di Serge Quadruppani

Ha i tratti del volto segnati dal tempo — ma i suoi capelli, una palla di fuoco corvino che contribuiva ai grandi incendi degli anni Sessanta, sono ancora lì. Parla, la voce infiamma come quarant’anni prima, quando prendeva la parola in difesa dei fratelli di Soledad:
«… Costruire un movimento inclusivo, riconoscendo che l’unità del 99% dovrà essere un’unità complessa. I movimenti del passato facevano appello in primo luogo a delle comunità specifiche, lavoratori, studenti, comunità nera o latina, donne, comunità LGBT, popolazioni indigene…»

Carlo guarda intorno a lui i volti concentrati sulla voce che scende dalla pedana di Zuccotti Park, nel cuore di Oakland (Stati Uniti). Una mamma chicana con un piumino scarlatto che sottolinea ogni frase sogghignando uno yeah, quel gruppo di ridenti studenti neri, un vecchio militante barbuto e dei giovani con fazzoletto e uniforme black bloc (in realtà Carlo lo sa che questi ultimi sono studenti pacifisti: m alo sapranno anche gli sbirri, alla prossima carica?), un gigante in salopette con un casco col logo Port Autority, un vecchio combattente della guerra in Irak in uniforme… Ci sono tante e tali individualità che in ogni momento si confrontano e si affrontano su un milione di argomenti e che ricominceranno non appena il discorso sarà finito, in questa piazza ribollono migliaia di cervelli con i loro sogni variopinti, i loro progetti rifiniti a lungo, i loro balocchi e i loro hobby: e c’è, anche, qualcosa di più della somma di ciascuno di loro…
«Abbiamo chiesto l’abolizione delle prigioni come modalità principale di espiazione della pena. Ma abbiamo anche chiesto la rivitalizzazione di tute le nostre comunità. Abbiamo rivendicato l’istruzione, l’assistenza sanitaria, la casa, il lavoro, la speranza, la giustizia, la creatività, l’uguaglianza, la libertà. Noi passiamo dal particolare al generale. Noi siamo riuniti come il 99%…»

crosbynash.jpgCarlo incrocia lo sguardo di Isabella, la bella boliviana dagli occhi screziati che aveva incontrato un paio d’anni prima, a Roma (Italia). Nella grande manifestazione studentesca che aveva marciato verso i palazzi del potere, quel 14 dicembre 2010, era nel gruppo di testa. In seconda fila, per l’esattezza, perché faceva parte del “book bloc”, e quindi aveva uno scudo di polistirolo sul quale era scritto “Franz Kafka Il Processo”, e poco dopo si era accorto dei lunghi capelli serici e del dolce profilo della ragazza che portava “Valerio Evangelisti Noi saremo tutto”.
Oggi, Carlo non può evitare di sorridere tra sé e sé pensando a quella volontà di affermare le forze dello spirito contro quelle degli sbirri — cosa che non gli aveva impedito di proteggersi con un casco robusto. E lui stesso, a dispetto dei consigli degli auto-proclamati capetti, aveva qualche bullone in tasca, perché per lui la non-violenza non era un principio assoluto, ma solo una tattica che poteva abbandonare a seconda delle circostanze imposte dal nemico. La donna che stava per terminare il proprio discorso ne sapeva qualcosa.
La folla esplode in un’ovazione. Angela Davis scende dalla pedana, aiutata da un nero grande e muscoloso in abito completo e da un’esile bionda in berretto, occhiali e guanti neri. Carlo si volta verso Isabella.
– E adesso, le chiede, si va? Si blocca il porto?
Isabella sorride.
– Quanto sei impaziente! C’è ancora l’assemblea generale da fare. Sei troppo impulsivo. Non si cambia il mondo dall’oggi al domani, conclude mentre il suo sorriso s’allarga.
Ha ragione, pensa Carlo. Per l’ennesima volta, il suo spirito torna a quell’impulso che avrebbe potuto costargli la vita, poco più di dieci anni addietro, quando la camionetta dei carabinieri era avanzata tra la folla, in mezzo al gas, al fumo degli incendi, alle sirene urlanti. In quel gran bordello del luglio 2001 a Genova, in piazza Alimonda. Era stato durante il carosello dei veicoli della polizia scagliati sulla folla per disperderla, seguendo una tattica tanto imbecille quanto assassina messa a punto negli anni ’60 da un ministro dell’interno amante della repressione sanguinosa, quando la rabbia montava in Carlo e nei suoi compagni, perché le notizie che giravano sui cellulari non erano buone. Si parlava di pacifisti pestati a sangue, di un ufficiale della polizia che si era accanito a massacrare un ragazzino davanti alle telecamere della televisione, di granate gettate tra le famiglie che manifestavano. A quanto sembrava, con un neo-fascista al Quartiere generale e un capo della polizia nominato e sostenuto dalla sinistra, gli sbirri si sentivano onnipotenti e scoprivano la gioia di una repressione sudamericana.
Quando, dunque, la camionetta dei carabinieri aveva iniziato a far manovra sulla piazza, Carlo aveva raccolto l’estintore ai suoi piedi…
Sapeva bene di non poter causare un serio danno al veicolo blindato, e inoltre era troppo lontano, ma aveva bisogno di esprimere la propria rabbia. E sollevando la bombola, aveva incrociato lo sguardo d’un carabiniere all’interno della jeep. Il militare era molto giovane, più o meno della mia età aveva pensato Carlo, e aveva l’aria spaventata. Brandiva una pistola. «Porcoddio, mi spara addosso», aveva pensato Carlo.
Nel frastuono delle granate e dei lacrimogeni, delle urla e dello strepito del motore, non aveva sentito la detonazione, ma gli era sembrato che l’uomo avesse sparato. Nondimeno, non era successo niente: l’estintore era ricaduto a due metri dal cofano del veicolo che si era liberato ed era filato via dalla piazza. In seguito, con un piccolo gruppo di amici, aveva dovuto correre fino ai vicoli tranquilli sulle alture, con un gruppo di sbirri particolarmente accaniti alle calcagna, il ripiegamento allo Stadio Carlini era finito in un altercare verso cui Carlo non aveva alcun interesse, e aveva finalmente portato a termine il suo programma iniziale: andare a farsi un bagno. Il seguito è noto: la scuola Diaz — militanti che dormivano massacrati, muri sporcati di sangue; la caserma Bolzaneto — torture approvate dai medici; arresti e condanne…
Solo qualche giorno dopo Carlo aveva scoperto di essere stato sfiorato dalla morte. Il carabiniere aveva sparato, in piazza Alimonda avevano trovato diverse cartucce di Beretta che il comitato di difesa si era affrettato a mostrare a una stampa indifferente o ostile.

Ho avuto davvero fortuna, pensa Carlo in mezzo alla folla di Zuccotti Park. Se fossi stato ucciso dieci anni fa, non avrei conosciuto il ribaltamento di quest’epoca, la grande onda partita da Zidi Bouzid, Kasserine, Thala, da questi luoghi in cui dei miei coetanei sono morti perché le rivoluzioni sono sempre fatte, più o meno, e in ogni caso all’inizio, da giovani eroi, dei cinni che sognano la vita che li attende, dei sublimi pischelli. Non avrei mai conosciuto piazza Syntagma, la Puerta del Sol, Washington Square, tutti questi luoghi in cui mi sono precipitato col piacere di abbandonare la cacofonia di un’Italia ufficiale inghiottita nei suoi ridicoli giochi politici e i suoi incantesimi anti-violenza. Non avrei mai conosciuto Isabella, pensa mentre gli prende la mano. E la giovane boliviana, che conosce il proprio uomo, gli parla con dolcezza, perché l’Assemblea Generale è finita e lei l’ha visto immerso nei suoi pensieri, la folla comincia a defluire verso il porto e non c’è più bisogno di parlare ad alta voce per farsi capire, e gli dice a voce bassa:
– Amore mio, sono felice che tu sia vivo. Se ti avessero ucciso dieci anni fa, il mondo sarebbe più brutto e più triste.
E aggiunge una parola che la rude jota spagnola nella sua bocca rende ancora più roca:
– Irrimediabilmente.
– Irrimediabilmente più brutto? Lo dici perché sei innamorata, dice Carlo prendendola tra le braccia.
E si incamminano verso il porto.

(traduzione di Girolamo De Michele)