di Dziga Cacace

OF0701.jpg192-…Altrimenti ci arrabbiamo! di Marcello Fondato, Italia 1974

Le regole sono fatte per esser trasgredite e allora eccovi la prima recensione di Cacace senza che il film sia stato visto. O meglio, senza che l’abbia visto prima di parlarvene, perché Altrimenti ci arrabbiamo! me lo sono scoppiato, senza esagerare, almeno un’abbondante dozzina di volte. E infatti ne parlo perché lo conosco a memoria e perché, per vari motivi, rappresenta un autentico cult della mia infanzia. E dell’adolescenza e della maturità. Se mai l’ho raggiunta.


Ieri sera passava su Retequattro e l’ho perso per una serie di concause che non sto a raccontarvi. Ma passiamo al capolavoro in questione. È un film per bambini, questo è chiaro. Ma è un ottimo film per bambini, come in Italia non se ne fanno più. La sceneggiatura, nei limiti imposti dal genere, fila come una locomotiva; i tempi comici sono perfetti, gli attori idem (e che gustose caratterizzazioni: il killer Paganini, il palazzinaro ingordo, lo scienziato pazzo tedesco…) ed eccelle pure la colonna sonora (dei fratelli De Angelis, quelli di Sandokan: chi non ricorda la virale Dune Buggy?). Siccome ammetto di non aver mai visto Lo chiamavano Trinità (mi riprometto di farlo in compagnia di Zook, per il quale è un pilastro culturale), considero allora, Altrimenti ci arrabbiamo! l’apice raggiunto dalla coppia Hill-Spencer, la coppia perfetta che m’ha fatto godere nei miei innocenti dieci anni con tanti altri epici film. Elenco in ordine sparso altri motivi per cui bisogna considerare il film un classico: 1) considerando la svalutazione della lira, è stato uno tra i più grandi incassi italiani di tutti i tempi (con Fantozzi, altro che Pieraccioni o i vari Benigni); 2) come già detto, ha una grande sceneggiatura e la regia è semplice ma non semplicistica (ué, non è mica facile fare un film per bambini, eh); 3) i vari pestaggi sono coreografati come balletti alla John Woo (scherzo, ma non troppo); 4) il film riesce a essere per tutti, senza volgarità gratuite, e, per quanto infantile, mai stupido; 5) l’ho visto quattro volte su grande schermo, di cui due nel cinema di Champoluc; 6) Terence Hill l’ho pure conosciuto. Era una notte a Roma del 1982, vicino al Quirinale, e chi si ferma a chiederci indicazioni per sapere dove fosse il Caffè Greco? Terence! Mi fece un autografo (che ho perso, argh!) e, alla mia petulante domanda su come andassero le riprese del suo deprimente Don Camillo, mi rispose con un “Già ‘o sai?”, passato alla – mia personale – storia. So che in molti non saranno d’accordo con il mio puro entusiasmo per questo film, ma mi sono levato un peso: Altrimenti ci arrabbiamo! è il manifesto di una generazione. Forse bacata, ma è la mia. (21/1/98)

195-Polvere di stelle di quell’impunito di Albertone, Italia 1973

Serata particolare al Lumière: prima del film, che ne è l’ideale complemento, un numero di avanspettacolo presentato da un gruppo di ragazzi non professionisti. Mi diverto assai e, se fosse per me, potrebbero farlo tutte le sere. Poi tocca al film e il primo spontaneo commento è: ve lo meritate Sordi!, infatti il film è una porcata di grana grossa. Sordi e la Vitti (bellissima) si barcamenano nel sud Italia del 1944, intrattenendo gli invasori che pagano meglio. Ma, una volta che la guerra finisce, l’effimero successo scompare e i morti di fame, per un attimo illusi di poter far carriera, devono constatare che nel giro grosso dell’avanspettacolo — figuriamoci, mica Hollywood – loro non ci entreranno. Si ride abbastanza e si notano: Alvaro Vitali, la pubblicità per niente occulta alla San Pellegrino (chiaramente del 1973!), la costante sciattezza della messa in scena, la totale indifferenza all’ambientazione che così risulta densa di imbarazzanti anacronismi e la partecipazione di Vanzina come aiuto regia, il che spiega molte cose (di Sordi e di Vanzina). E vabbeh, ci meritiamo tutto. Torno a casa e attendo Fuori Orario. Prima mi guardo il TG3 della notte e lo speaker deflagra in un vergognoso “se passerebbe”. Via, neanche l’italiano… Il CdA Rai non deve dimettersi: vanno tutti fucilati prima. (Cineclub Lumière; 22/1/98)

196-Atto di forza di Paul Verhoeven, USA 1990

Dick era un genio. Verhoeven un po’ meno, ma Total Recall risulta, anche alla seconda visione, un film gustoso. Le iperboli visive di Philip K. sono assecondate con gusto tra il cartoonish e il granguignolesco e gli effetti speciali, avendo ancora negli occhi le recenti mirabilie di certo cinema hollywoodiano, paiono effettivamente molto naïf. Ma che importa? Nulla! Swarzenegger interpreta un operaio che desidera tanto visitare Marte, anche perché ossessionato dall’incubo ricorrente di esserci già stato. Decide allora di regalarsi una vacanza virtuale, l’acquisizione del ricordo di un soggiorno sul pianeta rosso. Ma qualcosa non funziona: su Marte il prode c’è già stato in un passato di cui ha ricordi nebulosi. Lo scopre anche perché la moglie e il dittatore del pianeta iniziano a dargli una caccia senza quartiere. Trama decisamente interessante, regia funzionale e attori decenti: Sharon Stone si conferma la consueta super patata, ginnica e scattante come non mai, e anche Swarzenegger non delude; preso a ripetuti calci nelle palle reagisce con marmorea ironia. Un ultimo dubbio: a un certo punto appare una marziana con tre, dico tre, tette: chi s’è abbeverato alla fonte di Aelita di Protazanov (rec. n°355 de Lo sguardo mutilo)? Verhoeven, Dick o è puro caso, cioè inconfessato e comune desiderio maschile? Passo ad altro: Cineforum rende noto l’esito commerciale dei film finanziati con l’articolo 8; un dato mi strappa un sorrisetto da carogna: anche se significa che sono tra i suoi finanziatori, Tiburzi ha ricevuto 1200 milioni dallo Stato e 0 (dicasi zero) dal pubblico. Chi l’avrebbe mai detto, eh? (vedi Oblique visioni, rec. n°113). (Vhs; 23/1/98)

OF0702.jpg201-La maman et la putain di Jean Eustache, Francia 1973

Ci sono film che sconvolgono la storia del cinema e quella personale degli spettatori. Sono film che non possono essere liquidati con una recensione o un voto, sono film troppo personali, troppo riusciti (o mal riusciti), sono film “troppo” che scansano ogni razionalità di giudizio, sono film che rimettono in gioco tutto quanto si sia pensato del cinema fino al momento in cui si vedono. Cosa ci si può aspettare da un film che è praticamente recitato da cinque/sei attori in due o tre ambienti ed è “parlato” ininterrottamente per quasi quattro ore? Ci si può aspettare quello che m’è accaduto: rimanerne totalmente coinvolti e sconvolti. Perché La maman et la putain è un film indifferente a ogni convenzione cinematografica che, dopo tanto faticoso vedere, si ritiene sia intoccabile: scompagina, rivolta e mette in discussione quello che ho sempre pensato di dovermi aspettare da un film. E soprattutto ti/mi convince che, anche per questo stesso film, sia impossibile arrivare a un sereno e obiettivo giudizio. La maman et la putain ha una partenza un po’ blanda, forse addirittura indisponente: tu, spettatore entri in un gioco di dialoghi, sorrisi, parole e pensieri da cui non puoi rimanere più estraneo. Entri nel film, nella vita dei personaggi e dopo tre ore e quaranta non vorresti più uscirne. Cosa accadrà ai personaggi? Come vivranno? Io non volevo più staccarmi dalla benedetta poltroncina a cui ero rimasto inchiodato per tutto quel tempo. Per uno di quei misteriosi miracoli che talvolta rendono viva e pulsante una pellicola, anche stasera io esco dalla sala con quella sensazione felicemente fotografata da Pier Paolo, la sensazione di lasciare alcuni amici di celluloide; e chissà se avrò mai altre loro notizie. Alexandre (Jean-Pierre Léaud, di una bravura impressionante) è un gran bevitore, nulla facente, filosofo anti-filosofo, anticonformista, cinico, disperato, dolcissimo, curioso, libero, generoso e spiantato (dopo tre ore e mezzo ne viene fuori un ritratto decisamente sfaccettato e credibile). Si divide tra l’amore di Marie (che lo ospita) e Veronika. Verrebbe da identificarle subitaneamente con la maman e la putain: la prima protettiva e ospitale, più matura e adulta (e distaccata: con Alexandre si dà del lei); la seconda dolente, che fa sesso per disperazione, senza amore, legata a un mestiere ingrato, insoddisfatta. Ma questa facile attribuzione non è confermata dallo svolgimento dei fatti: come nella vita, è tutto più complicato e indefinibile. Alexandre rimbalza tra queste due figure senza sapersi decidere e alla fine, sulle note di Les amants de Paris, rimarrà solo: quasi un amareggiato monito sul destino di una generazione destinata a fallire per troppa generosità. I tre attori principali sono assolutamente straordinari (l’ultimo monologo della Lebrun è da brividi) così come i dialoghi, brillanti e poetici. Certo, nelle quasi quattro ore ci sono anche delle pecche, ma non tutto, anche nella vita, è memorabile. Nel turbinio di sensazioni e ricordi che il film mi lascia, voglio anche evidenziare la marea di rimandi letterari, musicali e cinematografici, si potrebbe scriverne un saggio: si parla di Bernanos e Bresson (ovviamente), di Sacha Guitry, di Flaubert, di Michel Simon, di Murnau, di Borges, di Mozart, di Edith Piaf. Si spezzano lance a favore di Leone e si censura Petri e soprattutto si ascoltano a più riprese i Deep Purple del misconosciuto ed esaltante Concerto for Group and Orchestra (e già questo è il segno di un’intelligenza superiore). Gran premio della giuria a Cannes nel 1973, La maman et la putain è un film eccezionale in senso letterale e, non avendo più parole per comunicarvene la grandezza, concludo con la laconica affermazione del nostro eroe Alexandre che farò mia per sempre: “Hanno dimenticato due cose nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo: il diritto di contraddirsi e quello di andarsene”. (Cineclub Lumière; 29/1/98)

204-Un ragazzo e una ragazza di Marco Risi, Italia 1983

Sono colpevolmente fiero di amare tutti i film che ho visto durante l’infanzia e l’adolescenza. E Un ragazzo e una ragazza è tra questi. Ci vorrebbe una bella faccia tosta a non rilevare le deficienze di questo film, le vanzinate di cui è costellato (i Vanzina sono autori del soggetto) e le scene risolte alla cazzo di cane. Ma come non amare Calogero Bertolotti (Jerry Calà, capittoo?), l’eterno fuori corso che un giorno diventerà psicologo infantile (lui, non i pazienti) e che si schiarisce le idee facendosi uno shampoo? Come non apprezzare la ribalda vitalità di Anna De Rosa (la Suma), fiera studentessa napoletana che fa carriera in una Milano che sembra quasi bella? I due si incontrano con la storica battuta di Calà “Io diventerò il protagonista maschile della storia di quella ragazza lì”, si piacciono e iniziano una storia d’amore che andrà avanti tra alti e bassi. Rispetto alle solite commedie italiane c’è un apprezzabile e non comune senso di amarezza. Invece, comune all’omofobia del macho cinema nostrano, sono le battutacce sui gay. In definitiva il film è zeppo di difetti – lo so, lo so -, ma basta la prostituta, interpretata da Serena Grandi, che ha la lisca e chiede “Mo ce l’hai i scioldi?”, per perdonare tutto. E poi Risi si permette anche di citare Sherlock Junior di Buster Keaton. Vabbeh, dài, lo ammetto: ‘sto film vale poco, ma anch’io, come Calogero, “del ragazzo conservo tutto l’incanto e il candore della sincerità” e non mi va di scrivere “ambigue frasi levantine”. Non ho bisogno di uno shampoo per dichiarare che, con tutte le sue cadute, Un ragazzo e una ragazza è un esile, mal riuscito capolavoro di serie C che porterò sempre nel cuore. E non sono il solo: vero, Pier Paolo e Alberto? (Vhs; 31/1/98)

OF0703.jpg209-Harry a pezzi di Woody Allen, USA 1997

L’ultimo Woody, osannato a Venezia… bah! Intendiamoci, il film è piacevole, ha impennate umoristiche clamorose (la prima scena con sesso a pecorina davanti a una vecchia nonna non vedente che equivoca), battutacce scorrettissime (“Ti sei mai scopato una cieca? Sono talmente grate!”) e parte da una idea ambiziosa: raccontare come arte e vita vengano a conflitto. Il tema è doppiamente interessante non solo per il tipo di riflessione, ma anche perché gli aspetti pubblici e privati della vita del regista son sempre parsi confluire nella sua opera. E Woody si diverte a mescolare le carte costruendo una finzione letteraria parallela al mondo reale, perché sí, Harry Block, il personaggio principale, alimenta la sua creatività rifacendosi a esperienze private, ferendo l’esistenza dei molti che gli stanno vicino e il regista segue questo percorso d’ideale decostruzione della vita e delle opere di Block, operando anche intelligenti scelte linguistiche. Ma c’è il dubbio che, alla fine, continuando a rimestare nel torbido, Allen voglia allontanare da se stesso il sospetto che lui usi la sua vita privata per l’arte, ma facendo il percorso opposto: è con l’arte che giustifico la mia vita. Idea non male, ma troppo autoassolutoria per sembrare slegata dalla vita vera del regista. Woody ha, per l’ennesima volta, puntualizzato che Block non è lui, ma il dubbio rimane e lui ci gioca. Va beh, sono fattacci suoi trovare il propellente per le sue idee o utilizzare il cinema per autopsicanalizzarsi. Ma il grosso problema del film è che si perde nella confusione mentale del protagonista. Dopo un primo tempo sostenuto, seguiamo Block che va a ricevere un’onorificenza nell’università che l’aveva, in altri tempi, cacciato. Come ne Il posto delle fragole si abbandona a ricordi, sogna incontri, immagina spiegazioni, s’ingarbuglia in una sorta d’autodifesa che, quasi per non far perdere il filo allo spettatore ma praticamente incasinandolo ancor di più, mescola i personaggi a quelli creati dalla penna di Block. Il film perde colpi, accumula occasioni mancate e alla fine delude. Noterelle stolte: 1) Kirstie Alley è diventata un bidone (come Travolta, del resto: ma Scientology ingrassa?); 2) la Shue ha un viso stupendo e sa veramente illuminare lo schermo; 3) il tasso di volgarità orale (in tutti i sensi) è veramente alto, ma liberatorio e nulla ho da obiettare; 4) gli attori se la cavano tutti bene, particolarmente la Davis e Crystal; Demi Moore, per una volta, si tollera; 5) Woody: lascia stare quel benedetto zoom!; 6) ottima invece la dissacrante scorrettezza politica verso tutti e 7) geniali l’idea del Bar Mitzvah con festa a tema Guerre stellari e dell’attore fuori fuoco (ma purtroppo è l’opera a essere fuori fuoco). Elencate tutte ‘ste quisquilie, ricordo la battuta che l’analista riserva a Block: “Lei si aspetta che il mondo si adegui alla stortura che lei è diventato”. Anche Woody pretende che lo spettatore si adegui? Non so: Cacace a pezzi. (Cinema Plinius, Milano; 6/2/98)

210-Mr. Bean — L’ultima catastrofe di un vero Fesso, Gran Bretagna 1997

Il fatto che questa atroce stronzata abbia conosciuto straordinario successo in tutto il mondo dimostra che la rampante follia di fine millennio non sia un’invenzione giornalistica. La vicenda è talmente inconsistente che non vale neppure la pena di perdere del tempo: stupisce però che in tutta la pellicola si possano contare non più di una decina di gag, delle quali solo due o tre capaci di strappare un generoso sorriso. Come si può dissipare il talento di Rowan Atkinson in una trama dall’esilità così scoraggiante? Come si può produrre un film così devastante, così privo di nerbo, idee e ritmo? Si può, evidentemente, e con ottimi incassi. C’è da preoccuparsi seriamente: il più noioso episodio televisivo di Mr. Bean accumula più numeri di questa pigra merdata, irritante nel suo procedere a tentoni per arrivare alla canonica ora e mezza di durata. E non bastano a reggere il film le due o tre belle location (fotografate con svogliata velocità) o la mimica facciale del protagonista: dopo cinque minuti s’inizia a sbuffare dalla noia. Erano tutti imbarazzati (Pier, Barbara, Alessandra, Simona e Co.), ma più di tutti lo ero io, mai pensando a un simile disastro. E poi, cari distributori italioti: Ultimate Disaster Movie non significa “l’ultima catastrofe”. Mr. Bean di Mel Smith finisce di diritto nella mia Worst Ten a far compagnia ai più angoscianti pacchi scientemente subiti in una sala cinematografica. Fanculo, va’. (Cinema Rosetum, Milano; 8/2/98)

211-La seconda guerra civile americana di un regredito Joe Dante, USA 1997

Accolto benissimo dalla critica nella rassegna veneziana e ben ricevuto dal pubblico delle sale, come reagisco io di fronte a questo Landis? Ma male, cazzo, malissimo! Perché La seconda guerra civile americana è un bel bidone! A un esame superficiale si possono apprezzare l’intelligenza del soggetto o l’utilizzo di una salutare ironia, okay, ma poi? Questi elementi sono sfruttati a dovere? Trovano riscontro nel racconto? Ma no, porco cane: per niente. È scritto pedestremente e girato con un insipido linguaggio televisivo (non a caso è un tv movie) e non mi basta la presunta intelligenza di un autore che riesce a elevarsi dal mediocre livello dei suoi conterranei: basta che un americano si mostri un po’ arguto, ironico e, magari, anche cinéphile, che tutti, critico e pubblico, ci cascano. E va bene il pubblico, che è ignorante, rozzo, tutto quello che volete, ma come fa la critica a trovare originale questo pessimo ricalco del Dottor Stranamore? Sono arcistufo di ‘ste cacchiate: non mi basta Three Flags di Jasper Johns che strizza l’occhiolino agli spettatori più avvertiti per dirgli che stiamo parlando dell’implosione degli Stati Uniti, non mi bastano gli ammiccamenti alla fame feroce di quel maniaco sessuale del presidente Clinton. Non mi bastano tutte queste cose se il ritmo è fiacco e le situazioni comiche sono infantili. Il becero mondo dei media, la stupidità dei politici e dei militari, gli egoismi locali, l’incomprensione generalizzata, il dramma dell’immigrazione… ma li abbiamo già visti migliaia di volte e in film decisamente migliori! E non bastasse tutto ciò: quando il film vuole tirare le somme “seriamente” affida delle sconcertanti banalità al commento off di un tollerante e democratico giornalista di colore. Insomma: La seconda guerra civile americana non m’è piaciuto proprio. Male. (Cineclub Lumière; 9/2/98)

OF0704.jpg212-LéoLo di Jean-Claude Lauzon, Canada/Francia 1991

Prima di iniziare, devo comunicare che il film è piaciuto a Marco (7/8 in pagella). A chi non frequenta il Lumière, cioè quasi tutti voi, la cosa non dice niente. Quei sette lettori che, invece, al Lumière ci hanno messo le radici e ogni sera sentono gli sbuffi, gli sbadigli e le imprecazioni di Marco, rimarranno di stucco. Intendiamoci, se è piaciuto a Marco, non significa che, allora, LéoLo sia un assoluto capolavoro. Francamente, sembra casuale che Marco apprezzi l’universo magico di LéoLo e non, chessò, quello amaramente sconclusionato di Black Comedy, ma mi fermo qui: andare oltre è compito della psicologia. Léo Lauzon è un bambino che vive a Montreal negli anni Cinquanta: siccome avverte la vena di follia che permea l’ambiente familiare, decide di isolarsi in un mondo di fantasie per sfuggire alla quotidianità. Il padre (“un uomo delle taverne”) è un pacioccone ossessionato dalla stitichezza dei figli, l’amatissima madre è un’obesa preoccupata di sostentarli e il nonno è un afasico sporcaccione. Le due sorelle sono presto preda della pazzia, mentre il fratello maggiore è già un enorme e muscoloso rimbambito. Forse ora vi è chiaro perché LéoLo si vuole convincere di non essere parte di questa famiglia: crede di essere stato concepito quando sua madre è crollata su un banchetto di pomodori al mercato; tra quei pomodori ce n’era uno contaminato dal seme di un contadino siculo. E da allora Léo si fa chiamare Léo Lozone, cioè LéoLo. La fuga onirica avviene grazie alla scrittura e LéoLo scrive praticamente di continuo, raccogliendo le sue impressioni sul mondo che lo circonda, confessando il suo sogno d’amore per Bianca (una ragazza immigrata siciliana) e, continuando a ripetersi che, se sogna, lui non è. Non è canadese e non è pazzo, finché un attacco di epilessia lo sottrarrà alle sue fantasie per farlo tornare a essere ciò che infantilmente, disperatamente e lucidamente fuggiva. Le vicende sono “lette”, direttamente dai diari del piccolo protagonista, dal personaggio che per primo gli aveva portato un libro (L’avalée des avalés di Ducharme), stimolandolo alla lettura e alla scrittura: alla fine del film i diari saranno riposti in un polveroso scaffale di una biblioteca sotterranea dove sono accatastate opere d’ingegno dell’umanità… l’arte è frutto del sogno? O paravento di altre pazzie? Fotografato con gusto e montato in blocchi cronologicamente disordinati, LéoLo presenta una buona scrittura sospesa tra grottesco, surreale e tragico. Nel secondo tempo affiorano alcune pause e bisognerebbe rimproverare all’autore (già passato a miglior vita) un debito al limite del plagio con Il lamento di Portnoy (le figure dei genitori, la scoperta della pulsioni sessuali e la maniera, ehm, per soddisfarle). Ma un film che mette nella colonna sonora Cold Cold Ground di Tom Waits e You Can’t Always Get What You Want dei Rolling Stones merita il nostro amore, tanto da perdonargli un’orrenda canzonaccia italiana che sembra una parodia di Battisti (non sono riuscito a leggere, nei credits, cosa fosse). Alla fine, LéoLo risulta originale e intrigante. Bel film. (Cineclub Lumière; 10/2/98)

213-Amor pedestre 3 di M. Fabre, Francia 1914 e Thaïs di Anton Giulio Bragaglia, Italia 1916

Serata futurista al Lumière, parallela alla mostra che si sta tenendo a Palazzo Ducale. Vengono presentati due rari film di cui vi riferisco le vicissitudini storiche riprendendo pari pari ciò che è stato detto durante l’introduzione. Amor pedestre 3, la cui datazione è incerta, è stato trovato nel dopoguerra in un manicomio. Il direttore dell’istituto di cura calmava i pazzi a botte di Charlot, Ridolini e altre comiche del muto e tra le tante pellicole c’era anche questo carinissimo corto: un film fatto “coi piedi”, dove assistiamo a un incontro, un corteggiamento, un appuntamento e infine un duello. Il tutto ripreso dalle ginocchia in giù. Idea divertente e ben risolta, con maliziosa chiusa. Forse futurista in quanto sberleffo (vabbeh, allora anche Dada, Surrealista etc.), comunque, altro che i corti d’oggi. Poi tocca al famoso Thaïs di Anton Giulio Bragaglia. Abbiamo un complicato dramma in cui Thaïs, eccentrica femme fatale, assiste con superficialità all’amore non corrisposto della sua amica Bianca per un suo pretendente, il Conte Sanremo. Va a finire che Bianca fa un bel volo da cavallo e Thaïs si sente responsabile per la sua morte. Per la disperazione si suicida. Ed è qui che il contributo futurista è più evidente: le belle e fantasiose scenografie furono curate da Prampolini e, nell’ultima scena, c’è il clou: Thaïs viene trafitta da una serie di lame che escono dalle pareti. A essere sinceri, mi pare che il film goda di una fama spropositata, forse proprio perché s’è visto poco in giro. In ogni caso è divertente (spesso senza volerlo: la recitazione del 1916 era leggerissimamente carica) e intrigante per l’utilizzo delle originali scenografie. Il Lumière era pieno, ma con l’ingresso libero per i soci e per i possessori del biglietto della mostra sul futurismo, quasi nessuno ha sborsato una lira. (Cineclub Lumière; 11/2/98)

OF0705.jpg214-Posta celere di Pal Sletaune, Norvegia 1997

Quarta sera consecutiva al Lumière per questo Posta celere, film norvegese presentato a Cannes l’anno passato (premio della critica) e passato come una meteora sugli schermi di tre città italiane. Per fortuna ci pensa il mio cineclub a fare giustizia perché, secondo me, si tratta di una delle migliori pellicole viste quest’anno. Non spaventatevi se la critica ufficiale vi farà le solite menate sullo sguardo indiscreto del protagonista, se inizieranno a sproloquiare di voyeurismo et similia. Le lodi che la stampa ha dedicato al film sono tutte meritate. Tutte. A parte una sbavatura nel secondo tempo (un insistito richiamo comico un po’ forzato), questo Posta celere si distingue per la sceneggiatura che fila come un treno, per la caratterizzazione dei personaggi (e la loro interpretazione), per la splendida fotografia, il montaggio e i movimenti di camera discreti ed esaltanti nella loro misura. Dialoghi essenziali e riusciti, gran ritmo, notevole senso dell’immagine e soltanto 83 minuti di durata (che è un bel pregio, lasciatemelo dire). Trama: Roy è uno sfaticato postino che evade giustamente la corrispondenza superflua (la pubblicità) in una galleria ferroviaria e che sbircia nella posta altrui. È un voyeur dei cinque sensi, curioso e avido di suoni, immagini, gusti, odori e sensazioni tattili. Casualmente trova le chiavi di casa di una ragazza sorda: non resiste e inizia curiosare nel suo appartamento. Alla seconda visita, la ragazza, Line, torna inaspettatamente a casa. Roy si nasconde e, quando sta per fuggire, la salva mentre lei tenta di suicidarsi (come una Ofelia nordica, imbottita di sonniferi e adagiata sotto il pelo dell’acqua nella vasca da bagno). Non visto, scappa. Ma la curiosità è di nuovo troppo forte, anche perché, in casa di Line, Roy ha scoperto una bella mazzetta di denaro: Line ha aiutato il villain Georg a fregarli a un povero portavalori adesso ricoverato all’ospedale. L’inseguimento tra le due anime sole continua e si risolve in maniera imprevedibile. Tra virate comiche irresistibili (il postino idiota che conosce per nome tutte le persone a cui consegna, un karaoke con la più originale riproposizione di Born to Be Wild mai sentita, l’imprevedibile scambio di persona tra Roy e Georg) e ottime recitazioni, Sletaune confeziona un film che ha reso contenta anche Hilda (trascinata da me al cinema). Un’ultima puntualizzazione da nemico giurato della critica salottiera e poltrona: qualcuno ha velocemente etichettato Posta celere come un Kaurismaki di seconda mano. Niente di più lontano dal vero: certo, ci sono le desolate ambientazioni del profondo nord, i personaggi sono un po’ disperati e silenziosi, la fotografia è vivida… okay, ma è come se uno si lamentasse che in tutti i film sul sud Italia ci sia il sole. C’è, eh! Per cui i tratti che accomunano Sletaune a Kaurismaki mi sembrano assolutamente superficiali: c’è un modo completamente diverso di narrare, di utilizzare i silenzi e le pause (Kaurismaki ne abusa, talvolta a sproposito, Sletaune è equilibratissimo) e di far muovere gli attori. Altro discorso è chiedersi cosa cacchio avrà fatto la Scandinavia agli scandinavi. (Cineclub Lumière; 12/2/98)

221-Soho di un Ciarlatano Pure Presuntuoso, Gran Bretagna 1997

Una cosa orrenda come questo Soho, così pretenziosa, così stronza, dilettantesca e irritante non m’era mai capitata di vederla. Per i mesi di febbraio e marzo, Claudio ed Enrico hanno deciso di rendere omaggio alla cosiddetta British Renaissance, invenzione giornalistica che vorrebbe accreditare a tanti film inglesi una sorta di appartenenza a un “movimento”. Ingoio Loach, accetto Leigh e apprezzo Winterbottom, ci mancherebbe. E anche il fenomeno Trainspotting, dài… ma ecco che è tutto un fiorire di mestieranti rubati all’agricoltura che infestano le nostre sale. Quest’anno va “l’inglese”…Un po’ come il Brit Pop, un’altra bella manovra della stampa specializzata per rifilarci i cloni ripetitivi e ignoranti dei Beatles e dei Rolling Stones. E noi, fessi, a ingoiarci una bufala dopo l’altra. E così al Lumière arriva uno dei film peggiori della stagione, peggio anche dell’ammorbante Mr. Bean (inglese, non a caso), che almeno non era presuntuoso. Questo immondo Soho, che vede l’inusitata partecipazione di Harold Pinter, è un film scritto e girato col culo, una improbabile accozzaglia cinematografica dove non si capisce cosa cazzo abbia da dire la storia che ci viene raccontata (rapporti di potere, omosessualità, violenza, boh). I personaggi sono scandalosamente evanescenti e, quasi a dargli sostanza, gli attori s’impegnano a interpretarli esagitandosi in smorfie, scene madri e affabulazioni assolutamente fuori luogo. Si aggiungano anche citazioni e scopiazzature gestite alla cazzo e una fotografia che azzecca qualche cromatismo, ma perlopiù sciatta (le solite ombre multiple) e buttata lì, di nuovo con il sospetto che tutto sia puramente casuale. Un film può annoiare, può essere mal riuscito, ma questo Soho fa proprio incazzare. Un saccheggio del buon rock degli anni Cinquanta sembra l’unico motivo per l’ambientazione, ma per il resto? Per fortuna mi sono evitato Il bacio del serpente di cui tutti gli amici della sala hanno detto cose turpi, ma avrei preferito vederlo al posto di questa umiliante stronzata che è stata incredibilmente ospite della rassegna veneziana dell’anno passato, forse solo per essere stata diretta da Jez Butterworth, un regista teatrale di fama. Per quel che mi riguarda, un imbecille. (Cineclub Lumière; 19/2/98)

222-Ossessione di Luchino Visconti, Italia 1943

Scusate, ma a me Ossessione ha proprio ossessionato. Ho un sacco di scuse: l’ho visto in vhs (lo so, ma se devo aspettare una retrospettiva su Visconti in una sala cinematografica, muoio prima), ero stanchissimo e la copia era brutta forte. Ma fin da subito non mi sono piaciuti i personaggi: Girotti è inespressivo, la Calamai odiosa e Juan De Landa idem. Okay, ma Visconti voleva proprio raccontarci questo, mi direte: la tremenda provincia italiota. Erano tempi di telefoni bianchi e di drammoni in costume e questo era un sonoro ceffone alla rispettabilità che il fascismo propagandava, certo. Non c’è impeto declamatorio, la recitazione è realistica, la descrizione della provincia è pungente, il racconto è torbido e sensuale… avete ragione, ma che due coglioni, eh! M’ero scelto questo capolavoro per disintossicarmi dopo la funesta visione di Soho, ma sono rimasto deluso. Vabbeh, faccio il critico topo da cineteca e vi rivelo una chicca di nessuna importanza: dopo che il tormentato Gino e la tritapalle Giovanna hanno fatto secco il Bragana, c’è un prete che li vuole unire in matrimonio che si chiama Don Remigio. Volete dirmi che Nanni Loy (in Testa o croce, cult di Zook) citava? Massì, mi piace pensarlo. Il film ha leggibili ascendenze nel realismo sociale francese e (perché tutto buddisticamente ritorna) il Maestro Bertolucci ha fortemente attinto: in Novecento (anche se con motivazioni diverse) ci sono citazioni dirette (i contadini che giocano alla morra) e riaffiorano volti e situazioni. Chissà. (Vhs; 20/2/98)

(Continua — 7)