotel Mercure Delfino erano riconoscibili rottamati e rottamandi del ceto politico locale. Basterebbe questo confronto per capire che a Taranto sta succedendo qualcosa di nuovo e rivoluzionario.

Due mari, tre ponti, due città

Al giovane Alberto Savinio, di passaggio da Taranto durante la Grande Guerra, parve di riconoscere non una, ma due città: «Taranto mi rivela la sua fisionomia: è una faccia rasata per metà — Taranto nuova è la gota rasata e Taranto vecchia è quella non rasata». La misera città vecchia, e la città nuova nella quale tutto sa di Grecia; il ponte di ferro, «meraviglia delle meraviglie», e lo schifo dell’infernale traghetto condotto da «una specie di Caronte pugliese» [1]. Senza nulla sapere di Taranto, Savinio riportava in bello stile quello che era già un archetipo consolidato della narrativa locale: la città una e bina, che rimandava in modo “spontaneo”, cioè ingenuo, alle coppie natura-cultura, conservazione-progresso, l’età dell’oro e l’età del bronzo – e poi dell’acciaio.
Una chiave di lettura, quella della dualità, che finiva per immortalare come immutabili archetipi dei tratti caratteriali e sociali prodotti dalle materiali condizioni di esistenza, dai rapporti sociali, dalla concreta modalità di espressione della vita: e che, dietro l’indiscreta presenza di un ammiccante “buon selvaggio”, non coglieva le ragioni di quella dualità, che pure esisteva. Città duale, la Taranto del Novecento, perché sin dall’inizio del lungo XX secolo, e cioè prima dell’arrivo della grande fabbrica, mostrava una stratificazione sociale ben più complessa della classica città meridionale divisa tra lavoratori della terra, latifondisti inurbati e borghesia umbertina. Lavoratori del mare, divisi tra pescatori e mitilicultori (che, associati in cooperative — che il Regime avrebbe poi sciolto —, occupavano uno strato molto vicino a quel ceto medio solitamente assente nel meridione); classe operaia, divisa tra arsenalotti e lavoratori dei cantieri navali (che raggiungevano un alto grado di specializzazione, venendo richiesti in missione dalle grandi aziende idrauliche del nord); e quell’embrione di piccolo commercio itinerante che negli anni Cinquanta si sarebbe sviluppato, come in buona parte della Puglia.
Sempre stratificata, e dunque sempre duplice, Taranto [2]: prima e dopo la trasformazione sociale indotta dall’Italsider, prima e dopo la crisi della siderurgia che, a partire dagli anni Ottanta, ha mostrato i limiti di un modello di sviluppo che in verità era già fallito. Si potrebbe tracciare la storia del paradigma della Taranto una e bina, per mostrarne la crisi, coincidente con una scrittura di narrazione e d’inchiesta finalmente radicata nella carne e nel sangue del reale. E mostrare come non i raddoppiamenti archetipici, ma le concrete conflittualità si esprimono oggi in nuove antitesi, come quella tra il linguaggio della narrazione col culo in terra – «Abbiamo in corpo, a famiglia, più benzene, polveri cancerogene, diossina, policarburi aromatici e gas saturi di non so nemmeno io che cosa» (Cosimo Argentina, Vicolo dell’acciaio) – e i barocchismi rettorici dell’eloquio politicante – «La Regione oggi ha posto all’Ilva un problema: la percezione dei riflessi lenti dell’azienda e il bisogno di dare segnali di maggiore tempestività anche su elementi che sono molto simbolici e contemporaneamente molto concreti» (Nichi Vendola, 14 settembre 2012).

Questa lunga premessa è necessaria per capire di cosa si parla, in concreto, quando si dice che a Taranto il conflitto non è solo tra la città e la fabbrica, tra il diritto alla salute e il diritto al lavoro: ma tra due città, una tesa al mantenimento del presente — cioè, non importa con quanta consapevolezza, allo sfruttamento e all’assoggettamento della città agli interessi particolari del profitto, dell’industria, in una parola del capitale; e l’altra che, nella sua parzialità, si fa carico dell’interesse generale — a partire dal diritto al futuro, cioè a un futuro vivibile e dignitoso per tutt@.
Un conflitto che ripropone l’attualità di quello “spirito pubblico meridionale” schizzato — e poi rimasto allo stato di abbozzo — da Franco Piperno: uno spirito pubblico nel quale dimorano, come alternativa alla modernità che si preserva e riemerge all’interno della propria crisi, forme di vita quali «la fiducia nella capacità di autorealizzazione», «la libertà di creare il senso della propria vita», e soprattutto «la permanenza di un’antica idea […] che pretende sia la vita umana una buona vita e non una faticosa sopravvivenza» [3]: e dunque pone, in modo urgente, la ripresa di un discorso “meridiano” (piuttosto che meridionalistico) che attraversi anche le forme comunicative e relazionali. In assenza di questo orizzonte, la comprensione di quello che accade oggi a Taranto, in significativa e temibile analogia con la Val di Susa, resta relegata a un’inopinata riproposizione delle categorie del pensiero liberal-democratico classico – dai trascendentali comunicativi di Habermas alle illusioni arendtiane sull’agorà greca.
E non è casuale che in questa parzialità che si fa carico dell’interesse generale si siano conquistate spazi e visibilità quelle soggettività da sempre parziali e marginali:passeggini_ilva.jpg le donne, nei diversi ruoli — pediatra, maestra, casalinga, studentessa, accademica persino — che il soggetto femminile ricopre. La casalinga sus’a le Tammorre che, ciabatte ai piedi e parannanza allacciata, se ne scende per entrare nel corteo che si snoda per le strade ha molto da insegnare non solo alla sua proverbiale collega di Voghera, ma a molti giornalisti e opinionisti (sui quali vedi infra) che farebbero miglior cosa a deporre la tastiera del PC e occuparsi dei piatti nel lavello da lavare e della polvere rossa da spazzare nel balcone [a sinistra, le madri con i passeggini che aprono la fiaccolata notturna del 5 ottobre].

Ecco il primo dei problemi che l’insorgenza tarantina – come già quella valsusina – pone al resto del paese: si potrà dubitare della forza euristica di concetti come “moltitudine” e “comune”; si potrà argomentare che non sono (ancora) sviluppati in modo adeguato, che (ancora) non afferrano il reale: ma se i concetti non colgono appieno, resta che l’oggetto a cui fanno segno esiste, non è un’invenzione teorica o cattedratica. Se la parola “moltitudine” non è adeguata, resta che qualcosa deve pur essere questa collettività tutt’altro che indistinta (tutt’altro che “popolo”, “gente”, “comunità”), all’interno della quale sono ben visibili i singoli elementi di una composizione di classe descrivibile; se “comune” – «il comune di cui si sta parlando non è soltanto la terra che condividiamo, ma anche il linguaggio che creiamo, le pratiche sociali che costituiamo, le forme della socialità che definiscono i nostri rapporti» [4] – non è concetto adeguato, resta che qualcosa devono pur avere “in comune” la casalinga e l’operaio, lo studente e la pediatra, il parroco e il maestro, il genitore e l’ultras. Ma non è questo, posto che ce ne sia uno, il luogo in cui baloccarci con distinguo e nominalismi.

La parabola del metalmezzadro

A fronte della città che “non vuole morire a norma di legge” (come recitava uno degli striscioni della fiaccolata notturna del 5 ottobre scorso), c’è la città che non vuole rinunciare all’Ilva: la Siderlandia, la città dell’acciaio, nella quale si saldano gli interessi di quella borghesia che dal sistema-fabbrica (e dalla sua stessa crisi) trae rendite di posizione, e di quel ceto operaio asservito al Moloch lavorista che vuole il senso della vita coincidere con l’alzarsi tutte le mattine per andare a lavorare, fare i turni, e andarsene a casa con un salario che ti costringe il giorno dopo a tornare in fabbrica, prima ancora che ad un padrone — Emilio Riva — le cui catene di comando sono in grado di orientare la protesta sociale e di spoliticizzare il conflitto senza estinguerlo.
È, non solo sul piano della questione ambientale, la “strana alleanza” tra operai e padrone di cui ha scritto Asor Rosa, dando il via a un complesso dibattito con (tra gli altri) Rossana Rossanda: «Il dato inquietante è che, in tutti i casi del genere, gli operai si schierano senza se e senza ma dalla parte del padrone, e non della cittadinanza (cui pure, ovviamente, appartengono); la cittadinanza si schiera dalla parte dell’ambiente, e non degli operai, cui altrettanto ovviamente, è legata da moltissimi vincoli di conoscenza e magari di parentela). Più in generale: non esiste una posizione operaia sulle questioni dell’ambiente» [5]. Quali che siano i pieni e i vuoti della discussione tra Asor Rosa e Rossanda, è un fatto che questa “strana alleanza” non solo esiste nei fatti, ma è addirittura esaltata dal partito dell’ILVA; con le parole di Gianfranco Polillo, sottosegretario all’economia e finanze: «dopo tanti discorsi sui valori post-moderni – l’ozio, i ritmi di vita e la sua qualità, i diritti svincolati (art. 3 della Costituzione) dai “doveri inderogabili”, l’ecologia e via dicendo – il lavoro, nella crisi, ha riconquistato una sua centralità. Fosse solo questo il motivo – e non lo è – siamo a fianco di quei lavoratori che si battono per il loro posto di lavoro. Non difendono solo una posizione di classe, come si diceva una volta, ma una prospettiva che coincide – come teorizzava il vecchio Marx – con interessi più generali». E pazienza per la “citazione” di Marx: ne ha visti tanti, il barbuto di Treviri, di quelli che chiamava “pugilatori di professione” (oggi si direbbe “utili idioti”).

Ma come si è arrivati a questa situazione? Per capirlo, bisogna fare un passo indietro. Taranto, infatti, non è descrivibile con le chiavi di lettura della (mancata o incompiuta) modernizzazione del meridione: mentre le realtà meridionali “saltavano” direttamente dalla realtà urbano-rurale all’affermazione del terziario (esemplare, come confronto, lo sviluppo della città di Bari, sul quale e sulla quale, più di tante ricerche sociologiche, coglie in profondità il romanzo di Nicola Lagioia Riportando tutto a casa), Taranto rappresenta un caso da manuale di sussunzione della società all’interno della fabbrica. Lo si capisce ritornando al “metalmezzadro”, quella strana anomalia che Walter Tobagi, pistaiolo di razza, colse in un’inchiesta su Taranto nel 1979 [6]: «il vero protagonista sommerso si chiama metalmezzadro. È metalmeccanico, lavora nello stabilimento Italsider grande due volte e mezzo la città. Abita nei paesi della provincia e trova il tempo per coltivare il pezzo di terra. Su trentamila stipendiati della più grande industria del Sud, almeno la metà appartiene alla categoria dei metalmezzadri. E sono loro che hanno reso “ricchi” comuni di antica miseria come Grottaglie, Manduria, Massafra, Mottola, Laterza, Venosa».
Nella stessa inchiesta, Tobagi coglieva «la “contraddizione” tra l’enorme concentrazione industriale di Taranto e il vuoto che c’è attorno». Contraddizione esemplificata dalla vertenza dei lavoratori delle ditte appaltatrici che avevano costruito l’Italsider: non tutti sono stati assunti dalle fabbrica. La soluzione trovata — un uso consociativo e assistenziale della cassa integrazione, concordato coi sindacati — attestava come sin dal suo sorgere l’Italsider non era in grado di svolgere quel ruolo di traino dello sviluppo: «l’Italsider assicura una discreta quota di benessere medio, ma non ha determinato quel decollo della regione che molti speravano quando si gettarono le fondamenta di questa cattedrale della siderurgia. Le spiegazioni sono tante: mentre cresceva la fabbrica nuova, decadevano i cantieri navali e l’arsenale, che furono la prima base industriale della città». Annotava ancora il giornalista: «cresce il numero dei giovani che non sanno dove sbattere — ammette il segretario della Cisl, Mimmo D’Andria, ex operaio Italsider. “La difesa dell’occupazione era una scelta obbligata. Ma così siamo diventati il sindacato degli occupati”. E il rapporto con la città s’è allentato, molti giovani tendono a considerare il sindacalista, perfino il delegato di fabbrica, come un personaggio influente, di successo».
Siamo, vale ricordarlo, negli anni in cui l’espansione dell’Italsider era al suo acme, prima della crisi iniziata negli anni Ottanta. Eppure Tobagi aveva già colto le linee essenziali del rapporto tra città e fabbrica: captazione della ricchezza sociale all’interno della fabbrica, con l’impoverimento delle altre risorse del territorio; mancata restituzione al territorio della ricchezza prodotta; attitudine consociativa dei sindacati — che si espresse in particolare nel fornire al PCI i servizi d’ordine utilizzati per spazzare via dalle piazze il movimento, indebolito dall’assenza di una componente studentesca (l’assenza di un’università costringeva all’emigrazione i diplomati che non entravano in fabbrica) e dalla moderazione del ceto operaio.

lungomare.jpgAggiungiamo altri due elementi, interni allo sviluppo edilizio. Taranto diventa oggetto di un faraonico piano regolatore che, prevedendo la crescita della città fino a 350.000 abitanti (all’apice della crescita demografica Taranto toccherà i 240.000 abitanti, per poi scendere agli odierni 195.000), trasforma in terreno edificabile l’intera area tarantina, dando l’avvio a una speculazione che si è concretizzata nella costruzione di falansteri e quartieri-ghetto, con la conseguente deportazione in orribili periferie (il cui governo, negli anni Ottanta, è stato garantito dai clan malavitosi locali) degli abitanti dei quartieri popolari — prima tra tutti la città vecchia — lasciati in malora, e la creazione di un potente ceto di costruttori, intrecciato a filo doppio con la malavita locale. L’emblema dell’arroganza di questo ceto è il grattacielo costruito sul percorso del lungomare che, se avesse raggiunto il faro di San Vito abbracciando il Mar Grande di levante, sarebbe stato di straordinaria bellezza.
Accanto a questa speculazione “borghese”, una selvaggia speculazione “proletaria”, incarnata dall’operaio urbano che si costruiva, spesso con le proprie mani e in regime di abusivismo edilizio, la casa al mare, devastando un litorale contrassegnato da dune di sabbia e pinete marine: l’individualismo proprietario, inoculato dalla fabbrica nell’operaio-massa tarantino, si è concretizzato in uno scempio ambientale che ha cancellato la possibilità di sviluppare un’industria del turismo paragonabile a quella del “rinascimento del Salento”.
E se il lavoro del mare deperiva e il turismo moriva sul nascere (limitandosi a quello interno: il pugliese emigrato che torna a casa per l’estate, o il residente che si sposta dalla città al mare), l’agricoltura governata dal “metalmezzadro” che assommava il salario di fabbrica alla rendita della terra, in mancanza di una reale spinta a modernizzare stazionava in uno stadio di mancato o ritardato sviluppo, mentre altrove si modernizzava e si sviluppava: si pensi all’industria vinicola nel Salento, o alla sussunzione di quella casearia e alimentare adriatica nella rete della Coop Adriatica.

Negli anni Ottanta, la crisi della siderurgia apriva le porte all’unica alternativa sociale disponibile alla miseria: la produzione illegale di reddito e la formazione di una “seconda borghesia” malavitosa che si è aggiunta alla “prima”, colmandone il deficit di forza sociale dapprima attraverso un’accumulazione originaria di capitale derivante dal controllo e dall’espansione, in regime di monopolio, del mercato delle droghe leggere (spazzando via il freak che tornava dall’India o dal Marocco) e pesanti (diffondendo dapprima l’eroina, e poi la coca), e dell’imposizione di una governance criminale dopo una feroce guerra intestina; e poi attraverso il controllo degli appalti, dei sub-appalti e dell’edilizia, all’assorbimento all’interno della borghesia locale di soggetti provenienti dalla circolazione “legale” del capitale “illegale” (cioè dal riciclaggio del denaro “sporco” in attività formalmente “pulite”), sottoposta a quella particolare forma di controllo che è la governance del debito — dall’usura al gioco d’azzardo: non si dimentichi che la Puglia è stata la porta d’ingresso di quella autentica peste dell’immaginario neo-borghese che è il burraco. Le giunte comunali Cito (un ex picchiatore fascista dalla reputazione esagerata a dismisura dalla chiacchiera indigena, interno, come i processi hanno attestato, alla malavita locale) prima, e Di Bello poi, trovano linfa e ragion d’essere in questo humus.
Nel frattempo lo spostamento della marina militare dal Mar Piccolo a Mar Grande apriva per il porto, in linea teorica, prospettive commerciali e turistiche: che sono state vanificate, lasciano al porto commerciale il ruolo di molo d’imbarco quasi privato dell’Ilva — una mera appendice del porto di Genova, in definitiva.alien_kane.jpg E l’inquinamento del Mar Piccolo, determinato sia dagli scarichi della fabbrica che dalla dispersione di materiale inquinante durante le attività portuali, infliggeva un ulteriore colpo alla sopravvivenza dell’economia ittica e alla mitilicoltura.

Questa lunga digressione storica mostra in che modo l’intera società jonica è stata sussunta e riplasmata dalla fabbrica, sino a diventarne un’appendice inscindibile: come in Alien l’astronauta Kane (interpretato da John Hurt) è al tempo stesso tenuto in coma e in vita dall’alieno.

I servi, i prezzolati e gli Iscariota
(a ‘u squagghje d’â néve appàrene le strunze)

È spesso utile, per capire l’importanza delle lotte, prestare ascolto alle retoriche delle controparti, soprattutto quando i toni si fanno aspri e i formalismi linguistici cedono il campo al linguaggio diretto. Fino al 2 agosto i cantori delle magnifiche sorti dell’industria avevano tre paladini: Federico Pirro, membro del Centro Studi Ilva; Tommaso Francavilla, “apolide di centro-destra” (la definizione è sua); e Peppino Caldarola, ex direttore di “Rinascita” e “l’Unità”, attuale editorialista sul “Giornale” e, soprattutto, sul “Corriere del mezzogiorno”, testata locale del “Corriere della sera”. Guest star in appoggio, monsignor Papa, vescovo di Taranto fino allo scorso novembre, per il quale a Taranto ci sarebbe stato, da parte degli ambientalisti «un inquinamento spirituale che è peggiore dell’inquinamento ambientale». Dichiarazione spontanea? Ma certo! Chi può pensare che la donazione di 365.000 € da patron Riva alla curia locale c’entri qualcosa?
La linea della “banda dei 3” è in buona sostanza quella di un totale appiattimento sulle direttive dell’Ilva, attraverso il randello retorico del “progresso industriale” contrapposto all'”oscurantismo della sinistra non-riformista”. In nome di questa linea i tre hanno scritto pagine di memorabile ilarità sulla “coscienza di classe” degli operai che sfilavano in corteo comandati dal padrone e forniti — come i reportage televisivi hanno testimoniato — di fischietto, berretto e striscione (il “kit del buon manifestante”) nella primavera del 2012 [7]. Ma anche, formulando pesanti intimidazioni (nascoste tra le pieghe del linguaggio) contro l’intellettualità jonica che con sempre più forza ha, negli ultimi anni, alzato la voce contro la dittatura dell’Ilva e la catastrofe ambientale e sanitaria che imprigiona Taranto [8].
Le giornate di fine luglio e agosto hanno, se possibile, reso ancora più chiaro il quadro. Con una serie di editoriali sul “Corriere”, Caldarola ha mostrato ad amici e nemici qual è la posta in palio, “dettando la linea” a governo e regione, e fors’anche alle forze dell’ordine [9]:

«In vari editoriali sul “Corriere del Mezzogiorno”, prendendo spunto da un documento di alcuni centri sociali e di diverse realtà di movimento del centro-sud, ha messo in guardia sul pericolo che, attorno alla vicenda dell’Ilva di Taranto, si creino sacche di resistenza simili a quelle consolidate in Val Susa contro la Tav. Per Caldarola, “Taranto ha bisogno di un altro miracolo… Un Angelo vendicatore, nelle vesti di un GIP irriducibile ha messo tutto in discussione… La fabbrica sembra ancora una volta di fronte al baratro, mentre festeggiano gli ambientalisti e quello strano miscuglio di estremismo e fancazzismo che proclama la fine del lavoro e l’avvento del salario per tutti e che celebra su un’Apecar la morte dell’acciaieria… Ma le avvisaglie del miracolo ci sono tutte… I ministri si sono precipitati a Taranto, il governo ha spinto l’azienda a sganciare altri soldi, Vendola può essere fiero del lavoro che ha fatto… l’azienda si è presentata con un volto nuovo”».

[Spoiler: inizia qui una piccola storia ignobile. I lettori poco interessati alle miserie locali possono soprassedere, o leggerla più tardi]

Pagati o meno dall’Ilva o dal “Corriere del mezzogiorno”, nessuno può stupirsi di questa solidale confraternita. Più difficile era prevedere che la triade di pugilatori di professione si sarebbe trasformato in una “banda dei 4” con l’acqusizione, al mercato degli ascari, del fiore all’occhiello del giornalismo e dell’intellettualità jonica, Alessandro Leogrande. Che, dopo essere stato capace di magnificare la “spontanea manifestazione” degli operai Ilva sotto la prefettura del 27 luglio — senza accorgersi, forse l’unico tra i “presenti” (?), delle bottigliette d’acqua fornite dai camioncini aziendali sull’Appia e lasciate a mo’ di tappeto su via Anfiteatro; dell’occupazione del ponte di pietra concordata da un dirigente sindacale con le forze dell’ordine prima ancora dell’arrivo degli (sparuti) operai; dei capireparto che indirizzavano e orchestravano le grida e gli applausi sotto la prefettura; delle forze dell’ordine in assetto “balneare”, senza tolfa, senza scudi, senza caschi, senza lancialacrimogeni, mentre le veline giornalistiche parlavano di “assetto antisommossa” e moltiplicavano come pani e pesci il numero dei manifestanti prima ancora che uscissero dalla fabbrica; leograndinfamia.jpg delle pile di pizze acquistate dai sorridenti capetti nelle pizzerie adiacenti al ponte girevole durante la “spontanea” occupazione del secondo ponte —; dopo aver accusato Asor Rosa di non sapere nulla della classe operaia per essere stato, 50 anni fa, operaista e amico di Tronti [10]; si esibiva, all’indomani della “manifestazione del treruote”, in un articolo del quale non si saprebbe dire se sia peggiore lo stile o il contenuto [lo si può leggere per intero cliccando sull’immagine]:

«Un’azione squadrista» attuata da una «teppa ingovernabile e al tempo stesso organizzata […]. Chi rappresentano, al di là delle loro urla? Boh. […] Come sempre, la teppa vede nel sindacato il nemico numero uno da abbattere; e agisce di conseguenza, con la boria di chi sa solo sfasciare. Nell’azione si sono mescolati gruppuscoli ultras, un po’ di sottoproletariato marginale [sic!: se non sono migranti, i subordinati non fanno audience?], lavoratori precari, qualche studente, giovani di un posto occupato di recente in periferia [corsivo mio]. Cosa c’è nella loro testa? […] Il loro vocabolario politico, sempre che di politica si possa parlare, è un misto di idee masticate male e area [sic] consumata, detriti del passato e rabbia implosa nel presente».

All’indomani degli scontri del 15 ottobre 2011, Leogrande diede del “fascista” a quella parte del corteo che si era scontrata con la polizia, affermando di non riconoscerla nel proprio album di famiglia [11]. A quanto pare, anche questi sottoproletari marginali, studenti, precari, occupanti di un centro sociale sono fuori dall’album di famiglia di Leogrande. Che ha sempre due cose da fare: rivendicare l’eredita di un qualche riformismo passato di cui nessuno si ricorderebbe, se non ci fosse lui, e distribuire patenti di fascismo e sfascismo.

Il “posto occupato di recente in periferia” è un centro sociale, e si chiama ArcheoTower. Le loro malmasticate idee, che il fine letterato non reputa degne di accesso al discorso politico, sono espresse in un appello pubblicato all’inizio dell’occupazione, nel quale si legge:

«Siamo ragazzi e ragazze, donne e uomini, precari, studenti, attivisti di movimenti ed associazioni. Siamo la generazione che per la prima volta nella storia di questo paese starà peggio di quella che l’ha preceduta. Abitiamo a Taranto, semplicemente e maledettamente la città più inquinata d’Europa. Un luogo nel quale anche i bambini inalano l’equivalente di centinaia di sigarette l’anno, e tutti perennemente sono condannati a morte. […] Nella sensazione di un disagio crescente in cui si trova la nostra generazione, esclusa dai luoghi della decisione istituzionale, e irrimediabilmente distante e disillusa dai meccanismi della rappresentanza politica, ci mettiamo in moto tramite una gestualità, la restituzione alla città di uno spazio pubblico abbandonato, che per noi significa dare inizio ad una nuova forma di vita, produttiva di intelligenze, di solidarietà, di saperi condivisi, di nuovi e diversi flussi estetici ed espressivi. […] Rivolgiamo un appello alla città, al mondo della musica, dell’arte, della cultura: sostenete l’operazione in atto di restituzione di uno spazio pubblico, e creiamo tutti insieme un cantiere perennemente aperto di riflessione intorno ai nostri desideri e bisogni, provando a mettere in pratica un modello partecipato di laboratorio politico, culturale ed artistico, che sappia avere l’ambizione di riscrivere la storia della nostra vita e di questa città.
Vogliamo passare dalla resistenza all’alternativa e individuare come e se i movimenti, anche nella nostra città, possano conquistare autonomia e liberarsi dalle relazioni di potere della modernità».

L’appello può essere letto nella sua interezza qui. In calce c’è l’elenco dei primi firmatari, aperto dalla filosofa Michela Marzano. Il sottoscritto è la terza firma, seguito da un elenco di operatori della cultura e dell’informazione.
Leggetelo, questo appello. E guardate chi ha firmato subito dopo Michela Marzano: Alessandro Leogrande, giornalista professionista, scrittore, vice direttore della rivista lo Straniero”.
È proprio vero che ogni rivoluzione ha il suo Iscariota. Come diciamo noi tarentini: ha lassáte Criste pe’ scé alle cozze

[fine della piccola storia ignobile]

Reddito o salario?

Da una quindicina di anni si è affacciato, all’interno dell’ordine del discorso politico, un’ipotesi dai più considerata “di scuola”, “teorica”: quella del reddito per tutti (o reddito di esistenza, salario sociale, basic income, reddito di cittadinanza — ma di nuovo: non è questo il luogo per dispute nominalistiche). La crisi del welfare state, delle politiche riformiste di moderata distribuzione del reddito, la privatizzazione di settori sempre più ampi di Stato sociale hanno reso sempre più difficile la saldatura tra società del lavoro e salario fondato sulla ricchezza prodotta, appunto, dal lavoro: un paradigma lavorista che presuppone la centralità del lavoro produttivo come fondamento sociale.
Per contro, la rivendicazione di un reddito per tutti si fonda sulla constatazione che (data per certa la crisi del modello lavorista fondato sul welfare), l’intera vita, in tutte le sue forme di esistenza, sia “messa al lavoro” nel capitalismo avanzato; che, in altri termini, ogni attività svolta, e non solo quella più propriamente detta “lavorativa”, sia produttrice di ricchezza: e che quindi ci siano quote importanti di ricchezza sociale che vengono non ridistribuite, ma allocate (espropriate, rapinate, se mi si passa il lessico marxiano) nelle mani del capitale. Ad essere distribuite sono solo le briciole di una crescente quota di ricchezza.
Questa proposta è rimasta a lungo minoritaria, scontando lo stato di minorità in cui sono state relegate le idee e le pratiche degli anni Sessanta e Settanta, una volta sconfitti i movimenti: in una battuta, quel “rifiuto del lavoro” che caratterizzò (con buona pace dei pugilatori di professione, jonici e non) i momenti più alti delle lotte di un quindicennio. Determinante è stata l’egemonia lavorista imposta, a partire dagli anni della solidarietà nazionale, dal PCI e dai sindacati, CGIL in testa.
Il 2 agosto, l’irruzione (a passo d’uomo, senza sfondamenti né mosse dell’ariete) del treruote — questo veicolo povero e spernacchiante, emblema del lavoro precario — ha sovvertito l’ordine del discorso politico, sparigliando in pochi minuti (con un effetto-valanga che continua ancora) le carte di un accordo a tavolino tra Roma (lo Stato), Bari (la Regione), Genova (l’Ilva), garanti i segretari sindacali nazionali, e svelando i bluff affabulatori di Nichi Vendola, così bravo a enunciare tavole dei diritti sempre future, e mai presenti [12].
Colpisce la capacità immediata di rovesciare la condizione di precarietà — la cui prima conseguenza è l’espressione di un cinismo individualistico che trova facile terreno in un’antropologia jonica indotta dai rapporti socio-economici — nella dimensione del comune, attraverso la centralità data non al posto di lavoro — che discrimina chi lo ha, chi non lo ha e chi rischia di perderlo — ma alla vita materiale, al bios: al diritto di vivere una vita degna, senza morire di tumore o leucemia, e senza partorire bambini malati di cancro dalla nascita. Chiedere la chiusura immediata dell’Ilva in nome del diritto alla salute determina un orizzonte di grande precarietà e incertezza dal punto di vista delle prospettive a breve medio termine: eppure non sono le passioni tristi, la paura, l’ansia, la speranza passiva, l’angoscia, il cinismo, il menefreghismo a dominare le tonalità emotive di questo movimento. La centralità di una vita degna di essere vissuta, prima ancora del posto di lavoro come mezzo, è il perno di una positività comune, moltitudinaria, che non può lasciare indifferenti, e che va indagata a fondo.

Cosa significa la parola “reddito” accanto a “diritti, lavoro e salute”? Cosa significa “paghi la crisi chi l’ha creata”?
Dal punto di vista di una prospettiva lavorista, del “lavoro come bene comune” portata avanti da Landini e dalla FIOM, significa assistenzialismo. Per brutale che sia, Landini è conseguente nel dire, dalle proprie posizioni, che «c’è anche tra i lavoratori una parte, non maggioritaria, che pensa che sia meglio chiudere la fabbrica e vivere di sussidi dello Stato». Come è conseguente nel deprezzare la composizione del corteo del treruote a partire dall’assenza di una chiara centralità operaia: «c’erano esponenti dei Cobas, dei centri sociali, anche ultras del Taranto Calcio. C’erano, naturalmente, anche lavoratori dell’ Ilva che non condividono le nostre posizioni. Ma mi sento di dire che si trattasse comunque di una minoranza» [ qui]. Il problema, semmai, è di quelle componenti organizzate dei movimenti che fanno proprio il discorso sul reddito per tutti, ma che non hanno avuto problemi a sottoscrivere con la FIOM alleanze e fronti unitari (che in Puglia significavano Uniti per Vendola…), bypassando il rifiuto granitico della FIOM ad aprire un discorso sul reddito: salvo poi, sempre all’interno della sovversione dell’ordine del discorso politico accaduta il 2 agosto, cascare dal pero e togliere a Landini quell’amicizia sino a pochi giorni prima concessa con convinzione, dopo aver scoperto che «non abita a Tamburi e non fa il doppio turno alle linee» [13].

tamburi_cimitero.jpgTorniamo a Taranto/Siderlandia, la città dell’acciaio. L’impoverimento del territorio è stata la condizione di esistenza e sviluppo del modello siderurgico. L’Ilva ha vissuto (quando era Italsider) e vive succhiando la ricchezza sociale dal mare, dal porto, dal litorale, dalle campagne. Ma anche: l’Ilva vive perché inquina. La diossina, il benzo(a)pirene, i policarburi i gas e le polveri PM10, assieme alla criminale violazione di ogni norma di sicurezza interna ed esterna alla fabbrica, sono la condizione necessaria perché l’Ilva generi profitto: in assenza di queste condizioni, la fabbrica sarebbe un’azienda che produce in perdita. In altri termini, l’operaio Ilva svolge un doppio lavoro: mentre produce acciaio, ricevendo in cambio del proprio lavoro (ma non del proprio pluslavoro…) un salario, produce ulteriore plusvalore attraverso quel pluslavoro che consiste nel produrre e diffondere veleni, polveri e gas sulla città.
L’ipotesi, concretissima, di un reddito per tutti in luogo del salario derivante dal lavoro metalmeccanico, significa in primo luogo cominciare a restituire quella ricchezza che gli operai tarantini hanno prodotto senza ricevere alcunché in cambio. Significa dare l’avvio ad una gigantesca opera di bonifica del sito industriale, delle terre e del mare, che impegnerà per 30-40 anni due generazioni: cioè ridistribuire quella ricchezza comune che viene creata con la restituzione alla dimensione della vita degna di essere vissuta l’ambiente (sarà necessario ricordare che l’economia nasce come scienza con la scoperta che la ricchezza non è generata dalla terra, ma dal lavoro che la terra fa fruttare?). Con buona pace di Altavilla, secondo il quale «non c’è alcuna ricchezza da distribuire, né in prospettiva lavoro per nessuno, al di fuori di una solida competitività», è proprio nella cooperazione sociale e nella dimensione comune tra essere umano e ambiente che si origina la ricchezza [14]:

«Tutti noi dobbiamo il nostro benessere sociale ed economico agli sforzi delle innumerevoli generazioni dei nostri antenati. È palesemente disonesto predicare che il reddito rifletta una distribuzione meritocratica, che coloro che diventano ricchi lo fanno grazie al loro merito e impegno. In una certa misura, qualcuno fa meglio di altri col duro lavoro e la vivacità d’ingegno. Ma l’eredità collettiva è qualcosa che nessuno di noi, individualmente, ha donato alla società. È la ricchezza che essa rappresenta a dover essere condivisa».

Ma con quali soldi finanziare la riconversione industriale e ambientale?
Sfatiamo, intanto, una leggenda: che una politica di lotta al precariato e alla povertà sociale sia una forma di assistenzialismo che produce carrozzoni statali in perdita. La povertà e la precarietà hanno costi elevati, perché al costo sociale si assommano quei costi causati dal disagio fisico e psichico, dal degradare della salute, dalla criminalità indotta dal bisogno, dal deperimento delle cose e dei luoghi, dalla mancata produzione di valore: e tutto questo ha dei costi. A titolo di esempio: la ricerca The Economics of Poverty: How Investments to Eliminate Poverty Benefit All Americans di Jerrold Oppenheim e Theo MacGregor calcola che il peso sociale dei 30 milioni di cittadini statunitensi che vivono al di sotto della soglia di povertà costi ad ogni contribuente, limitatamente al rapporto povertà-crimine, 4.118 $ all’anno, cui vanno aggiunti 341 $ di assicurazione sanitaria derivante dai costi delle cure mediche non pagate da chi non può permettersele; che il costo complessivo della povertà è di 1.489 milioni di $, a fronte dei 397 milioni di $ necessari per sradicare la povertà (rapporto costi-benefici 3.75); che lo sradicamento della povertà comporterebbe un aumento medio del 30.1% del reddito complessivo per i contribuenti, pari a 18.000 $ annui. Una politica di ridistribuzione delle risorse basate sul reddito per tutti potrebbe produrre quegli stessi effetti che le teorie keynesiane attribuivano alle politiche di aumento salariale.

Taranto, nel momento di massima crisi, rappresenta un potenziale laboratorio sociale nel quale può essere sperimentata una politica di reddito per tutti come base per la riconversione dell’intero tessuto produttivo e ambientale. Ma come finanziare questa riconversione?
È chiaro che questa riconversione avrà costi ben più elevati di quelli compatibili con gli stanziamenti previsti da parte del governo e dall’Ilva. Come è altrettanto chiaro che quegli stanziamenti sono del tutto insufficienti a fronte dell’impegno richiesto.
In realtà non c’è teorizzazione del reddito sociale che non abbia collegato la distribuzione di un reddito per tutti con una radicale revisione dei meccanismi di fiscalità, attraverso provvedimenti che colpiscano la rendita (nel momento in cui si invera il divenire-rendita del profitto in regime di quasi-defiscalizzazione: basta pensare al differenziale tra l’imposizione fiscale media per il cittadino-lavoratore e quella sulla rendita finanziaria). Nel contesto dell’attuale crisi dell’economia globale, il dato è l’enorme profitto di poche Società d’Intermediazione Mobiliare che controllano 2/3 dei flussi finanziari in circolazione, e il 90% dei titoli derivati. Notevole è che i titoli derivati insistono in modo particolare sul debito degli enti locali, fattore che viene oggi nascosto dal clamore sugli sprechi e le appropriazioni individuali nelle amministrazioni locali (che, beninteso, esistono, come esistono le auto blu e i portaborse: ma sono le briciole che vengono fatte cadere sul tappeto). Taranto, per inciso, ha il dubbio primato di essere il primo comune di media entità ad essere stato dichiarato, nel 2006, fallito e commissariato. Una politica di reddito sociale potrebbe dunque essere finanziata attraverso un atto di forza politico — l’affermazione del diritto all’insolvenza – da parte dei cosiddetti PIIGS (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna), che avrebbero tutto l’interesse a rinegoziare il proprio debito puntando sul rischio di default di un blocco di paesi che sfiora il 40% del PIL della Comunità Europea, che comporterebbe scenari imprevedibili persino per le SIM.

Alcune buone ragioni per chiudere l’Ilva una volta per tutte

«Eppure quasi tutte le parti sociali sono contrarie alla sua [del reddito di esistenza] introduzione: i sindacati perché non hanno ancora compreso a fondo le trasformazioni del lavoro, temono il venir meno della propria base di rappresentanza e, soprattutto, sono legati ad una concezione del lavoro salariale fondamentalmente etica; le associazioni imprenditoriali […] ritengono l’introduzione del reddito di esistenza come potenzialmente pericolosa per il mantenimento del comando sul lavoro. E in effetti, dal loro punto di vista, non hanno tutti i torti. L’introduzione del reddito di esistenza, infatti, può essere considerata un potenziale contropotere che mina l’attuale sistema di subordinazione della moltitudine precaria».

Con queste parole [15], Andrea Fumagalli coglie il vero problema rappresentato dall’introduzione del reddito per tutti: la messa in crisi dell’uso della precarizzazione, del depauperamento delle risorse, come (i) forma di governance fondata sull’uso politico delle passioni tristi indotte dalla precarietà dell’esistenza, (ii) neutralizzazione e sospensione delle garanzie giuridiche e costituzionali attraverso agenzie sottratte al controllo pubblico e fondate sul “principio di efficienza” (decostituzionalizzazione) (iii) ulteriore modalità di estrazione e rapina del valore sociale, e (iv) innesto di una dinamica di privatizzazione del “pubblico”.
Questo vuol dire che l’introduzione di un reddito per tutti, pur se in una situazione circoscritta ed emergenziale quale può essere la crisi del sistema Ilva-Taranto, determinerebbe dinamiche politiche e sociali di cui è bene essere non solo consapevoli, ma anche istigatori.
Rimane un’alternativa: usare la leva del reddito per tutti per risanare l’Ilva, per poi riaprire una “fabbrica pulita” (eventualmente sotto forma di esproprio statale: vedi la posizione di #occupyILVA presentata su carmilla da Mauro Vanetti qui), o chiudere una volta per tutte l’Ilva?

La mia posizione, già espressa altrove, è che l’Ilva dev’essere chiusa. Provo a sintetizzare alcuni argomenti preliminari.
In primo luogo (a), l’Ilva non inquina e devasta solo l’area tarantina. L’azienda che fornisce all’Ilva il materiale ferroso è la famigerata Vale S.A., alla quale è stato assegnato il Public Eye Award 2012 come peggiore multinazionale del mondo [16]. Mettere in discussione l’Ilva significa quindi mettere in discussione anche le attività criminali di questa multinazionale.
Attività che (b) sono peraltro il frutto di una tecnologia arretrata: negli USA e nei paesi scandinavi, infatti, 2/3 dell’acciaio vengono prodotti non a partire da minerali ferrosi, ma dalla rottamazione dei metalli usati.
Inoltre (c), non è affatto vero che l’Ilva produce acciaio di ottima qualità: quello di qualità l’Italia lo importa, mentre parte dell’acciaio Ilva viene esportato. Il destino dell’Ilva, quindi, è appeso al (provvisorio) bisogno di acciaio da parte di paesi emergenti, che presto o tardi si doteranno di impianti nuovi e moderni.
Ancora (d): gli impianti dell’Ilva sono in buona parte in scadenza. Il motivo per cui la gestione Riva ha “spremuto” gli impianti senza manutenerli è perché questi impianti – a partire dalle cokerie – sono destinati a cessare in tempi brevi. Non si tratta quindi di “ripulire”, ma di ricostruire la quasi totalità dell’impianto.
Anche perché (e) nel corso di questi anni, come è emerso dalle dichiarazioni degli operai, molti pezzi usurati, smontati per essere sostituiti, sono stati in realtà riverniciati e riposizionati. La quantità di impianto da sostituire ex novo è quindi ben maggiore di quanto “ufficialmente” non risulta. O di quanto “ufficialmente” si vorrà far risultare.

Se, dunque, l’Ilva dev’essere interamente ricostruita (posto che sia interesse di un paese come l’Italia essere produttore di acciaio in assenza di materia prima che viene importata, invece di accettare le nuove rotte imposte dai flussi della globalizzazione di cui parlerò tra breve), perché non costruire una fabbrica, seppure “pulita”, in un altro sito? Taranto, lo ricordo, non ha solo la servitù dell’Ilva: ci sono anche la Cementir, l’Eni e la marina militare. E, per non farci mancare niente, siamo andati a un tanto così dall’avere pure il rigassificatore. È, insomma, un luogo nel quale persino un minimo impatto ambientale quale sarebbe una fabbrica “pulita” è problematico.
Come vedremo in conclusione, un altro argomento è che il ruolo dell’Ilva può essere svolto da nuovi progetti di sviluppo: la riqualificazione del porto e la creazione di una “smart area“.

A questi argomenti, che possono senz’altro essere condivisi anche da chi ha posizioni riformiste moderate, aggiungo quello che per me è prevalente, e che ho già in parte anticipato: l’introduzione di un reddito per tutti come motore della riconversione ambientale e sociale, sulla spinta di un’insorgenza dal basso che pretende voce in capitolo, determinerebbe un forte avanzamento su un piano che potremmo definire di “costituzione del comune”, con un mutuo e virtuoso avanzamento nel campo dei diritti comuni — quei diritti di rilevanza costituzionale che non possono essere subordinati al lavoro, come affermato dall’ordinanza del GIP Todisco: vita, salute, futuro — e delle pratiche del comune che pongono in essere quei “buoni ordini” sorretti dalla virtù, cioè da quel “bene comune” presente nelle repubbliche che, secondo Machiavelli, «fa grandi le città». E che, sempre secondo Machiavelli, nasce nel principio costituente stesso: nei tumulti con i quali la moltitudine rovescia i governi corrotti e tirannici, o sostiene le repubbliche. E viene mantenuto proprio dai buoni ordini, che permettono al cittadino di partecipare e vivere attivamente al comune.
Reintrodurre la fabbrica novecentesca significherebbe riportare indietro l’orologio e ritornare a un modello di sviluppo nel quale la grande fabbrica sovradetermina il territorio e lo ri-asservisce ai propri ritmi.

salute_acciaio.jpgRestituire l’ambiente (terra, mare, litorale) alle attività di pesca, mitilicultura, agricoltura e pastorizia, con lo sviluppo del caseario, del vinicolo e del turismo, renderebbe senz’altro migliore e più degna la vita a Taranto. Ma, si obietta, la ricchezza prodotta non sarebbe equivalente a quella prodotta dall’Ilva: un’obiezione che ha senso solo ipotizzando che un nuovo siderurgico comporterebbe la redistribuzione dell’intera ricchezza prodotta, diversamente da quanto accaduto finora. Ma, se non si vuole adottare un’ipotesi di decrescita alla Latouche, il problema rimane. Con le parole di Aldo Bonomi, al sud «è più urgente che altrove porre il tema di uno sviluppo compatibile tra hard economy e soft economy. Avendo chiaro che l’economia dei servizi o il turismo non produrranno mai i grandi numeri del fordismo» [17].
Ci sono a Taranto due progetti che, come le emblematiche statue di De Chirico, sono ai lati della piazza pubblica, quasi in attesa che cessi il clamore del tumulto: la riqualificazione del porto, e la trasformazione di Taranto in “smart area“. In realtà ce n’è un terzo, proposto da una parte del movimento ambientalista jonico: un modello di sviluppo basato sulla “green economy“, sul modello della città di Friburgo. Ma può essere considerato una variante del secondo (nel senso che la critica al secondo può valere anche per il terzo, pur non essendo la stessa cosa).
Ciò che questi tre progetti hanno in comune è che si situano all’interno dei flussi globali, ne seguono l’andamento e cercano di assecondarlo.

Taranto, come detta la geografia, è esposta in linea più o meno diretta verso il canale di Suez e la Grecia. Il porto di Taranto, riorganizzato e collegato con la costruzione dei pochi chilometri mancanti all’aeroporto di Grottaglie (riaperto e rimesso a norma), consentirebbe per un verso l’avvio di rotte turistiche verso la Grecia (e il sud del Mediterraneo); ma soprattutto, l’avvio di un’importante attività di importazione delle merci asiatiche (Cina e India, soprattutto), che oggi, non trovando porti attrezzati e collegati ad aeroporti, circumnavigano l’Africa e vanno a scaricare a Rotterdam, sprecando una settimana di navigazione (con i relativi costi) rispetto a una rotta che attraversi il mar Rosso e lo stretto di Suez. Il progetto è stato ripresentato di recente da un presunto analista cinese che scrive di cose italiane sul blog destrorso “il Sussidiario”: ma in realtà era stato già proposto da Vendola al tempo della sua prima elezione a governatore della Puglia, quando tra i suoi collaboratori c’era il teorico del “pensiero meridiano” Franco Cassano — e del quale progetto, come accade con i buoni propositi vendoliani, si sono ben presto perse le tracce. L’aspetto notevole di questa ipotesi è che potrebbe essere esteso anche ad altre realtà portuali del meridione (una tra tutte: Cagliari), creando un raccordo tra diversi porti. Raccordo che dovrebbe essere esteso anche ai grandi porti del nord (Genova-Savona e Trieste), per un’equa distribuzione delle merci importate. Come conseguenze di questa riconversione portuale, il flusso di merci che attraverso i porti scorrerebbe dall’Italia all’Europa sarebbe tale da rendere irrilevante l’abbandono di faraonici progetto quali la TAV e il ponte sullo Stretto. Creerebbe le premesse per l’emersione di dell’import di contrabbando cinese a Napoli come e Taranto. E segnerebbe l’accettazione di un destino che è nell’ordine delle cose: la produzione si sposterà sempre più verso est, con Cina e India che riconquistano giorno dopo giorno quella primazia che, nel corso della storia, hanno perso solo per due-tre secoli. L’Europa non può competere, al netto delle condizioni di lavoro in oriente, con le grandi quantità che il sistema industriale indo-cinese è in grado di produrre: deve riorientare il proprio sistema economico dal versante della produzione a quello della circolazione.
Ma questo modello di sviluppo, basato sulla ricezione dei flussi commerciali orientali, comporterebbe lo sconvolgimento di equilibri consolidati. Per poterlo pensare come realizzabile è necessario pensare alla creazione di un modello di gestione del porto che potrebbe unire la parte migliore dell’esperienza della Compagnia dei lavoratori delle merci del porto di Genova con la dimenticata memoria delle cooperative dei mitilicultori d’inizio secolo: recuperando, attraverso la pratica della costituzione del comune, la memoria perduta di antiche libertà, in primis di quell’autonomia che significa esercizio del potere della civitas come manifestazione della potenza dei cittadini, ossia del comune. E quindi, prolungare nel futuro l’esperienza costituente di ribellione alle ideologie del “destino manifesto”, ossia alle “vocazioni” (industriali e militaresche) che hanno finora spadroneggiato su Taranto.

Non diverso, a ben pensare, è il problema che pone la creazione di una smart area, patrocinato dal ministro Clini e dal vicepresidente di Confindustria incaricato per il mezzogiorno Alessandro Laterza: la frontiera più avanzata del capitalismo globale che si muove lungo linee leggere, che opera per connessioni e raccordi. Così Aldo Bonomi espone quest’ipotesi:

«Se vogliamo ragione di “Taranto smart area” questo significa ricollocare un ciclo compatibile dell’acciaio nella metamorfosi della green economy. Molto dipenderà dalla maturità sociale ed economica della coscienza di luogo dell’area vasta […]. Dalla sua capacità, partendo da Martina Franca, da Grottaglie, di circondare di progetti possibili la città fabbrica e le sue ciminiere. Che si vedono dalle colline ioniche dove undici comuni che fanno da corona a Taranto, partendo da Crispiano, passando per Grottaglie arrivando al mare a Pulsano, nell’ambito di un Gal, Gruppo di Azione Locale con finanziamenti europei, lavorano alla costruzione di una Green Road. Collegando cento masserie, molte già attive altre da immettere nel ciclo di un agriturismo di eccellenza con ristorazione a chilometro zero e immerse in un tessuto agricolo robusto di produzione di uva da tavola, olio e vino di qualità. Alla masseria del Duca c’è pure la centrale a biomasse alimentata dai residui degli ulivi e della vite. Una Green Road che incorpora anche il microdistretto delle ceramiche di Grottaglie e si mette in mezzo tra la vivace Martina Franca e Taranto. Nell’area vasta si discute di energie alternative, di turismo e agricoltura di qualità portando sino alle soglie di Taranto un modello di sviluppo che in Puglia ha contaminato il Salento e non solo. Negli undici comuni ci sono 8.159 aziende agricole che, tra conduttori, familiari e mano d’opera, fanno più di 20mila addetti. Ci sono 1.126 imprese artigiane di cui 409 concentrate a Grottaglie. Numeri che cito non in alternativa ai 12mila dell’Ilva e ai 20mila del suo indotto, ma per ragionare assieme del progetto di Taranto smart area».

Le magnifiche sorti e progressive del capitalismo compatibile, verrebbe da dire: mancano solo le casette di marzapane. Se non che, proprio nei giorni in cui Bonomi interveniva sul futuro di Taranto, i giornali internazionali riportavano la notizia dell’avvio, in Honduras, della costruzione di nove città «città senza Stato, senza politici, con poche tasse e tutte locali. Con la proprie leggi, giustizia, polizia, economia e rapporti con l’estero. Non autonoma o indipendente, ma di più: una città privata», gestita da «una specie di consiglio di amministrazione di nove membri, composto di “rispettabili figure internazionali senza interessi finanziari” e da un governatore da loro nominato» [18]. Le charter city per investitori stranieri sono il punto di arrivo del capitalismo del terzo millennio.

L’obiezione alle smart city, come alle green city, viene spontanea: la pianificazione di città ad alto grado di efficienza — sugli standard ambientali, produttivi, ecosostenibili, ecc. — in un contesto di crisi dell’economia globale in che modo non potrebbe sfociare nell’offerta sul mercato della privatizzazione? Le stesse banche, finanziarie, i fondi d’investimento che si apprestano ad allungare le mani sulle isole e i monumenti della Grecia, perché non dovrebbero farlo anche altrove, una volta usata la Grecia come primo esperimento e verificate le reazioni internazionali?
Il problema, allora, non è se smart city, green city o riqualificazione del porto siano in grado di mantenere le aspettative: non è un problema tecnico. La questione è se lo sviluppo in una di queste direzioni procede dal comune, radicato in un effettivo ed autonomo esercizio del potere che già oggi si esprime nel diritto dei tarentini a decidere del futuro di Taranto, o se questi progetti sono calati dall’alto in base alle compatibilità e alle esigenze del capitale finanziario. Se lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e del capitale sull’uomo deve essere abolito, o riformato e ricostituito.
Oggi come non mai, non c’è scelta tra alternativa radicale o barbarie.

Note al testo

[1] Alberto Savinio, La partenza dell’Argonauta (1918), in Hermaphrodito, pp. 141-195, Einaudi, Torino 1981.
[2] Avevo cercato di esprimerlo in questo racconto.
[3] Franco Piperno, Elogio dello spirito pubblico meridionale. Genius loci e individuo sociale, manifestolibri, Roma 1997; Vento meridiano. A mo’ di introduzione, in Vento del meriggio. Insorgenze urbane e postmodernità nel Mezzogiorno, a cura di F. Piperno, DeriveApprodi, Roma 2008, pp. 5-22.
[4] Michael Hardt, Antonio Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano 2010, p. 145.
[5] Alberto Asor Rosa, Operai e padroni, la strana alleanza, “il manifesto”, 28.07; ad Asor Rosa ha risposto Rossana Rossanda: «è perfettamente ipocrita chiedere loro di produrre pulito, produrre ecologico. Essi non hanno scelta, e se sono messi davanti a quella di perdere il lavoro o rischiare di avvelenarsi, rischieranno prima di avvelenarsi, salvo battersi poi per rischiare di meno. Non possono fare altrimenti. […] Per l’Ilva, come qualche anno fa per la val di Chiana, non c’è dilemma fra lavoro e ambiente, c’è un sistema di proprietà, accettato dalle ex sinistre, che distrugge l’uno o l’altro, o tutti e due», ILVA: i corni del dilemma, “manifesto”, 31.07; e di nuovo Asor Rosa: «Ora, un diverso modello di sviluppo non è affare dei capitalisti, i quali vedono e credono possibile solo quello che c’è: è affare dei governi, ed è questo ciò di cui noi parliamo, quando ipotizziamo che possa esserci un ragionevole tasso di sviluppo economico e produttivo senza provocare la distruzione dell’ambiente, del territorio e della salute, per noi e soprattutto per le prossime generazioni. Hic Rhodus, hic salta. La mia impressione è che il caso Ilva, con tutto il suo carico drammatico di conflitti, paure e tensioni, rappresenti tutto sommato un punto di svolta rispetto alle questioni di cui stiamo parlando, a patto, naturalmente, che nessuno pensi di fare un passo indietro dalla giusta e clamorosa denuncia che ne è stata fatta», Neo-operaismo e neo-ambientalismo, “il manifesto”, 5.08.
[6] Walter Tobagi, Il «metalmezzadro» protagonista dell’economia sommersa al Sud, “Corriere della sera”, 15.10.1979, ora in Testimone scomodo (a c. Aldo Forbice), Franco Angeli, 1989, pp. 117-120; Walter Tobagi giornalista, pp. 130-132 [scaricabile qui].
[7] Esemplare La sinistra reazionaria ed oscurantista: il caso Taranto, in cui Tommaso Francavilla commenta gli editoriali di Pirro e Caldarola [ qui].
[8] Federico Pirro, ILVA moribonda? Quanti stereotipi, “Quotidiano di Puglia”, 9.11.2010: «Perché artisti, cineasti e romanzieri — che sinora hanno indugiato in visioni approssimative, parziali e del tutto riduttive dell’industria siderurgica, della comunità umana che in essa vive e lavora ogni giorno e della città che la ospita — non compiono invece uno sforzo vero, autentico, appassionato per raffigurarne le condizioni per quelle che realmente sono? Non è un’immagine ormai stereotipata quella che si continua ad offrire del rapporto conflittuale fra Siderurgico e la città di Taranto? Ma si ascoltano realmente tutti i cittadini, o solo taluni rappresentanti dell’ambientalismo, fra i quali pure esistono profonde differenze? O è troppo difficile — per chiunque non abbia una raffinata caratura culturale ed artistica — misurarsi con la realtà vera, autentica, quotidiana del Siderurgico che è molto più complessa di quanto non si creda, sentendone parlare solo dall’esterno?».
[9] Dalla pagina fb di Cataldo Ranieri, portavoce del Comitato Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti, riportata qui.
[10] Alessandro Leogrande, Produrre acciaio, 27.07, e Gli operai di Asor Rosa, 29.07, entrambi sul “Corriere del mezzogiorno”.
[11] «Li ho definiti “fascisti”, e qui vorrei spiegare perché. Non l’ho fatto per preservare la purezza della sinistra, qualsiasi cosa questo termine voglia dire, dal loro comportamento. Ma perché ieri, in piazza, ho provato un profondo disagio: tra me e loro non c’era di mezzo nessun “album di famiglia”, come invece poteva esserci fino a qualche anno fa con settori della cosiddetta sinistra rivoluzionaria di cui potevo disapprovare in toto i metodi» [ qui]. Su quegli scontri e quella giornata la mia opinione è qui.
[12] «Se accorciamo i nostri pensieri e se la tavola dei valori è solenne sullo sfondo mentre nella misura ravvicinata della politica routinaria c’è un’immagine sfuocata e i valori valgono molto di meno perché valgono soltanto i valori di percentuali elettorali e i posti di ceto politico, allora noi non riusciremo neanche a vincere sul serio. Fatemelo dire così: noi le elezioni le abbiamo vinte tante volte, ma non è valso un fico secco, perché avevamo perso nei rapporti culturali e sociali, avevamo perso nelle viscere della società»: Nichi Vendola, Sherwood Festival, 2 luglio 2012, al minuto 8:40.
[13] Luca Casarini, Giammarco De Pieri, Disobbediamo ai ricatti, “il manifesto”, 3.08: «chi apostrofa il corteo per il “reddito, la salute, l’ambiente, l’occupazione” come “provocatori” ed “usurpatori della legittima manifestazione sindacale” oggi parla per sé e si chiude in un circolo vizioso – e, detto senza ironia, di certo non abita a Tamburi e non fa il doppio turno alle linee. Stupisce e ferisce vedere sindacati e padroni in unità di scopo» (peraltro, anche gli autori di questo commento non sono di Taranto e non fanno i doppi turni in fabbrica). Qui si apre un discorso che sarebbe eccessivo sviluppare, ma che dev’essere nominato — non foss’altro che per essere emerso, sia in negativo che in positivo, nella serata di informazione su Taranto svoltosi al Bartleby di Bologna il 3 ottobre scorso: sulla necessità di un’autocritica radicale da parte delle organizzazioni di movimento, che devono porsi al servizio dei movimenti, senza malmasticate nozioni di egemonia o di sovradeterminazione delle pratiche.
[14] Guy Standing, Il precariato: il reddito di base in una politica del paradiso, in Basic Income Network Italia, Reddito per tutti. Un’utopia concreta per l’era globale, manifestolibri, Roma 2009, pp. 80-81.
[15] Andrea Fumagalli, Per una nuova interpretazione dell’idea di basic income, in Reddito per tutti, cit., p. 135.
[16] Sul gruppo minerario brasiliano Vale S.A. si veda il documentario RAI Non Vale.
[17] Aldo Bonomi, Taranto deve riuscire a far convivere green road e acciaio, “il sole 24 ore”, 2.09.
[18] Città «privatizzate» in Honduras in appalto alle multinazionali USA, “Corriere della sera”, 8.09; ma anche: Honduras to build new city with its own laws and tax system to attract investors, “The Guardian”, 6.09; Who Wants to Buy Buy Honduras?, The New York Times Magazine, 13.05.