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Questa voce è tratta da La scuola fascista. Istituzioni, parole d’ordine e luoghi dell’immaginario, a cura di Gianluca Gabrielli e Davide Montino, Ombre corte, Verona 2009, pp. 155-158.
in appendice: Un ricordo di Davide Montino, di G. De Michele
Sempre a proposito di scuola, segnaliamo un intervento sul rifiuto dei test Invalsi in molte scuole e, sullo stesso argomento, la ferma e decisa presa di posizione della FLC-CGIL

Se la Prima guerra mondiale è il mito fondativo del fascismo, antecedente storico ravvicinato, la “romanità” rappresenta il mito delle origini. Un mito che il regime diffonde, esalta e distorce nel tempo, fino a giungere alla più vuota retorica, ridondante quantità di parole che urlano molto e non dicono nulla. Ne è un esempio quanto scrive Mario Appelius su Il Popolo d’Italia dell’11 luglio 1937:

«La grandezza antica del mondo classico, la maestà e l’universalità del Cristianesimo, il fulgore del Rinascimento che è la sublimazione dello spirito umano incarnato verso il Divino irraggiungibile, sono considerati nel nome di Roma. E non solo non è mai finita, ma sta sbocciando col fascismo a rinnovate funzioni imperiali ed è nuovamente il centro irradiatore di una Idea universale, proiettata nel tempo e nello spazio verso il domani del mondo.»

Di questo tassello così importante nella frastagliata ideologia fascista, che proprio dal fascio littorio romano prende il suo simbolo principale, si fece largo uso nelle scuole di ogni ordine e grado, investendo le materie più diverse, la retorica di insegnanti e alunni, i racconti delle letture scolastiche. Sotto questo aspetto il regime si inseriva in una tradizione che risaliva almeno ai primi anni dell’Ottocento, se è vero che Giuseppe Cardella, nel suo compendio di letteratura greca e latina del 1816, esortava gli scolari a studiare le due materie caricandole di valenze etiche e politiche, e soprattutto metteva in luce come Roma avesse ereditato la cultura greca e ne avesse fatto, filtrata attraverso la sua virilità, il faro delle civilizzazione europea. Inserendosi in questa tradizione, il regime di Mussolini tentava di fondare la sua superiorità spirituale, di cui gli alunni dovevano essere ben consapevoli se si voleva costruire quella nazione di soldati che avrebbe fatto di nuovo grande il nome dell’Italia. Romanità e scuola, dunque, rappresentano un binomio facilmente identificabile, il quale si configura concretamente in diverse modalità. Intanto, abbiamo una questione culturale e didattica: la lingua e la letteratura latina, così come la storia antica di Roma, erano materie ritenute fondamentali nella formazione del ceto medio e dirigente, in grado di veicolare valori e virtù essenziali, pertanto avevano la centralità, fortemente voluta da Gentile nella sua Riforma, nell’istruzione media e soprattutto superiore, nello specifico nel Liceo classico. Questa consapevolezza era ribadita nelle più disparate occasioni da professori e presidi, che avevano gioco facile a presentarsi come le vestali del nucleo primigenio della cultura italiana, figliata direttamente dai fasti romani. Scendendo nella gerarchia degli istituti, non veniva però dimenticata questa origine. In forme meno radicali e violente per tutti gli anni Venti, e poi con toni ben più minacciosi nel decennio successivo, il culto di Roma si insinuava tra i banchi di scuola e veniva declinato in diverse occasioni. Il Natale di Roma, la leggenda di Romolo e Remo, la conquista di Cartagine, Giulio Cesare, Muzio Scevola, i Gracchi, il saluto romano, l’espansione militare, la conquista del mondo conosciuto, fino alla delimitazione del Mediterraneo come “mare nostrum”, e alla scoperta che le colonie italiane altro non erano che possedimenti già romani o terre che attendevano la potenza civilizzatrice della Roma fascista, ad un tempo antica e moderna: tutto ciò si ritrova, narrato nelle modalità d’uopo, tra le pagine di storia, geografia, scienze e grammatica dei testi scolastici elementari, fino ad arrivare a quelle di matematica, in questo caso compilate da Maria Mascalchi per il testo unico per la terza classe del 1936:

«Nota sui numeri romani. Per la numerazione dei capitoli dei libri, per l’indicazione della classe dei vagoni ferroviari, ecc., si adoperano i numeri romani, cioè si scrivono i numeri secondo il modo usato dagli antichi Romani di cui noi siamo eredi diretti. Il nostro popolo, sotto la guida del Duce, rivive oggi le glorie antiche e porta il segno del littorio nei paesi lontani come un tempo portava nel mondo l’aquila romana. E dal giorno in cui si è iniziato il rinnovamento della vita italiana, cioè dalla Marcia su Roma, si conta una nuova éra che si rappresenta coi numeri romani.»

Romanità, dunque, è un insieme delle più diverse suggestioni, che vanno dalla virilità del soldato-contadino alla ricchezza dell’arte, dall’eticità della Repubblica alla forza dell’Impero, dall’equità della giustizia alla risolutezza militare, dalla sanità della stirpe alla rettitudine degli usi e costumi. Tutto ciò stava, senza timori di contraddizione, nell’arsenale immaginario di insegnanti e compilatori di testi, ma è con la conquista d’Etiopia che si giungeva all’apice del trionfalismo di matrice classica, e si rinverdivano i fasti imperiali degli antichi, dando il via alle celebrazioni più sfrenate, salutando nel Duce un novello Cesare, già eternato nella storia, mentre con le leggi razziali Roma diveniva garanzia di purezza, spirituale ma anche biologica, come si prodigavano a spiegare scienziati e studiosi e come ribadivano i libri di scuola. Le tracce di questo aspetto dell’educazione fascista si trovano abbondantemente nei quaderni, dove scorgiamo temi, dettati e pagine di diario sul Natale di Roma o sull’Impero, come nel caso di Domenico, alunno pugliese, che nel maggio 1937 scrive: «Un anno fa Benito Mussolini annunciava al popolo italiano la proclamazione dell’Impero. Come ricordo quel giorno. Tutto il popolo italiano raccolto in una dunata, andarono vicino al Fascio, a sentire la parola del Duce. Disse: L’Italia ha creato col suo sangue l’impero. lo ricordo come se fosse ieri la data del 9 maggio di l’anno scorso». Infine, un certo spazio aveva Roma in quanto città, capitale d’Italia e sede del Vaticano, sintesi di potere spirituale e secolare: spesso si hanno descrizioni dell’Urbe, tese a mettere in risalto tanto l’antica grandezza quanto l’incipiente modernità. Questo richiamo all’attualità, era poi ribadito anche dalla pervasività con cui le scuole italiane erano state coinvolte nella Mostra per il bimillenario d’Augusto del 1937. Migliaia di bambini erano stati accompagnati a visitare la mostra, e chi non era potuto andare aveva seguito dettagliati resoconti alla radio, di cui aveva dato conto nei componimenti e nei diari.
L’abbondanza della romanità, come dimensione identitaria e valoriale della scuola fascista, da ultimo, risulta dal ricorso diffuso che si faceva dell’iconografia ispirata al mondo latino, che ritroviamo dai libri di testo alle letture, dai Diari scolastici alle copertine dei quaderni. Ancora una volta, dunque, siamo di fronte ad una costruzione ideologica imponente, che asserviva la scuola ad un progetto di rigenerazione sociale che, in questo caso, prendeva le forme della rinascita dell’antico romano nelle vesti del nuovo italiano, il fascista di Mussolini.

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di Girolamo De Michele

Il 6 dicembre scorso è mancato Davide Montino, uno dei nostri più valenti conoscitori della scuola. Era nato nel 1973 in Val Bormina, e aveva abitato a Cengio, paese noto alle cronache per la strage di operai e cittadini causata dall’ACNA: e come tanti, anche lui aveva contratto quello che usiamo chiamare “un brutto male”, contro il quale ha combattuto per anni. Montino insegnava all’Università di Genova, e collaborava col Centro Studi per la Scuola Pubblica (CESP). Si occupava di storia locale, di storia della scuola e della didattica; ha lottato per la bonifica, la riqualificazione e la restituzione alla comunità dei luoghi della Val Bormida devastati dalla peste, e si è battuto per l’intera durata della sua ricerca in difesa della scuola pubblica. Assieme a Gianluca Gabrielli (qui il suo ricordo) aveva curato La scuola fascista, un preziosissimo lessico che costituisce una pietra miliare e un riferimento imprescindibile per chiunque (me compreso) voglia occuparsi dell’uso normativo e disciplinare che il regime fascista fece della scuola e dell’istruzione. E proprio alla scuola è dedicata l’ultima raccolta di saggi: Con il grembiule siamo tutti più buoni. La scuola italiana tra falsi problemi e pessime soluzioni, nel quale Montino passa in rassegna, con uno stile esemplare e l’acutezza dello storico militante le principali questioni che costituiscono l’agenda di chi intende battersi per difendere la scuola dallo scempio in atto: dalla mitizzazione negativa del ’68 al rapporto tra autorità e antiautoritarismo a scuola, dalle dubbie politiche scolastiche degli ultimi governi alla precarizzazione dell’insegnamento, dalla questione migrante alla sempre più ingombrante presenza della religione cattolica nella scuola laica, fino alla burocratizzazione di una “scuola poffata”. E domani?, si chiede provocatoriamente nelle pagine finali Montino; e risponde, citando Joe Strummer: “Il futuro non è scritto”.