di Dziga Cacace

MC081.jpg283 – La sciamana imputato ad Andrzej Zulawski, Polonia/ Francia/Svizzera 1996

E mo’ una bella schifezza come non mi capitava da tempo. Prime scene e mi sembra un Ultimo tango a Varsavia con tutte le tristi conseguenze del caso. Lui, ricercatore universitario, affitta un appartamento vuoto a “l’italiana”, una studentessa cavallona del Politecnico. Uno sguardo, una mano tra le gambe, la constatazione che lei è tutta bagnata (e perché, di grazia?) e subito i due trombano. Chiaramente lei prima subisce, poi in un nanosecondo ci piglia gusto mugghiando: classico. E parte questa scombinata storia di sesso e amore folle. Intanto il ricercatore ritrova il corpo di uno sciamano mummificato e l’entusiasmo per la scoperta e la disinvolta sessualità della studentessa fanno il resto. Finale tragico: del resto non che tutto il film non si muovesse su questi binari. Zulawski sa girare, ha talento plastico: muove sempre la macchina da presa e sceglie belle soluzioni di ripresa, aiutato anche da una fotografia intrigante. Ma la storia è inesistente e non si capisce dove si voglia andare a parare, se non provocare e basta. E oltre a tutto lei, Iwona Petry, è un’attrice atroce, un cane di quelli che s’incontrano raramente sugli schermi. Si agita da epilettica, con assortiti smorfie e sgranamenti di occhioni, mentre si chiava tutto quello che si muove in una Varsavia abitata solo da maniaci sessuali, delinquenti, prostitute e ubriaconi. Siccome Zulawski è un lord ha detto che ha fatto tutto lei, attrice non professionista, notata per caso in un bar e assunta. Con questi risultati, infatti.


Ma il vero mistero del film è come abbia potuto Canal + dare dei soldi a questo cialtrone di regista. Il risultato è deprimente, noioso, ripetitivo e senza direzione e tant’è non riuscivo a spegnere il videoregistratore, anche se ho abusato di avanzamento veloce, lo ammetto. Ma questa è legittima difesa, eh. E poi un’ora e 50 di durata è un abominio. Nel crescendo di bestialità ed effettacci, arriviamo anche a un finale confuso dove lei si mangia il cervello del ricercatore col cucchiaino (giuro) e poi va a battere il marciapiede. Del resto, se il regista il cervello se l’è bevuto, perché no? Una cazzata immane, insomma. (Vhs originale; 14/11/99)

287 – Il deserto rosso commesso da Michelangelo Antonioni, Italia/Francia 1964

Signori, che sofferenza. Cominciamo col dire che il film non si chiama Deserto rosso, MA Il deserto rosso, come ben evidenziato due volte nei titoli di testa. Perché poi tutti dimentichino l’articolo è un mistero e questo è il mio contributo critico pregnante. Allora: Ravenna, zona raffinerie, aria malsana, nebbiolina e una donna in crisi, Giuliana, una piaga sociale che si sente alienata, che è nevrotica, che soffre. Come presto lo spettatore Cacace. Se a Giuliana fanno male i capelli, a me i testicoli e tanto. La composizione fotografica è intrigante, a cercare fughe prospettiche e porzioni di paesaggio che resistono all’incedere delle industrie, e la livida fotografia spesso si squarcia in splendidi rossi. Ma la vicenda ha tempi iraniani e i dialoghi fanno veramente crollare le palle. La Vitti è angosciata, sta male, è confusa — lo abbiamo ben capito — ed esprime concetti balbettanti degni di un bimbo ritardato. Secondo alcuni, questo film è un capolavoro. Sarà. (Vhs da Retequattro; 28/11/99)

289 – Casino di Martin Scorsese, USA 1995

Sono arrivato ieri a Parigi in una casa che sarà 14 metri quadri a dir tanto. Ho qualche giorno di vacanza ed è bello girare la città più cinematografica del mondo. Oggi, mentre Barbara era a studiare da qualche parte, mi son preso una mattinata libera, ma il museo del cinema era chiuso. Ho la certezza, vedendo la torre Eiffel dal Trocadero, che tenda verso sinistra. Siccome ho già pagato un’ora e mezza di parcheggio, non posso che salire. Ora o mai più. La coda per l’ascensore sembra infinita e allora vado a piedi. Salgo in un quarto d’ora. Faccio molte foto senza senso alla struttura, ma in realtà fotografo per riprendere fiato: domani i polpacci urleranno. Quando arrivo alla piattaforma del secondo piano, comincia a piovere. Ho ancora tre quarti d’ora di parcheggio pagati: che faccio? Mi guardo intorno e ripenso commosso a Paris qui dort e a La Tour di René Clair, il secondo un placido montaggio di immagini di questo mostro d’acciaio, bellissimo. Il film e la Torre. Scendo e opto per un souvlaki al quartiere latino. Poi, dopo un pomeriggio da turisti, rientriamo a casa per una overdose di baguette, fois gras e beaujeaulais. Gonfio come un aerostato accendo il televisore, che non si sa mai. E non lo spengo per altre due ore. Prendete una sceneggiatura di Nicholas Pileggi e Scorsese, il montaggio di Thelma Schoonmaker, i Rolling Stones, Joe Pesci molto cattivo, De Niro che s’aggiusta la cravatta per ottenere rispettabilità, Sharon Stone che frigna, il Jeff Beck Group con Rod Stewart che urla, le mille luci di Las Vegas, Disneyland che avanza, soldi, soldi, soldi, la cinepresa in continuo frenetico movimento, tutti i tipi di tecnica ed effetti, le voci narranti che si alternano, la fotografia scintillante, fermi immagine, rallenti, piani sequenza, parole, parole, parole, amore e violenza, rock e blues, ritmo forsennato e il grande divino Martin che tutte dirige, coordina e sa. Prendete queste cose, sommatele e otterrete Casino, uno dei pochi capolavori degli anni Novanta. Visto su TF1 in francese, capito quasi nulla, ricordato tutto: estasiato. Peraltro poco prima dell’inizio del film indugio sugli altri canali e becco l’attacco di Betty Blue con Beatrice Dalle che scopa come un’ossessa, ululando come un lupo siberiano in calore. Una cosa così in Italia non la vedremo mai, neanche alle quattro del mattino. (Diretta su TF1; 5/12/99)

MC082.jpg290 – The Big One di Michael Moore, USA 1997

Sarò disordinato perché ancora emozionato e confuso dalla visione del nuovo (vecchio di tre anni, in realtà) film di Moore, visto in un piovoso pomeriggio parigino in un cinema – il Réflet Medicis 2 – che è una incredibile saletta da neanche 100 posti, al piano terra di un palazzo del Quartiere Latino. Procedo per impressioni. Il film non è immediatamente bello come Roger & Me. È più dispersivo e meno curato dal punto di vista estetico, ma non è quello che ci importa. Dunque: Michael Moore ha scritto un libro (Downsize This) e deve andare a promuoverlo in 47 librerie degli USA. Si porta dietro una ridottissima troupe (2 persone: un cameraman e uno che, credo, si occupa del sonoro) e documenta la sua tournée. Ogni conferenza si trasforma in uno show del giornalista e, parlando in giro, c’è sempre occasione per fare casino rispetto a quello che sta avvenendo negli USA (e di riflesso anche nel resto dell’impero). Moore invita i lavoratori a unirsi in sindacati per ottenere riconoscimenti salariali dignitosi, si batte contro lo sfruttamento della manodopera del terzo mondo, contesta la logica del profitto che butta sul lastrico migliaia di persone. Tutto questo ascoltando chi vive sulla sua pelle questi problemi o andando direttamente da chi di queste situazioni è responsabile. Come in Roger & Me le risposte di chi dirige corporation, multinazionali, holding e altre brutte parole, è sempre di una pochezza intellettuale disarmante: gente che ragiona con cifre senza pensare che dietro i numeri ci sono vite umane, sangue, carne e lacrime. Illuminante la risposta del boss della Nike quando Moore gli ricorda che grazie ai soldi della fiorente azienda sopravvive un regime (quello indonesiano) che ha già fatto 200.000 morti. Il boss (giovanile, simpatico e quant’altro, oltreché multimiliardario in maniera oscena), contrattacca ricordando i morti della Rivoluzione Culturale cinese. Uno si aspetta che Moore reagisca rispondendogli: “cazzo c’entra?”, come sarebbe logico. E invece il regista dimostra che non c’è bisogno di nessuna violenza oratoria per incastrare un demente: gli chiede quanti morti sono abbastanza, in nome del profitto. Il demente – evidentemente dotato solo di un’immagine – balbetta e questi semplici dieci secondi di pellicola sono più eloquenti di qualunque saggio politico. Ora non vorrei togliervi la gioia di vedere il film, se e quando arriverà qui, in una delle province più neglette dell’impero del dollaro, ma se proseguite nella lettura vi snocciolo altri momenti salienti. Il film si apre con Moore che dimostra che tutti i candidati alla presidenza hanno incassato gli assegni che lui gli ha mandato a nome di improbabili associazioni di sostegno. Clinton ha incassato 1000 dollari dai fumatori di hascisc, Buchanan li ha presi dagli “Abortisti per Buchanan” e Perot addirittura da una “Lega dei pedofili per il libero scambio”. Idea straordinaria. Poi Moore conduce una paradossale intervista con uno sgherro di Steve Forbes. Siccome il servo sciocco non capisce le domande di Moore ne viene fuori un pezzo geniale in cui il regista ci dimostra che Forbes – grande gestore del consenso USA – viene da un altro pianeta (infatti non sbatte le palpebre per 5 minuti consecutivi). E ancora: il toccante incontro con una lettrice che confessa a Moore di aver perso il lavoro proprio quel giorno; la consegna a un magnate di un assegno di 80 centesimi per pagare la prima ora di lavoro di un operaio messicano; la scoperta che la TWA affida le prenotazione telefoniche a degli ergastolani sottopagati; la proposta di chiamare gli USA “the Big One”, dal momento che quattro fetide isole si fanno chiamare Great Britain (e come simbolo perché non adottare un uomo calvo? Del resto, chi ha mai visto un’aquila calva?); e ancora tante altre cose. Si ride, ci si commuove e si riflette sull’insensatezza di questo sistema. Può esserci il dubbio se tutto quello che vediamo sia vero e se Moore non sia un personaggio meno candido di quello che appare, ma non importa di fronte alla denuncia composta, dissacrante, intelligente di quest’uomo. Non c’è contro canto, tutte le politiche aziendali appaiono folli e sicuramente c’è una logica – magari perversa – anche in queste scelte. Ma Moore non è un leninista contro il Capitale: chiede solo meno avidità e un po’ più di comprensione, non gli interessa abbattere il Sistema, solo ammorbidirlo finché non ci sia il necessario rispetto per la dignità di chi lavora. E questa potrebbe essere la chiave per farlo vedere anche a chi non sia solo compiaciuto da un attacco ideologico. Scommettiamo che da noi non lo importa nessuno? Girato in elettronica, montato da dio, arricchito da splendida musica rock, questo film vi merita. Assolutamente. (Sala; 7/12/99)

291 – Hard Target – Senza tregua di John Woo, USA 1993

Barbara è tornata con me da Parigi e le propongo un film che non può rifiutarmi: il primo John Woo americano. Oltre a tutto la pupa è adusa a sorbettarsi le più orrende porcate d’azione in onda su Italia 1 e questo film non le sembrerà neanche una delle mie temute videocassette mute e in bianco e nero. E infatti accetta, sennonché la prima mezz’ora è impestata da un numero impressionante di rallenti, i dialoghi fanno venire i brividi e la recitazione non ne parliamo. Trama: una ragazza arriva a New Orleans decisa a cercare il padre. La aiuta Chance – Van Damme – e, assieme, scoprono che l’uomo è morto durante il tremendo gioco orchestrato a pagamento da un losco figuro: la caccia al fuggiasco, hobby per ricconi annoiati con, come vittime, i diseredati della città. L’eroe darà una esplosiva lezione al cattivo. Difficile giudicare questo Hard Target: innanzi tutto il montaggio è stato disconosciuto dal regista, poi l’emissione è a tutto schermo. E il film ha parecchie lacune: una recitazione che nei comprimari sarebbe generoso definire da compagnia dell’oratorio e che poco si eleva col glaciale Lance Henriksen e l’ancor più immoto Jean-Claude Van Damme. Di positivo c’è un linguaggio cinematografico molto particolare, arricchito dagli stilemi cari al regista (che troveranno compimento in USA solo con Face/Off). Poi c’è un epico combattimento finale, si vede la Piazza d’Italia di Moore a New Orleans e si sente tanto bel blues sudato delle paludi (con chicca sui titoli di coda: i Creedence Clearwater Revival con Born on the Bayou). Godibile solo per appassionati e collezionisti. O per affezionati agli action movie di Italia1 che qui troveranno qualche motivo in più per divertirsi (ma sapranno accorgersene?). (Vhs da Italia1; 9/12/99)

MC083.jpg292 – Rabid – Sete di sangue di David Cronenberg, Canada 1976

Gentile omaggio di un passato Fuori Orario, il secondo film del geniale e disturbante regista canadese è un horror girato con la mano ferma di una regia d’autore. Rabid schifa, inquieta, ti mette in uno stato d’agitazione persistente per nulla paragonabile a tanti altri scipiti esempi del genere. Rose è una ragazza coinvolta in un incidente motociclistico. Ricoverata in una clinica per chirurgie estetiche, finisce tra le mani di un medico convinto della possibilità di trapiantare ampie porzioni di pelle umana. Su di lei compie il suo primo (in)glorioso tentativo, infatti Rose muta e sotto la sua ascella sinistra cresce un orifizio (anale, direi). Quando delle incaute vittime si rifugiano nelle braccia della ragazza, dall’ascella puteolente esce una protuberanza vorace che succhia sangue. Presto si diffonde un epidemia che, a fine film, ha ridotto Montreal in una città di morti dove dolenti monatti raccolgono le vittime del contagio. Un’ora e mezza di vera inquietudine, senza vedere tanto sangue ma strizzando assai, con la consueta cifra gelida del regista. Agile, girato in economia e con attori sconosciuti, a parte la protagonista Marylin Chambers che era una star dell’allora nascente cinema porno. Ironia della sorte la Chambers ha poi subito interventi di chirurgia estetica al seno, allora – come qui abbondantemente mostrato – di dimensioni umane. Bel film. (Vhs da RaiTre; 12/12/99)

295 – L’orso del ricattatorio Jean-Jacques Annaud, Francia 1988

Di nuovo a Milano per il cenone di Santo Stefano, non bastasse l’abbuffata di ieri. Al pomeriggio c’è la classica programmazione televisiva per bambini. Il Cacace è accasciato sul divano, stracco e gonfio per le pesanti libagioni natalizie, e il telecomando è in mano a qualcun altro che decide di vedere questo film di Annaud. Il Cacace non riesce a reagire, offeso da una cassoela leggera come una trave Gerber. Subisce così la storia di un povero orsacchiotto rimasto orfano di madre e adottato da un enorme grizzly inseguito da due cacciatori di pelli. Il piccolo conquista la diffidenza dell’orso ferito che, alla fine, risparmierà uno dei due cacciatori. Fiabona che vuole essere realistica (vedi il pasto a base di cervo durante il quale ho rischiato di sboccare) ma poi antropoformizza gli orsi che neanche Disney e l’orsetto frigna come un infante. Il finale buonista è incredibile e diseducativo. Ho fatto un rutto che ha sancito la tregua col mio apparato digerente e mi sono addormentato. Per risvegliarmi per cena. (Diretta su Italia1; 26/12/99)

296 – Vamos a matar, compañeros del furbetto Sergio Corbucci, Italia 1970

Il millennium bug era una bufala per fregarci qualche soldo: il computer funziona ancora per cui non vi siete liberati di me. Per iniziare l’anno nuovo, febbricitante e intasato dal raffreddore, scelgo questo cult, uno spaghetti western in salsa chili e con abbondanti strizzate d’occhio alle simpatie politiche del pubblico giovane dell’epoca. Gli yankee sono bastardi e la Rivoluzione è cosa buona e giusta, anche usando le maniere forti. Però il gioco è scoperto e gli schematismi della sceneggiatura, il tratteggio rozzo dei personaggi e alcune facilonerie registiche fanno risultare tutto un po’ falso. La farsaccia si dipana seguendo le gesta picaresche di un simil Guevara, tal Vasco (il cubano Tomas Milian, molto simpatico), assieme allo Svedese (Franco Nero), un avventuriero inizialmente senza scrupoli e poi dalla parte giusta. Nemici: Mongo, un rivoluzionario egoista e, sotto sotto, gli americani imperialisti. Molte incursioni nel pecoreccio (rutti, pernacchie, parolacce), confezione grandiosa (anamorfico, non molto sfruttato), recitazione e ritmo nei limiti della decenza. Ma il film non è ‘sta gran cosa. Per niente, dai. (Vhs da Retequattro; 1/1/00)

301 – Forgotten Silver dei geniali Peter Jackson e Costa Botes, Nuova Zelanda 1995

Cent’anni di cinema. Bisogna celebrare la ricorrenza raccontando chi ha fatto grandi le cinematografie nazionali e Peter Jackson sceglie il geniale, sfortunatissimo e pertanto sconosciuto Colin McKenzie, un cineasta neozelandese di inizio secolo che inventò il sonoro, la pellicola a colori, la camera-car, la candid camera e tante altre cose ancora. Oggi è finalmente possibile vedere la sua Salomè restaurata, opera che girò in una foresta rigogliosa dove aveva costruito un clamoroso set in cemento armato. Qualche dubbio? Beh, all’inizio del rigoroso documentario si racconta del suo modo artigianale di sviluppare la pellicola con l’albume delle uova (ne avrebbe rubato duemila!). O quando i suoi esperimenti sul colore vengono avversati dall’apparizione davanti all’obbiettivo cinematografico di bellezze tahitiane ignude… O ancora quando documenta il volo di un pastore neozelandese (prima di Wright, nel 1903). Tutto il documentario è ineccepibile, punteggiate dalle serie testimonianze del produttore hip Weinstein, del critico Maltin e di altri. Ed è esilarante: ogni bufala è condita di humour paradossale e, per le menti deboli, anche credibile. Barbara s’è bevuta ogni cosa e quando le ho rivelato il fantastico inghippo c’è pure rimasta male. Lei, ormai, a Colin McKenzie voleva bene. (Vhs da RaiTre; 6/1/00)

MC084.jpg302 – Generazione Proteus di Donald Cammell, USA 1977

Proteus è un super computer dotato di intelligenza sovrumana. E non solo, come vedremo. Attraverso un terminale s’introduce nella vita della donna dello scienziato che lo ha creato e soddisfa la sua più grande aspirazione, altrimenti negatagli: trombare. E dà vita a un figlio, poco prima che un pool di tecnici non decida di spegnerlo. Fantascienza inquietante, naif ma ben giostrata: Proteus intuisce perché sia stato creato e si rifiuta di spalleggiare l’uomo nella corsa al profitto. Ma a fianco di questi nobili sentimenti convive la voglia umana di lasciare una discendenza, anche violentando (perlomeno psicologicamente) la donna che gli darà questo figlio. Sui dettagli tecnici di introduzione, lubrificazione, pistonamento e inseminazione, non entro. Regalato da Fuori Orario, Generazione Proteus dura poco più di un’ora e mezza dalla drammaturgia ineccepibile, dalla recitazione dignitosa e da più di una soluzione registica interessante. Ambiguo e curioso. (Vhs da RaiTre; 9/1/00)

304 – The Game – Nessuna regola di un cialtrone, USA 1997

A me ‘sto David Fincher sembra proprio un ganassa. Ma di quelli odiosi, che la devono sparare ad alta voce aspettando il coro di risate, se no insistono. The Game parte benino, poi dopo un po’ capisci che il meccanismo che t’intriga verrà ripetuto fino alle canonica ora e cinquanta di pellicola. Michael Douglas è un magnate, avido, arido di sentimenti etc.: Gordon Gekko di Wall Street leggermente più cattivo, figuratevi. Suo fratello, Sean Penn, artista, sciamannato, drogato etc. (e già qua ci starebbe una denuncia per abuso di stereotipo) gli fa un regalo: gli dona “il gioco”, senza spiegargli nient’altro: qualcosa accadrà. Douglas viene trascinato in situazioni sempre più assurde e il gioco consiste nell’uscirne vivo, nel sentirsi vivo nel dover fuggire la morte, la povertà, l’umiliazione. Quando non crede che sia un gioco gli dicono che era un complotto di cui era vittima anche il fratello, giusto per spogliarlo del suo immenso patrimonio. Se non crede a questa versione si riparte con quella del gioco. E così via. Solo che un bel gioco dura poco e tu, spettatore con le palle come due mappamondi, sai che la regia ti prenderà per il culo ancora un paio di volte ancora e, in fondo, che Douglas stia al gioco o venga derubato, non te ne frega più una minchia. Al limite tifi che ci rimanga secco. In ogni caso la faccenda si risolve e Douglas, in virtù delle vicissitudini passate, recupera un po’ di umanità (Penn gli dice: “Stavi diventando troppo stronzo”, come se esistessero dei limiti accettabili). Se siete di quelli che non amano le feste a sorpresa o gli scherzi pesanti di cui poi dovreste apprezzare l’intelligenza se no non siete sportivi, beh, lasciate perdere questo filmetto merdoso, ben girato, ben fotografato, ben recitato, ma falso come un colonnello del Sismi. (Vhs da Tele+; 15/1/00)

(Continua — 8)