di Roberto Sturm

FedericaSgaggio.jpgIn questo articolo—intervista parleremo di e con Federica Sgaggio. Ho avuto la fortuna di leggere il suo romanzo d’esordio, Due colonne taglio basso, poco dopo la sua pubblicazione, l’anno scorso. Ed è stata un’intuizione felice. Che mi ha portato a leggere anche il racconto lungo pubblicato recentemente per Senzapatria L’avvocato G. In un panorama letterario abbastanza asfittico, che gira spesso sui soliti autori che spesso vivono per anni di rendita, è una rarità trovare un esordiente con tecnica e stile quasi da navigato. Penso che Federica Sgaggio faccia parte proprio di queste eccezioni. La sua forza è la parola, sempre giusta al momento giusto, i personaggi, sempre credibili e delineati psicologicamente in maniera netta, lo stile, arte di cui Federica sembra possedere doti innate, la capacità di non strafare, affidandosi a voli pindarici che non farebbero altro che appesantire il testo. Nonostante queste considerazioni, credo che sia un’autrice che abbia ancora parecchio margine di miglioramento. Leggendo i suoi due testi si intuisce che Federica non si ferma a cliché già sperimentati ma continua la sua ricerca tematica e stilistica.
Credo che possa essere utile cominciare questa chiacchierata con Federica riportando la mia recensione apparsa su Intercom lo scorso anno.

“Sono sempre curioso di leggere opere di esordio. Specialmente femminili. Questo mese mi sono imbattuto in Due colonne taglio basso, di Federica Sgaggio, edito dalla Sironi. Un bel malloppetto da 300 e più pagine che sono riuscito a leggere in una settimana. La vicenda, indubbiamente prende e coinvolge, dopo un inizio un po’ diesel che non si protae però per più di 30 pagine. La scrittura dell’autrice è scorrevole, senza fronzoli, e si presta a una lettura abbastanza piana. Il che, secondo il mio punto di vista, è un pregio. La storia si snoda all’interno di una redazione di un quotidiano locale (forse non è un caso che la Sgaggio faccia la giornalista nella redazione Interni ed Esteri del quotidiano L’Arena) in cui i rapporti di forza, interpersonali, i giochi di potere sono dettati da tutta una serie di circostanze tanto banali quanto quotidiane.
Più un noir che un giallo, perché le divagazioni sulla realtà esterna alla redazione, alla città di provincia, al marcio che deriva verso la delinquenza non mancano affatto. I personaggi sono ben delineati, soprattutto per la vita che vivono al di fuori della redazione. Uno scavo interiore e psicologico che dà credibilità ai protagonisti, a cui il lettore riuscirà a dare un’identità, nel senso di una struttura fisica visiva, abbastanza facilmente. Ci sono diversi generi (non quelli di berlusconiana memoria) di personaggi che ritroviamo quotidianamente nella nostra vita. L’arrivista, l’idealista, la borghese, il poliziotto, la delusa, il figlio di papà e tanti altri che ci immergono in una ambientazione molto reale e dettagliata.
C’è qualche leggera caduta di tensione e di stile, nel racconto (ma cose sinceramente molto marginali), a volte si ha la sensazione che la storia stia per cadere nel banale o nel déjà vu, ma una delle abilità dell’autrice è quella di portarti a pensare ad un epilogo scontato, se non da telenovela almeno da serial tv che non sarà affatto tale. Le ultime pagine (che ho apprezzato più delle altre), sotto certi aspetti, se portano a una direzione che il lettore può anche aspettarsi non finiscono in modo scontato. Affatto. Un finale c’è, ed anche lieto sotto tutti gli aspetti. Ma, come nelle migliori tradizioni dei romanzi importanti, non è una storia finita, “esaustiva”.
C’è un po’ di Simenon (che viene anche citato all’interno della storia) in questo romanzo. Lo si intravede, ma sempre di spalle e fuggevolmente. Perché l’autrice, senza dubbio, ha una sua autonomia sia narrativa che stilistica.
Mi è molto piaciuta l’idea di intitolare ogni capitolo con l’ultima frase del capitolo stesso. Il romanzo, secondo il mio punto di vista, poteva riuscire anche meglio. Il suo lato debole è l’eccessiva “didatticità” dei dialoghi. Avrei preferito dei dialoghi più serrati, meno tradizionali. E avrei anche frenato la voglia di spiegare troppo, che a volte si avverte nel momento in cui uno degli “attori” della storia parla ad un altro senza interruzioni. Senza descrizioni. Rendendo il momento leggermente irreale.
Un romanzo molto interessante, comunque, che mi ha fatto piacere leggere. E se siete curiosi, andate a visitare il sito dell’autrice. Sono convinto che troverete molte cose interessanti.”

Allora Federica, partiamo da una domanda scontata. Cosa ti spinge a scrivere e perchè Due colonne taglio basso?

Ho sempre scritto, tutta la vita. Alle elementari mio padre mi ha regalato una macchina per scrivere Olivetti e a me piacevano da morire il rumore dei tasti, il rocchetto del nastro rosso e nero, i martelletti che ogni tanto si incastravano, la carta carbone. Un giorno del 2005 mi sono seduta al computer e m’è uscita la frase «masticava una ciunga con nervosa indolenza». Mi sono domandata: chi è? Perché mastica la gomma? A poco a poco ho visto un uomo, l’ho visto proprio fisicamente, ho visto la sua infanzia, la sua adolescenza. Ho capito chi era; voleva raccontarmi una storia e io gliel’ho lasciato fare. Mi ha parlato di altre persone, di altre storie, di luoghi. In tre settimane la storia era finita, ma ci ho lavorato ancora per un anno, perché c’era sempre qualcosa che non mi convinceva. Guardandolo ora, lo restringerei un altro po’…

Una scelta commerciale o di gusti personali quella di presentarti con un romanzo a forti tinte noir?

L’aspetto commerciale non mi era mai venuto in mente, perché pur avendo da sempre coltivato il sogno di pubblicare un romanzo non credevo che ci sarei riuscita veramente. Il noir mi piace, ma non è che sia un genere per cui vado pazza. Quel che mi interessava scrivere era una storia sul potere, su come il potere uccide le persone. Quel che una persona moralmente è, credo, emerge nel suo modo di mettersi in relazione al potere, l’altrui ma anche il proprio. Non riuscivo a immaginare niente che più di un omicidio fosse esemplificativo della capacità — appunto! — omicida del potere. E mi interessava anche parlare della normalità, e della malattia della normalità, dell’ossessione per la regolarità, che è uno dei modi attraverso i quali il potere — individuale e delle organizzazioni — uccide.
Io non conoscevo assolutamente nessuno dell’ambiente editoriale. Ho passato del tempo sui siti delle case editrici, ho cercato di capire a chi sarebbe potuto interessare un manoscritto come il mio, e l’ho spedito anche a Giulio Mozzi, che all’epoca faceva il consulente alla Sironi. Un amico ferroviere mi aveva detto spediscilo a questo Mozzi, una ragazza mi ha detto che lui legge i manoscritti. Quando, nove mesi dopo l’invio, Mozzi mi ha chiamata al telefono per dirmi che il testo gli era piaciuto, sono andata sui motori di ricerca per capire chi era e cosa faceva l’uomo con cui avevo appena parlato.

L’ambientazione è una redazione giornalistica. Tu sei giornalista. Non hai corso il rischio di farti coinvolgere troppo?

Onestamente non capisco la domanda. Non capisco come si possa evitare di essere profondamente coinvolti in ciò che si scrive. Sono sicura che aver scritto di ciò che conoscevo bene mi ha aiutato, e non ostacolato per il fatto che l’ambiente lo conoscevo troppo bene. D’altra parte ho lavorato in un tale numero di quotidiani locali che non c’era nemmeno il rischio di far confluire nella storia solo un’esperienza, solo un luogo. Ci son finiti frullati tutti, insomma! Tutti i luoghi e tutte le persone, e insieme a loro un sacco di costruzioni immaginarie.

Cosa condividi e cosa non condividi della mia recensione?

Secondo me chiunque ha il diritto di pensare quel che vuole di ciò che legge, e può parlarne nei termini che crede, con l’unico limite del rispetto. Non tollero la saccenteria, la spocchia, la prosopopea; l’atteggiamento di chi dimentica che va bene le storie, va bene l’inchiostro, va bene la letteratura, va bene la narrazione: ma quel che conta è la vita, sono le relazioni. Nella tua recensione, mi pare ovvio, tutto questo fortunatamente non c’è. Ma io ti direi che secondo me i miei dialoghi sono belli e per niente didascalici. Sono veloci, mossi, credibili, e fanno progredire la storia; non sono orpello esornativo, pausa narrativa. Non penso nemmeno che i personaggi siano assimilabili a un «tipo». Hanno ciascuno le proprie miserie e qualche minima grandezza. Sono complessi. Nessuno è «buono» o «cattivo». Anche Calzario, fondamentale per lo sciogliersi del mistero, resta il bastardo che è sempre stato e sempre sarà, anche se di quando in quando si ricorderà di essere un uomo.

Giornalista e scrittrice. Qual è il tuo rapporto con la parola scritta? E che differenze ci sono tra le parole di un tuo articolo e quelle di un tuo romanzo?

La parola è prima di tutto comunicazione. Ma contiene livelli di ambiguità che risentono di una quantità di fattori virtualmente infinita. L’ambiguità delle parole è una grandissima risorsa, ma bisogna imparare a gestirla. Ho sempre pensato che la parola scritta dovesse essere inequivoca, precisa, tagliata su misura. Ma questo è possibile solo soggettivamente (cioè, ha senso per chi cerca quella parola inequivoca, e non per chi la legge). Nella relazione la parola incontra l’altro, la sua storia e le sue categorie: l’ambiguità nasce da qui. Le parole aprono mondi, e li creano. Possono, ed è meraviglioso, diventare carne perché riescono a toccarti come se avessero una loro materialità, una loro fisicità. Ma possono anche fare da schermo, alzare pareti, fare fuoco di sbarramento. Quando sono questo, io le detesto, perché uccidono la relazione, uccidono il contatto. A quel punto, se si vuole veramente entrare in contatto, bisogna che le parole tacciano e lascino spazio all’inequivoco del non verbale: a un avvicinamento, a un distanziamento, a uno sguardo che se ne va, o a occhi che cercano…
Quanto allo scrivere giornalistico, da tempo non scrivo articoli per il giornale. Sono una giornalista di desk: faccio titoli, gerarchizzo notizie, traduco i pezzi da lingue individuali esotiche, fiorite e spesso sgrammaticate a un italiano il più possibile sobrio, fatto di concatenazioni soggetto-verbo-complemento, cerco foto…
I pezzi di giornale non sono storie. Sono cose che sono accadute. Esigono rispetto, richiedono a chi scrive di fare un passo indietro. Non mi piacciono i pezzi giornalistici con pretese letterarie, quelli in cui si attribuiscono pensieri o intenzioni alle persone in carne e ossa di cui si scrive come se essi fossero personaggi alla nostra mercè e non esseri umani autentici che hanno pensieri personali a noi inconoscibili.

Dal tuo blog si comprende come tu sia una persona attenta alle problematiche sociali e agli avvenimenti politici. Cosa pensi dell’Italia di oggi?

È un posto feroce e inospitale. Le persone sono furiose, respingenti. Le speranze sono ridicolizzate e massacrate. I rapporti di lavoro sono violenti e volgari. Si mangia bene, sì. Ci sono tanti posti splendidi, sì. È il mio Paese, e io gli voglio bene. Ma non c’entro quasi niente, e questa sensazione non è bellissima, anche se credo molto nel valore assoluto dello sradicamento come motore di umanità, di relazione.

Come vivi lo strapotere della Lega Nord nella tua regione?

Lo vivo come la dimostrazione dell’enormità della sconfitta di un’idea di mondo in cui ha senso la rappresentanza e non l’amministrazione o la gestione. Lo vivo come la vittoria della flatulenza sulla dialettica; del semplificato e del truce sul ricco e sul complesso. Lo vivo come la prova che non c’è più niente da fare. Che bisogna avere la pazienza di attendere qualche generazione e ricostruire dal minuscolo.

Riesci a vedere attualmente (sinceramente io non ancora) un’alternativa politica credibile al Governo di centro-destra?

No. Il problema non è la credibilità, ma l’assenza di un’idea di mondo. Così come i giornalisti sono schiavi delle parole altrui — e se intendono scrivere, per esempio, che un giovane marocchino è stato arrestato omettono di indicare la nazionalità perché sanno che c’è chi può considerare preconcettualmente negativa quell’identità, ma così facendo rinunciano a dare alle parole il senso che per loro hanno e accettano il senso che hanno per il (brutalizzo) «nemico» – i politici della cosiddetta sinistra sono subalterni all’idea di mondo del (brutalizzo) «nemico». Tant’è che la loro forza propulsiva si esaurisce nell’attivismo petizionario, completamente privo di effetti ma assai soddisfacente sotto il profilo della conquista di un’identità politica estremamente fluida, spettacolare e fittizia.

Passiamo adesso a L’avvocato G. Un romanzo breve o racconto lungo, personalmente ho sempre faticato a trovare la differenza tra le due formulazioni, che trovo, sotto molti aspetti, superiore al tuo romanzo di esordio. Come nasce l’idea? Sei d’accordo se affermo che se quest’opera fosse stata scritta da un uomo avrebbe ricevuto forti critiche dal pubblico femminile?

Non saprei, davvero. Io sono madre di un figlio maschio. L’ultima cosa che vorrei per lui è essere una madre che gli taglia le palle. Volevo scrivere di come una donna può (s)virilizzare un uomo; di come un uomo può (de)femminilizzare una donna. Questa storia è un tributo alla mascolinità, che si riconosce nel modo in cui il femminile la guarda; e un tributo alla femminilità, che si riconosce nel modo in cui il maschile la guarda. L’identità di genere è perlopiù segnata; la propria femminilità e la propria mascolinità, l’esser dentro al proprio corpo, nascono invece dalla relazione con l’altro. E comunque anche a me piace di più L’avvocato G.

Durante la presentazione de L’avvocato G. a Pesaro, di cui ho visto ampi stralci su youtube, affermi che “la relazione con il mondo non può prescindere dal corpo”. Vogliamo approfondire un po’?

Il corpo è ciò che rimane quando le parole hanno esaurito il loro ruolo. Il corpo è ciò che esiste e non mente. Il corpo si apre al mondo oppure si rinchiude in se stesso. La pelle è il limite del proprio e il luogo di contatto con l’altrui. E non parlo solamente di eros.

Hai anche affermato, sempre a Pesaro, che se avessi scritto questa storia per una casa editrice più conosciuta forse non saresti riuscita a scriverla in questo modo. Perché?

Perché mi sarei fatta intimidire dal pensiero che l’avrebbero letta in moltissimi. E avrei passato ore su una frase, domandandomi se non si dovesse limarne l’evocazione erotica.

L’avvocato G. trasuda di eros. Mai volgare ma abbastanza spinto. Cosa c’è di te, nel caso ci fosse, nelle tre donne, moglie, prima e seconda amante, per semplificare, che sono le protagoniste della storia?

A me non sembra che l’eros sia «spinto». Mi sembra, al contrario, restituito alla sua complessità e sottratto alla dimensione della genitalità, come invece lascerebbe pensare la tua definizione di «spinto». Come mai non mi domandi cosa c’è di me nell’avvocato G., nel maschio della storia? Pensi che una donna che scrive possa esprimere cose di sé solo ed esclusivamente attraverso i personaggi femminili? Non so cosa c’è di me, dico davvero. Forse c’è un tentativo di esplorare il mio senso del maschile e del femminile.

A questo punto non posso fare a meno di chiederti cosa c’è di te nell’avvocato G.

Non so rispondere con certezza, ma posso solo fare ipotesi. Forse c’è che anch’io come lui, sebbene in modo ovviamente opposto e simmetrico, ho vissuto una lunga negazione difensiva di me, che non rinnego perché capisco che ne avevo bisogno e mi apparteneva fino in fondo. C’è che anch’io come lui, che però l’ha «fatto» da maschio, ho scoperto il mio femminile attraverso un maschile. C’è che, come lui che nel libro sente il desiderio di diventare padre solo quando ha scoperto la sua dimensione maschile, anch’io ho voluto avere un figlio solo quando ho lasciato venire in luce la mia dimensione femminile. Di sicuro non c’è la sua pulsione a scomparire, la sua disponibilità a lasciarsi sopraffare dalla disperazione.

L’avvocato G. lo vediamo da tre punti di vista femminili. Sono loro le vere protagoniste della trama. Ognuna con una storia, con un carattere, con delle peculiarità. Ma alla fine il cerchio si chiude e la personalità dell’avvocato viene definita dai diversi punti di vista. L’avvocato G. rappresenta per te, oggi, il prototipo del maschio? Non dico italiano perché lui è irlandese. Penso che si possa dire senza nulla togliere al gusto della lettura.

Ma no che non è il prototipo del maschio. Non credo che esista un prototipo di maschio. È un personaggio che ha dovuto fare i conti con la negazione di sé come uomo. Succede anche a tante donne; anche alla signora M. del racconto. È un uomo che scopre di essere uomo e non solo «persona».

Gli autori e le autrici che leggi maggiormente?

Ho bevuto la Highsmith, la splendida Elizabeth George, Catherine Dunne (il cui libro più bello, secondo me, è «At a time like this», tradotto come «Se stasera sono qui»). Mi è piaciuto moltissimo l’ultimo libro di John Lynch, «Falling out of Heaven»: splendido, ricco, entusiasmante. Lui è un attore e scrittore nordirlandese di madre italiana. Bravissimo. Ho letto Frank McCourt, un sacco di irlandesi cosiddetti minori. Mi piace Roddy Doyle, non vedo l’ora di aprire l’ultimo di Joseph O’Connor, «Ghostlight» (autografatooo!). Mi piace Scott Turow, soprattutto «Ordinary hero». Mi è piaciuta molto Grazia Deledda, pensa un po’. Mi piacciono alcuni italiani che si dedicano a raccontare storie; non sopporto il barocchismo linguistico, la supremazia dello stile sul contenuto. Compro tonnellate di libri, non riuscirò mai a leggerli tutti. Ogni volta che vado in Irlanda devo acquistare una valigetta nuova da imbarcare nella stiva perché con i libri che ho comperato supero il peso massimo consentito per il bagaglio a mano. Leggo in modo del tutto non scientifico, e tendo a bere quel che mi piace lasciandomi trasportare in una dimensione di totale astrazione dal luogo e dalla situazione in cui effettivamente mi trovo.
Leggere è un’esperienza fisica: io sono lì, nel luogo in cui leggo, ma in realtà sono completamente altrove. Questo a volte comporta che l’attrazione verso l’altrove è così assorbente e totalizzante che nemmeno mi ricordo la trama del libro che ho letto, perché l’ho vissuto come in una trance e ci ho nuotato dentro. A volte mi chiedono se ho letto il Tale, o il Talaltro, e io come una scema brancolo nel buio. Chiedo «ma che storia era?», e a poco a poco, sentendomela raccontare, recupero il ricordo di un’immersione e dico «sì, certo, l’ho letto!».
Sto leggendo tanto in inglese: il rapporto con un’altra lingua è esaltante. Scoprire Hemingway in inglese è una rivelazione. Mi piace moltissimo Oscar Wilde, soprattutto il teatro. Ho divorato i romanzi dell’immeritatamente vituperata Sophie Kinsella, anche quelli pubblicati col suo vero nome di Madeleine Wickham. Mi piace molto Tullio Avoledo, soprattutto «Lo stato dell’unione», che secondo me è un piccolo capolavoro. Ho letto Carofiglio, ma gli ultimi non li ho letti. Mi è piaciuto Piazzese. Non ho letto una riga di Camilleri (e sono sicura che se ne farà una ragione), di Faletti. Sono completamente impazzita per la «Trilogia della città di K» della Kristof; giravo per la casa declamandone pezzi a mio marito. M’è piaciuto Ken Follett in alcuni suoi romanzi. M’è piaciuto anche qualcosa di Grisham.
Io compro qualunque cosa mi sembri suggestiva; qualunque cosa mi pare che abbia il profumo di una storia che mi porta via, lontano. Molte volte apro un libro, comincio a leggerlo e poi, siccome non mi piace, interrompo la lettura. Amen, chisseneimporta. Il compito di tener desta la mia attenzione è di chi scrive; vorrà dire che non siamo fatti l’uno per l’altra.
Mi è piaciuto il romanzo che Daria Bignardi ha scritto sulla sua famiglia, anche. M’è piaciuto «Strane cose, domani» di Raul Montanari, anche se non ho capito come è finito. Non m’è piaciuto l’ultimo Ammaniti. Ho letto con soddisfazione Giorgio Falco. M’è piaciuto molto — tutt’altro genere — la lettera che De Michele ha scritto alla Gelmini. Mi piace Zoe Heller: fantastico «Notes on a scandal», bellissimo «The believers».
Come si vede benissimo, non seguo una linea. Leggere per me è distrazione, una passeggiata nel mondo del possibile, in un universo parallelo. Mi devono piacere una storia, il ritmo delle cose che accadono e il ritmo delle parole. Tendo a evitare i libri famosoni, i molto recensiti. Ma non per spocchia (forse anche un po’, sì); ma è più il fatto che sono un bastian contrario e mi piace da matti la sfida di trovare qualcuno che, avendo letto qualcosa che, sorprendentemente, ho letto anch’io, mi offra l’opportunità di chiacchierarne: questi incontri hanno il sapore di incontri del destino!
Vedi che minestrone di titoli ti ho fatto? Ti sembro una persona seria? Una lettrice seria? No, non c’è verso… Mi è piaciuto un casino anche Wodehouse; m’è piaciuta Agatha Christie.
Non c’è dubbio che io meriti una di quelle belle punizioni che solo gli intellettuali veri sanno infliggere, con la loro misurata e raffinatissima crudeltà. Non so: leggere tutto — boh – Carver in lingua originale in due settimane, e poi interrogazione davanti a una commissione di accademici con la «a» maiuscola; e se non supero l’esame, via alla Cayenna. O a studiare, da brava bambina.

Progetti letterari per il futuro?

Un saggio su alcune questioni giornalistiche. Un racconto per un’antologia. Un altro romanzo che sobbolle da un po’ e cambia forma e colore. Un corso a Dublino sulla scrittura giornalistica al di là della questione delle cinque w (lo tiene il corrispondente del Guardian e dell’Observer dall’Irlanda, Henry McDonald). Una cosa bellissima che sto seguendo con Catherine Dunne, ovvero una «spedizione» estiva di italiani all’Irish Writers’ Centre alla scoperta della letteratura contemporanea irlandese. L’Irlanda è uno dei miei posti del cuore. Un altrove dove mi sento vicina a me nonostante la pioggia. E che altro? Oddio. Non lo so. So solo che non passa un giorno senza che io scriva. Che sia un male?