di Franco Pezzini

Bowen1.jpgPare sia stato Luigi Albertini a far conoscere in Italia Marjorie Bowen (1885-1952), quando nel 1906 — stesso anno dell’uscita in Inghilterra — ne fece pubblicare il romanzo d’esordio The Viper of Milan. A Romance of Lombardy sul Corriere della Sera da lui diretto, sotto il titolo Il biscione. Da allora, salvo rare e defilate eccezioni, sull’autrice britannica in Italia è calato il silenzio: e dunque buona occasione per riscoprirla è una curiosa fantasia gotica, Magia nera, proposto ora da Gargoyle Books (Roma 2011; ed. orig. 1909, trad. dall’inglese di Bernardo Cicchetti, con una prefazione di Fabrizio Foni, pagg. 304 più otto non numm., euro 14,50). All’anagrafe Gabrielle Margaret Vere Long nata Campbell (ma gli pseudonimi si sprecano), l’Autrice fu forzata a un’estrema prolificità artistica da esigenze alimentari; e riuscì a deliziare coi suoi romanzi e racconti un pubblico vastissimo fino al secondo dopoguerra, con tale successo che lo stesso Graham Greene ne riconoscerà la potente influenza e varie trasposizioni appariranno su schermo.


Le fantasie di Bowen hanno carattere soprattutto orrifico o storico: e di tali passioni è appunto specchio questo Black Magic: a Tale of the Rise and Fall of the Antichrist, visionario, romantico e per più versi spiazzante. L’avventura del giovane Dirk Renswoude, partito da Fiandre da fantasie espressioniste per arrivare, grazie alle arti oscure, nientemeno che al soglio pontificio, muove in un Medioevo cronologicamente equivoco: e le figure di continuo intrecciate in conflitti ed amori — come quelle di certi orologi che al battere delle ore sorgono e s’incrociano, sempre loro, in continuo ritorno — presentano una consistenza strana e incorporea, dai contorni sfumati e immersi in un’atmosfera torbida. Bowen riesce ad attribuire connotati psicologici febbricitanti a ruoli-simbolo da mazzo di Tarocchi, con una persistente sensazione di deriva onirica: e in questo utilizzo della visione, in parallelo agli ammiccamenti ai maestri gotici (Walpole, Lewis, Radcliffe…), sembra attingere a piene mani all’immaginario delle arti figurative. Le eleganti figure di Bowen, in esilio da qualunque manuale di Storia, richiamano all’orizzonte preraffaellita come le pagine più corrusche, livide e oniriche paiono uscite da bozzetti simbolisti (un rapporto che peraltro non stupisce ove si rammenti l’eredità del simbolismo anche pittorico sul più tardo fantasy dell’età pulp). Ma insieme il senso di sospensione e straniamento può rinviare al linguaggio di fiaba e meraviglia del primissimo cinema in fondo coevo, ai suoi sfondi irreali dipinti su vetro, Bowen2.jpgagli stessi effetti ottici che potrebbero ispirare alcune scene del romanzo.
Scendendo però nel dettaglio le sorprese sono altre — e s’invita chi non intenda anticiparsele di fermare qui la lettura. Anzitutto, come foschi presagi annunciano fin dai primi capitoli, misteriosi fenomeni celesti in prosieguo confermano e la disgregazione sociale delle ultime pagine ratificherà, Dirk è l’Anticristo, divenuto papa con l’inganno e i commerci demoniaci: eppure egli resta, paradossalmente, umano, troppo umano, capace non solo di amore (scopriremo) filiale, ma d’innamorata fiducia nel bel compagno d’un tempo — al punto da accettare in libertà il rischio del suo tradimento e vagheggiare ancora alla fine un’impossibile felicità assieme. Dove l’incomprensibile “debolezza” di un simile vilain, i cui crimini restano in fondo poco cosa rispetto a quanto ci attenderemmo dal Nemico escatologico, non si giustifica a ben vedere con un deficit d’immaginazione dell’Autrice ma piuttosto con un suo provocatorio relativismo. Che, come scrive Fabrizio Foni nella densa introduzione, “in barba alle prove concrete dell’esistenza e del potere del Male, rovescia di colpo i valori antitetici di un sistema duale, che oppone Dio al diavolo, commutandoli come forze intercambiabili […], e che si caricano della funzione positiva o negativa a seconda dei punti di vista”. Un relativismo che utilizza insomma la maschera del Medioevo proprio per enfatizzare il proprio paradosso.
Non meno spiazzante è però il sapore omosessuale della vicenda — non dissipato dalla scoperta conclusiva che Dirk è una donna,Bowen3.JPG alludendo insieme a misteri ed equivoci di un passato leggendario (il papa-mago Silvestro II, la papessa Giovanna e quant’altro suggerisce la fascinazione anglosassone per un torbido esotismo papista), e a quel topos dell’androginia che tanto successo incontra nell’arte tra i due secoli. Una scoperta che non si consuma però nel “tranquillizzare” i lettori su qualche ortodossia sessuale, ma è in fondo coerente a un intero contesto dove a maschi-fotocopia bellocci e deboli si contrappongono intense figure femminili. Se Black Magic è una fiaba (nera) sulle conseguenze devastanti delle passioni — a partire dall’eros — è proprio nei sentimenti che le sue eroine da affresco preraffaellita svelano la complice simpatia dell’Autrice, e trovano il riscatto dai propri delitti davanti al lettore. Come suggerisce ancora Foni, la protagonista che pratica la magia, cambia identità e nonostante il successo non riesce a sfuggire alla propria solitudine può ben tradire il profilo di un’Autrice che si paluda di pseudonimi per fronteggiare l’inaccettabilità sociale della propria arte proibita.