di Marilù Oliva

Di fronte alla catastrofe culturale italiana mi sento come uno che si aggira per il Titanic cercando un rubinetto che perde. Io so solo quello che posso fare con le mie braccia: vivere l’amore per la lettura e per la scrittura come una grande fortuna con cui contagiare gli altri. Usare questo dono come una vanga per dissodare la terra devastata di questi anni.

simi.jpgGiampaolo Simi è nato a Viareggio nel 1965. Ha cominciato a scrivere a quattro anni, complice una Olivetti del nonno. Ha pubblicato i romanzi “Il buio sotto la candela” (1996, Baroni e Flaccovio, 2005), “Direttissimi altrove” (1999 collana VoxNoir di DeriveApprodi, finalista premio Scerbanenco), “Figli del tramonto” (2000 Hobby&Work), “Tutto o Nulla” (2001 DeriveApprodi, 2002 Neri del Giallo Mondadori, finalista premio Scerbanenco), “L’occhio del rospo” (2001, ADN Kronos Libri), “Il corpo dell’Inglese” (2004, Stile Libero Noir Einaudi), “Rosa elettrica” (2007, Stile Libero Noir Einaudi). Alcuni suoi titoli sono tradotti nella Série Noire di Gallimard e da Bertelsmann e Goldmann in Germania. È presente nell’antologia “Crimini Italiani” (Einaudi 2008). Collabora come soggettista e sceneggiatore ad alcune serie tv.
I romanzi di riferimento che ci ha citato, ovvero i primi che gli son venuti in mente, sono: “Posizione di tiro” di Jean Patrick Manchette, il “Red Riding Quartet” di David Peace, “Il borgomastro di Furnes” di Georges Simenon. Alla domanda Quali sono le tue passioni? ha risposto: «Una Fender Stratocaster del 1983, colore legno sunburnt, battipenna bianco, manico in acero».


Hai pubblicato con Einaudi “Rosa elettrica” nel 2007. Rosa, predatrice del tramonto, è una poliziotta alle prese col suo primo difficile incarico: proteggere Cocíss, al secolo Daniele Mastronero, boss della camorra. Come nasce l’idea del romanzo?
Nasce molti anni fa. Doveva essere un racconto breve. Poi ho capito che Rosa e Cociss erano così lontani e diversi che, proprio dalla loro distanza, scaturiva una grande storia impregnata, anzi inzuppata, del senso di paura e di fuga dal futuro che si respira oggi in Italia.

Il compito che la poliziotta deve affrontare la pone di fronte a inquietudini laceranti e smaschera molti controsensi: «…non si può fare la guardia a uno che dovrebbe essere in galera, non si può sorvegliare uno che collabora ma non vuol cambiar vita. Non si può. Non ha senso». I pensieri di Rosa si intersecano ai dialoghi in una coinvolgente narrazione in prima persona, pulita da eccessi introspettivi. Come hai costruito il personaggio di Rosa?
Ho intervistato alcune agenti di polizia, innanzitutto. Poi l’ho costruito pensando alle donne della mia famiglia. Io provengo da un ambiente matriarcale. Nella mia città gli uomini navigavano per inverni interi e le donne diventavano le capofamiglia. E in più le ho donato l’infinita pazienza, la cocciutaggine e l’intelligenza di mia moglie. Non a caso, anche se avevo in testa questa storia da anni, l’ho scritta solo dopo averla conosciuta.

E quello di Cocíss? Tu che sei di Viareggio, come ti sei documentato per la costruzione del suo parlato meridionale dagli influssi fortemente dialettali?
Ho svolto un piccolo progetto in una Casa Famiglia simile a quella di cui si parla nel libro. E in più mi sono documentato su qualche testo. Ce ne sono di interessantissimi, proprio sull’aspetto linguistico dei mondi criminali.

A proposito del non-senso di cui parlavamo sopra, in quali occasioni hai recentemente sentito la prepotenza del non-senso?
Tutti i giorni. L’altra settimana Tremonti (uno che, mi risulta, fa il ministro dell’economia in Italia) ha dichiarato che “la cultura la gente non se la mangia”. È come se un texano sentenziasse che il petrolio non serve a niente perché non si può bere. Follia pura. L’arte e la cultura sono le uniche nostre risorse naturali. Potrebbero mantenerci tutti quanti, e bene. Inoltre è l’ammissione che in Italia siamo regrediti a tal punto che l’unico bisogno (o problema) vero è di riempirci la pancia. Non è questo, mi pare, il tratto distintivo delle “grandi democrazie” occidentali a cui pensiamo di appartenere.

A pagina 246 del romanzo “Rosa Elettrica” citi Sant’Agostino: «Il male non esiste, diceva». Tu cosa pensi del male?
Io non sono credente, ma quello che mi affascina in Sant’Agostino è l’idea di cercare Dio attraverso un viaggio alla scoperta di se stessi. Non vorrei farlo passare per un guru new age ante litteram, è solo che mi pare un’idea bella, oggi che la religione cattolica stessa è difesa dai suoi intrepidi crociati come “tradizione”, alla stregua della polenta con gli osèi, o tutt’al più come arredo scolastico. Quanto al Male, per Sant’Agostino non si è mai malvagi, si è lontani dal bene e da Dio. In modo laico e orgogliosamente relativistico, penso che il Male sia essere lontani da se stessi, non portare alla luce ciò che veramente si è, e dopo aver esplorato i propri abissi più bui. Quindi non conoscersi, non accettarsi.

Hai dichiarato in un’intervista che il raccontare è «un atto concreto di enorme importanza anche politica. Un atto che può essere al momento stesso ribellione e costruzione». Tutti gli scrittori sono dunque sovversivi e costruttivi? Se la risposta è negativa, cosa fa la differenza?
L’atto del raccontare in sé è potere, quindi appropriarsene è cambiare gli equilibri di forza. Chi detiene il potere oggi in Italia impone ogni giorno una specie di miniracconto autoconclusivo, una microstoria giornaliera, in tutto e per tutto simile a una puntata di “Casa Vianello”. Il nulla immobile, perpetuo, una soap opera. Scardinare questo “spot-format” con un altro racconto è fondamentale. Significa ridare alle persone una consapevolezza degna quantomeno dell’età adulta. Ma questo va fatto con il linguaggio, parola per parola. Qui sta la differenza. Invece molti scrittori mettono in scena qualche intellettuale dolente, rancoroso e disilluso, oppure lo sbirro cinico, divorziato, sovrappeso ma idealista, e con quello assolvono il proprio bravo compitino da progressisti.

Com’è l’ambiente culturale/intellettuale italiano? Ci sono dibattiti interessanti/noiosi/stimolanti? Partecipi o li eviti?
Ogni tanto provo a buttare qualche riflessione sul tavolo. Qualche settimana fa un mio intervento sul print on demand è rimbalzato da un blog all’altro e ha dato il via a un dibattito che ho seguito con molto interesse. Sulla grande querelle- Mondadori mi sono accorto di non avere un’idea precisa. E non sono voluto intervenire dicendo banalità come “sto in Mondadori perché a) paga bene e devo campare, b) mi lasciano scrivere quello che voglio, c) ci lavora un sacco di gente competente e anche di sinistra”. E grazie tante, saresti davvero un imbecille a stare da anni con un editore che non paga, assume solo analfabeti con la tessera del Partito dell’Amore e ti impone pure quello che devi scrivere. Ah, e dimenticavo“d) rimango in Mondadori per combattere il sistema dall’interno”. Visti i risultati degli ultimi quindici anni, ragazzi, forse la strategia è quantomeno da rivedere. Ma la verità è che non si sta combattendo nessuna vera battaglia.

Lo scrittore ha dei doveri verso qualcuno/qualcosa?
Lo scrittore ha un dovere di onestà in primo luogo verso se stesso. Dickens diceva “nessuno ha creduto in questa storia più di colui che l’ha scritta”. Il passo con il lettore esiste, ma non funzionerà mai se a monte non c’è questo.

Che idea ti sei fatto del lettore italiano medio?
Che forse non esiste. In Italia ci sono pochi lettori forti, circa il 7% della popolazione, secondo le ultime cifre, e sono molto esigenti. Essere apprezzato anche da uno solo di questi è una soddisfazione che giustifica anni di lavoro. I lettori deboli, occasionali (che sono circa il 40%) vanno un po’ dove li porta il vento. Molti di questi ultimi, ne sono sicuro, hanno sempre snobbato le librerie, poi ci sono entrati per comprare Faletti, Volo o Moccia. In realtà nutrivano quindi un grande complesso di inferiorità nei confronti della lettura, tanto da dover pensare: “se l’ha scritto uno che sta a Radio DeeJay o a Drive In, allora lo posso leggere anch’io”. Idea superficiale. Al di là della qualità letteraria, nessuno dei tre personaggi citati è uno sprovveduto dilettante baciato dalla fortuna.

Se ti chiedessero una o più soluzioni per risollevare culturalmente le sorti del tuo paese, cosa proporresti?
Di fronte alla catastrofe culturale italiana mi sento come uno che si aggira per il Titanic cercando un rubinetto che perde (credo di averla già detta, questa, ma rende l’idea). Io so solo quello che posso fare con le mie braccia: vivere l’amore per la lettura e per la scrittura come una grande fortuna con cui contagiare gli altri, non come un tormento élitario. Usare questo dono come una vanga per dissodare la terra devastata di questi anni. Sasso per sasso, cioè parola per parola.

Sei direttore tecnico del Premio Camaiore Letteratura Gialla. Qual è la valenza di un premio letterario, oggi?
I premi letterari, salvo i pochi che hanno copertura televisiva, non influiscono certo in modo decisivo sulle vendite. Possono essere un importante momento di confronto fra autori, fra lettori, fra patiti di un genere e addetti ai lavori.

Stai scrivendo qualcosa, ora?
Sto scrivendo il mio prossimo romanzo. Una storia molto personale. Quindi delicatissima. Ci metterò un po’ di tempo. Contemporaneamente sto scrivendo un film con Wilma Labate, su una storia forte e divertente, incredibile se non fosse accaduta veramente. Ma, al momento, non anticipo nulla…

Ci saluti con una citazione elettrica?
“You can’t stop rock’n roll” (AC/DC)